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alla vendita. Ma egli ritornò giú, ed entrò nella cassa centrale, accanto al suo studio. Era una stanza chiusa da una invetriata con un usciolino, traverso cui si vedeva un’enorme cassaforte infissa nel muro. Due cassieri vi raccoglievano gli introiti che ogni sera portava il Lhomme, primo cassiere della vendita, e coi quali poi si provvedeva alle spese, si pagavano i fabbricanti, gli impiegati, quel piccolo mondo che campava sul gran magazzino. La cassa dava su un’altra stanza, tutta scatole verdi lungo le pareti, dove dieci impiegati riscontravano le fatture. Passò poi per un altro ufficio, quello del diffalco: sei giovani chinati su neri tavolini con dietro alle spalle intere collezioni di registri, vi segnavano i conti del tanto per cento dei commessi, raffrontando le fatture. L’ufficio era nuovo, e non andava ancora come avrebbe dovuto.

Il Mouret e il Bourdoncle avevano traversata la cassa e l’ufficio di riscontro. Quando passarono nell’altro ufficio, i giovani, che ridevano allegramente, ebbero un sussulto di sorpresa. Allora il Mouret, senza stare a sgridarli, spiegò il sistema del premio che aveva pensato di dar loro per ogni errore scoperto nelle fatture; e, subito che fu uscito, gl’impiegati, smettendo di ridere e pieni di buona voglia, si misero al lavoro, in cerca di sbagli.

A pianterreno nel magazzino, il Mouret andò difilato alla cassa numero 10, dove Alberto Lhomme, nell’aspettare avventori, si ripuliva le unghie. Da quando la signora Aurelia, ch’era la prima «nelle manifatture», dopo aver sospinto il marito al posto di primo cassiere, era riuscita a ottenere una delle casse minori pel figliuolo, giovinotto pallido e pieno di vizi, che non stava


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