Il crepuscolo degli idoli/Federico Nietzsche
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FEDERICO NIETZSCHE
Quelli che vogliono comprendere e gustare l’opera di Nietzsche, io credo che faranno bene considerandola dapprima non dal punto di vista del suo valore generale, scientifico o sociale, ma più semplicemente come una confessione, come una specie di giornale intimo.
È Nietzsche il fondatore di una religione, di una nuova cultura; o non è che un distruttore sterile e condannabile delle più essenziali credenze dell’umanità? È degli il profeta di un avvenire fecondo in promesse; o, al contrario, il tardo rappresentante di un lungo passato vicino a sparire? L’influenza morale da lui esercitata è benevola o funesta? — Sono queste altrettante questioni di cui noi non sconosciamo l’importanza capitale, ma di cui ora non affronteremo qui l’esame. Noi crediamo infatti che Nietzsche vale più ancora come uomo, come personalità, come poeta che come filosofo, come autore di un sistema logico e coordinato di teorie. — Si può amare un Pascal, per esempio, si possono leggere e gustare profondamente i suoi Pensieri senza condividere le sue convinzioni e senza credere alla sua apologia del cristianesimo. Si può, anche, sentire pienamente tutta la nobiltà morale di una natura come quella di Nietzsche, e tutta la bellezza lirica di Zarathustra, senza perciò sottoscrivere a tutte le sue idee e fare professione d’«immoralismo» o di «radicalismo aristocratico». Ci limiteremo dunque ad indicare a larghi tratti ciò che è stata la personalità di Nietzsche e come essa si è sviluppata; schizzeremo la storia della sua vita esteriore ed interiore; diremo quali furono le sue avventure intellettuali, sempre più pericolose, in cui lo compromise la sua appassionata sincerità d’intrepido cercatore; analizzeremo nelle sue fasi successive il dramma del suo destino, — dramma tutto interno ed invisibile, ma tragico quant’altro mai, coronato dalla più brutale e fosca delle catastrofi, il cui epilogo si svolse nella pacifica villa di Weimar ove si compì la «fine di Zarathustra».
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La prima parte dell’esistenza di Nietzsche trascorse molto pacifica. Nato il 15 ottobre 1844 a Roecken, dove suo padre era pastore, divenne orfano all’età di cinque anni, e fu allevato con sollecitudine e tenerezza da sua madre. Fece i suoi primi studi a Naumburgo, ove si era recata la sua famiglia nel 1850; entrò in seguito alla scuola di Schulpforta, vicino a Naumburgo, dove restò sei anni (1858-1864). Compiuti i suoi studi secondari, seguì i corsi delle università di Bonn, e poi di Lipsia, ove studiò la filosofia classica; fece il suo servizio militare, interrotto presto da una caduta da cavallo che gli costò lunghe cure; ritornò in seguito a Lipsia per prepararvi una tesi di dottorato. Ma prima di averla compiuta venne nominato, nel mese di febbraio 1869, professore all’Università di Basilea. Vi passò dieci anni, conducendo la pacifica e laboriosa vita del sapiente tedesco, facendo, tanto regolarmente quanto glielo permetteva la sua salute, i suoi corsi all’Università ed al Pädagogium di Basilea, lavorando con passione nelle sue prime opere filosofiche e letterarie, riposandosi dei suoi lavori con delle escursioni in Isvizzera o nel nord d’Italia, durante le vacanze di Pasqua ed in estate.
Il solo avvenimento esteriore che venne a turbare quella pacifica esistenza fu la guerra del 1870 alla quale Nietzsche prese parte come infermiere, ma per poco tempo invero, giacchè presto si ammalò gravemente e dovette ritornarne per curarsi. Quella malattia sembra essere stato il punto di partenza dei mali di testa e di stomaco di cui Nietzsche cominciò a soffrire a principiare da quell’epoca e che, aggravandosi progressivamente, nel 1879 lo obbligarono a lasciare la sua situazione di professore.
Il carattere di Nietzsche è in armonia perfetta con quella vita discreta. Egli non ha niente del rivoluzionario, del ribelle. Fin dalla sua infanzia ci appare come una natura grave e dolce, ben presto ripiegata su se stessa, i cui tratti dominanti sono un profondo sentimento religioso ed un’assoluta sincerità, una precoce sensibilità unita ad una fermissima volontà, un aristocratico ed innato gusto della bellezza, della forma bella, alleantesi ad un istintivo orrore di ogni volgarità fisica e morale, di ogni dubbio contatto. — Siccome la sua famiglia godeva una modesta agiatezza, egli non conobbe mai il bisogno, nè le aspre necessità della lotta per il pane di tutti i giorni; egli potè svilupparsi in piena libertà nel senso in cui lo portavano i suoi gusti e i suoi istinti. La sua prima infanzia ci appare come avvolta in un velo di melanconia, in seguito alla morte del padre, ma la sua giovinezza in complesso fu felice, esente da grandi dolori e ricca di piccole gioie. Poco incline alle grandi espansioni e ad entrare in contatto col mondo esteriore dove troppa gente e troppe cose offendevano quell’intrattabile senso della «proprietà» ch’egli metteva in tutto, visse tra sua madre, sua sorella e qualche amico scelto, felice di prodigare in quel ristretto circolo i tesori di tenerezza di cui era piena la sua anima, come pure di avere in ricambio dai suoi intimi l’affetto e la tenerezza femminile, uno dei suoi profondi bisogni.
Nessuno fra i suoi prossimi pensò mai a contrariare la sua evoluzione interiore. Fu libero di coltivare il suo «Io» com’egli lo intendeva, di darsi liberamente al gusto precoce e vivissimo per la musica e la poesia, di soddisfare con lunghi anni di studio alla scuola e all’università la sua curiosità scientifica, quel bisogno di cultura universale che era la sua più forte passione. Vi è dunque perfetta armonia tra la vita di Nietzsche e i suoi istinti. La sua esistenza si accomoda automaticamente, conformemente ai suoi gusti, senza che vi sia da sostenere una lotta per crearsi una posizione. Egli non soffrì neanche per strazi interiori, per crisi intellettuali o sentimentali. S’egli non è un ribelle, non è nemmeno un decadente, un nevrotico. A dispetto delle apparenze, crediamo che non sia affatto paradossale affermare che Nietzsche è in fondo una natura sanissima. Ciò è vero probabilmente anche dal punto di vista fisico: Nietzsche appartiene ad una razza solidamente costituita, in cui la longevità era di regola; e basta averlo visto una volta sola, anche al tempo della sua malattia, con la sua alta e forte statura quadrata, per avere la netta impressione che non ci si trovava dinanzi ad un temperamento esaurito, ad un degenerato fatalmente destinato allo sconvolgimento ed alla follìa, ma al contrario dinanzi ad un organismo primieramente sano e robusto, di cui una causa fortuita — influenza ereditaria, malattia accidentale o cattiva igiene — ha finalmente rovinato l’equilibrio.
Anche dal punto di vista psicologico Nietzsche ci appare come una natura ricca, complessa, raffinata, è vero, ma per niente anormale. Egli è tutt’una volta intellettuale e sensitivo, volontario e passionale, pensatore e sapiente, poeta e musicista. Ma la sua personalità conserva nondimeno sempre una perfetta unità. Non si trova in lui traccia di quella anarchia degli istinti che è uno dei sintomi più caratteristici della degenerescenza. Quasi mai lo si vede in lotta con se stesso. Indubbiamente egli cambia. Durante la sua gioventù perde a poco ai poco la sua fede cristiana; più tardi si distacca dai suoi iniziatori alla vita dello spirito, Wagner e Schopenhauer. Ma queste trasformazioni, se non si compiono senza dolore, si fanno almeno senza strappamenti, in virtù di una specie di assoluta necessità che agisce sulla sua personalità tutta intera; non è tirato in senso contrario dalla sua ragione e dalla sua sensibilità, o dalla sua intelligenza di pensatore e dai suoi istinti di artista, come avvenne per esempio a Heine. Ed è pure per questo che la sua vita interiore, la cui evoluzione è dominata da una specie di fatalità immanente ed irresistibile, offre lo spettacolo di una perfetta unità e di un ammirabile logica, fino al momento in cui il suo normale sviluppo è bruscamente arrestato dalla catastrofe che mette fine alla sua esistenza cosciente.
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Due tendenze apparentemente contraddittorie, ma in realtà conciliabilissime, si manifestano in Nietzsche parallelamente in tutte le epoche della sua vita, una positiva che lo spinge all’entusiasta affermazione delle sue ammirazioni, della sua fede, del suo ideale, e l’altra negativa che lo obbliga a combattere con aspra violenza tutto ciò che gli appare come un pericolo, una minaccia per quell’ideale. L’istinto positivo, il bisogno di dire «sì», di amate, di ammirare, di rispettare, sembra sia il tratto più profondo della sua natura, ed anche il più commovente. Egli vede nel «rispetto» una delle virtù cardinali della morale dei «padroni». Un’anima nobile deve sapersi inclinare con ammirazione ed amore dinanzi ad ogni superiorità, ad ogni vera grandezza; si onora essa stessa rendendo omaggio a ciò che è degno di omaggio; per lui l’egualitario che non vuole «nè Dio nè padrone» e rifiuta di riconoscere a chicchessia il diritto di comandare, l’indiscreto al quale manca il sentimento delle «distanze», l’invidioso soprattutto che odia istintivamente tutto ciò che è grande, per il fatto stesso che essi mancano di «rispetto» si pongono nel numero delle nature inferiori, delle anime di schiavi. Al contrario Nietzsche è superlativamente «rispettoso»; è tutto l’opposto di quegli spiriti troppo portati alla critica e che colgono d’un subito i lati piccoli, bizzarri, ridicoli, le debolezze del loro ambiente. Egli vede in bello le persone con le quali si trova ad aver rapporti. Non solo si mostra pieno di rispetto e di affetto per i suoi prossimi, il che è naturale, ma è altrettanto naturalmente inclinato ad ammirare i suoi professori al collegio od all’università, e sopratutto i suoi amici che egli istintivamente idealizzava con immaginazione e di cui talvolta, a forza d’indulgente simpatia, arrivava ad esagerarne smisuratamente i meriti. Questa facoltà di entusiasmo e di rispetto non escludeva d’altronde affatto in Nietzsche una facoltà critica non meno possente e che ha la sua sorgente in quell’imperioso bisogno di verità, di sincerità assoluta, che è il tratto dominante e veramente «eroico» della sua natura. Egli sapeva dire «no» con la stessa energia che diceva «sì». Mai la voce del cuore faceva tacere in lui la voce della ragione; giammai si permetteva a sè stesso di compiacersi in una credenza, in una affezione che la sua ragione aveva riconosciuta illusoria o pericolosa. L’affermazione e la negazione camminano in lui di pari passo, senza che alcuna di queste due tendenze soverchi l’altra.
Per tutta la sua vita Nietzsche glorificherà con un entusiasmo sempre più lirico, sempre più ditirambico l’ideale la cui radiosa visione risplende in lui, e tutto ciò che nella realtà gli appare come conforme a quell’ideale. E durante tutta la sua vita lotterà pure con uguale entusiasmo contro le dottrine o contro gli uomini, quali essi siano, ch’egli riconosce come nemici di quell’ideale, senza mai lasciarsi fermare in questa opera di negazione dal suo istinto di rispetto, senza mai esitare a combattere, se la sua ragione glielo ordina, idee o persone eh egli ad un dato momento aveva creduto di poter amare.
Al principio della sua carriera di scrittore, com’è naturale, l’istinto di rispetto e di affermazione domina in lui. Si entusiasma per la cultura greca che deve studiare come professore di filologia a Basilea; per Schopenhauer le cui opere compera per caso da un rivendugliolo, nel 1865, e che d’allora diviene il suo filosofo preferito; per Riccardo Wagner con il quale si lega d’intima amicizia nel 1861 e che va frequentemente a visitare nel suo eremitaggio di Tribschen ed a Bayreuth; per Giacobbe Burckhardt, infine, il celebre professore di storia dell’arte all’Università di Basilea il quale sembra avere sviluppato in lui il gusto della civiltà romana e particolarmente della Rinascenza Italiana. Conquistato insieme dall’arte antica, dalla letteratura, dalla musica, dalla filosofia, e portato dalla tendenza del suo spirito piuttosto verso le vaste sintesi che non verso i lavori di dettaglio ove si rinchiudono volentieri i filologi, Nietzsche tenta d’indicare nei suoi primi lavori, e particolarmente nella Nascita della Tragedia (1872), Schopenhauer educatore (1874), e R. Wagner a Bayreuth (1876), d’indicare a grandi tratti ciò che deve essere la cultura moderna, ch’egli vuole fondare sulla sintesi di tre elementi principali: la tragedia greca, il dramma musicale di Wagner, la filosofia di Schopenhauer.
La metafisica di Schopenhauer forma il punto di partenza di Nietzsche. Come il grande pessimista di Francoforte, egli vede l’essenza dell’universo nella volontà: questa volontà si afferma identica in tutti gli esseri: essa è una aspirazione dolorosa e senza scopo, un inestinguibile desiderio che fa della vita umana una lotta perpetua, con la certezza della finale disfatta. Il mondo è dunque cattivo. La ragione, una volta che ha preso coscienza della vita universale, calcola che in ogni esistenza la somma della sofferenza è maggiore di quella della felicità; e che quindi l’uomo deve arrivare a negare in lui il voler vivere: soltanto la rinunzia assoluta può metter fine alla sofferenza universale, a questo incubo doloroso nel quale si dibatte la creatura sottomessa all’illusione dell’individualizzazione. Ma Nietzsche aggiunge che su questo punto si separa nettamente dal suo maestro, essendo il pessimismo assoluto, il nichilismo filosofico, praticamente impossibile. Se razionalmente il mondo è cattivo, se per conseguenza la vista della «verità» spinge l’uomo a desiderare il nulla, invece di tirare da questo fatto la conclusione che voleva Schopenhauer, si può concludere inversamente: Se la Verità è cattiva, sappiamo «volere l’illusione», sappiamo scoprire delle illusioni tanto belle, tanto seducenti ch’esse ci facciano amare la vita malgrado le sue inevitabili sofferenze, e mettiamo ogni nostra saggezza, ogni nostra energia al servizio di quelle illusioni.
Esistono ora due illusioni che ci permettono di giustificare l’esistenza e che Nietzsche chiama l’illusione Apollinea e l’illusione Dionisiaca. Il mondo può essere considerato come un’opera d’arte di una superiore bellezza il cui spettacolo causa una infinita voluttà a chi lo sa contemplare; possiamo dunque sforzarci di vedere l’universo sotto il punto di vista della bellezza, di creare in noi un sogno nel quale ci compiacciamo: è questa l’illusione Apollinea in virtù della quale l’uomo dice alla Vita: «Ti voglio, perchè la tua immagine è bella, e sei degna di esser sognata». — D’altra parte l’uomo non è soltanto un individuo effimero e limitato, è anche una particella della volontà eterna ed infinita, ed in questa qualità lui stesso è eterno ed indistruttibile. Ora, nello stato di estasi e di ebbrezza, l’uomo prende coscienza della sua identità essenziale con tutti gli esseri, della sua unione con la natura. È questo che Nietzsche chiama l’illusione Dionisiaca: in presenza dello spettacolo terrificante della sofferenza, della distruzione e della morte, con essa l’uomo sfugge al pessimismo perchè percepisce l’eternità della volontà sotto il flusso perpetuo dei fenomeni, e dice alla Vita: «Ti voglio, perchè tu sei la vita eterna».
Combinate tra di loro queste due illusioni ed avrete la «saggezza tragica» alla quale si sono elevati un tempo i Greci e di cui la loro tragedia è l’imperituro monumento. Dapprincipio, all’epoca omerica, essi sono sfuggiti al pessimismo creando, in virtù dell’illusione Apollinea, la brillante visione degli Dei dell’Olimpo i quali li consolavano delle tristezze della loro reale condizione. D’altra parte essi han conosciuto la ebbrezza Dionisiaca e i loro cori di satiri (da cui più tardi uscì la tragedia) hanno cantato l’estasi dell’uomo che si sente in comunione con l’intera natura. La loro tragedia è una manifestazione dell’ebbrezza dionisiaca, la quale in luogo di restare allo stato di vaga estasi e di manifestarsi unicamente con la musica, cioè con il linguaggio del sentimento puro, si precisa in una visione apollinea che serve di simbolo particolare e visibile allo stato d’animo che vuol suscitare il poeta tragico. Dionisiaca e «musicale» per il suo principio, la tragedia greca è «apollinea» per la sua forma, poichè essa mette in iscena i miti plastici degli Dei e degli eroi a cui essa dà una nuova vita impregnandoli di emozione musicale, di saggezza dionisiaca.
Quella «saggezza tragica» alla quale i Greci si sono elevati durante il periodo più brillante della civiltà ellenica, è anche l’ideale verso il quale deve tendere la civiltà moderna. Invero essa oggi è dominata da un «ottimismo scientifico» beato e malaccorto, essa crede che il mondo è intelligibile nel suo insieme come nei suoi dettagli e che lo scopo verso il quale si deve tendere è una organizzazione della vita individuale e sociale basata sulla conoscenza scientifica dell’ universo; essa s’immagina erroneamente che la Scienza è capace di fornire all’uomo i moventi di azione di cui ha bisogno per vivere; e questa errata credenza ha avuto per effetto di diffondere in Europa, e particolarmente in Germania, una odiosa pseudo-civiltà di cui il «filisteo di cultura» (Bildungsphilister), il borghese soddisfatto, ottimista, fiducioso nella Scienza per fondare un ordine di cose che assicuri all’umanità una somma sempre maggiore di benessere, è il ridicolo e disprezzabile rappresentante. Ma un attento osservatore può discernere certi segni precursori di una profonda trasformazione.
Riccardo Wagner, nel suo dramma lirico fondato sulla sintesi della poesia e della musica, fa rivivere in Germania la tragedia della Grecia antica. Schopenhauer col suo spietato, sincero e chiaroveggente pessimismo, ha rovinato per sempre l’ottimismo scientifico e ci ha insegnato a guardare in faccia la realtà. È nella via che ci hanno indicato questi due grandi iniziatori che bisogna continuare. L’uomo superiore dovrà essere un «pessimista intellettuale»; non si abbandonerà ad alcuna consolante illusione; saprà che la natura è una temibile potenza, sovente cattiva, che la Storia è «brutale e vuota di senso», che l’uomo è fatalmente condannato alla sofferenza. Ma il suo pessimismo, invece d’inclinarlo alla rassegnazione, al desiderio della morte, dovrà incitarlo all’eroismo. — L’uomo considererà dunque come buono non già ciò che diminuisce la somma di sofferenze sulla terra, ma ciò che rende la vita più intensa, più bella, più degna di esser vissuta; egli si darà per missione non di sollevare gli umili, ma di far sorgere dalla massa dei mediocri l’uomo di genio, l’individuo superiore. È questo l’ultimo scopo che l’Umanità persegue: gli esemplari più perfetti ch’essa produce sono la sua ragion d’essere. E se la produzione del genio, se la nascita di una cultura vuol essere riscattata con della sofferenza, bisogna che il «libero spirito» moderno sappia lui stesso soffrire e lasciar soffrire attorno a sè, per il progresso dello spirito umano.
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Intorno al 1876 si produsse una crisi decisiva nelle idee di Nietzsche come nella sua vita esteriore. Dapprima egli si accorse che per le sue costruzioni filosofiche aveva impiegato dei materiali di cui non aveva abbastanza rigorosamente esperimentato la solidità. Wagner e Schopenhauer, nei quali egli aveva salutato gli educatori dell’umanità futura, gli apparivano a poco a poco sotto un’altra luce. Li aveva presi come alleati nella sua crociata contro l’ottimismo scientifico; ma lentamente ora un’altra questione si fa sempre più pressante: il problema della decadenza. Il mondo moderno non contiene solamente dei sapienti orgogliosi e dei «filistei» soddisfatti, ma è pieno di pessimisti pratici, di scoraggiati, di melanconici stanchi di soffrire, stanchi di vivere, e che aspirano alla morte, al nulla. Ora il pessimismo è bene uno stimolante salutare contro il quietismo del «filisteo» che crede che tutto va per il meglio nel migliore dei mondi; ma può anche essere un sintomo di decadenza: in coloro che lo professano esso indica una diminuzione dell’energia vitale, una aspirazione verso la sola fine di ogni sofferenza, verso la morte; a questo titolo è dunque la negazione radicale delle convinzioni più profonde di Nietzsche, di quell’amore appassionato per la vita che forma come la base continua della sua filosofia.
Schopenhauer, il quale fa poggiare la morale sulla pietà e che vede nel nirvana lo scopo verso il quale deve orientarsi l’umanità; Wagner, il quale fa della rinunzia la base della sua dottrina della rigenerazione e nel Parsifal si mostra come l’apostolo di una specie di neo-cristianesimo mistico, sono evidentemente dei decadenti, dei promotori della decadenza europea. — Nel 1876, nel momento delle solenni rappresentazioni dell’Anello dei Nibelungi a Bayreuth, Nietzsche ebbe la chiara intuizione che il suo istinto di «rispetto» gli aveva impedito di scorgere le vere tendenze di Wagner e della sua arte. Se voleva essere fedele all’istinto di verità, altrettanto potente in lui quanto l’istinto di rispetto, era necessario sottomettere ad una rigorosa critica tutto l’insieme delle sue idee, dei suoi giudizi, delle sue convinzioni, allo scopo di dividere nettamente ciò che meritava di essere conservato da ciò che invece doveva essere rigettato.
Da un altro punto di vista ancora Nietzsche cominciava a percepire che il suo istinto di «rispetto», come in una certa misura aveva falsato la sua vita interiore, minacciava di falsare anche la sua vita esteriore. Nietzsche sentiva che la sua vera missione era di arrivare alla piena coscienza di sè stesso, di formulare la sua filosofia con rigorosa esattezza. Egli era filologo e professore per mestiere, e compiva questo doppio compito con quella perfetta probità che metteva in tutto ciò che faceva. Sentiva benissimo che all’Università di Basilea non era al suo vero posto. Nel suo esemplare dello Schizzo di una morale senza obblighi nè sanzioni del Guyau, Nietzsche ha fortemente sottolineato il seguente passaggio: «Supponiamo per esempio un artista che sente in sè del genio e che tutta la sua vita si è trovato condannato ad un lavoro manuale; quel sentimento di una esistenza perduta, di un compito non assolto, di un ideale non realizzato lo perseguiterà, ossessionerà la sua sensibilità quasi alla stessa maniera che la coscienza di una debolezza morale». E Nietzsche aggiungeva in margine: «Questa fu la mia esistenza a Basilea».
Accettando quel posto di professore che in principio gli sembrava così conforme ai suoi gusti, Nietzsche si era ingolfato in un ginepraio di doveri, di obblighi, che minacciavano di rendergli impossibile il compimento della sua superiore missione. Allo stesso modo che gli occorreva separarsi dai suoi amati maestri, Schopenhauer e Wagner, gli necessitava pure trovare il coraggio di rompere dei legami che gli erano cari, di separarsi da una università che era stata ospitale con lui, d’interrompere la sua «carriera», il compito «utile» ch’egli aveva cominciato, e di non vivere altro che per le sue idee. Questa dolorosa necessità cominciava ad apparirgli come una specie di superiore dovere verso sè stesso.
La malattia s’incaricò di liberarlo. La sua salute era stata fortemente scossa dalla grave malattia contratta nelle ambulanze nel 1870, e d’allora era andata lentamente declinando. Delle emicranie accompagnate da nausee, dei mali di stomaco e dei mali d’occhi si erano dichiarati e ritornavano ad intervalli sempre più vicini e con crescente violenza. Nel 1876, in seguito a crisi particolarmente gravi, egli dovette domandare un congedo di un anno che passò in parte in Italia ed in parte in Isvizzera, senza poter ritrovare la salute. Nondimeno si provò a riprendere il suo impiego di professore, ma i suoi accessi non tardarono a ritornare con una tale intensità ch’egli dovè domandare di ritirarsi nella primavera del 1879. A quest’epoca il suo stato sembrava disperato: dal gennaio 1879 al gennaio 1880 egli contò centodiciotto giorni di accessi violenti; da un momento all’altro egli attende, scrive, «la congestione cerebrale che lo libererà dalle sue sofferenze».
Passa così tre anni tra la vita e la morte, lottando senza un istante di debolezza contro il male che lo rodeva, risoluto a guarire per poter condurre a buon fine l’opera della sua vita. Ed infatti finì per trionfare del suo male. Verso il 1882 il suo stato di salute migliorava assai, senza mai ritornare completamente buono. Libero da ogni obbligo professionale, egli può organizzare la sua vita a suo piacere. Obbligato a frequenti cambiamenti di clima per evitare il ritorno del suo male, passa i suoi inverni nel Mezzogiorno, vicino a Genova od a Nizza, le sue estate nell’alta Engadina ove si affeziona al piccolo villaggio di Sils-Maria. Grazie a queste precauzioni, egli può condurre una precaria esistenza, solitario ed errante, ma almeno quasi sopportabile. E quegli anni di tregua conquistati a forza di energia nella malattia, li consacra con ardore ed entusiasmo sempre crescenti, alla sua missione di pensatore e di artista.
Così nella vita di Nietzsche vediamo succedersi ad un periodo di equilibrio e di gioiosa affermazione un periodo di crisi insieme fisica ed intellettuale, di cui Nietzsche s’è dato a sè stesso una curiosa e originale interpretazione. Infatti per lui la crisi intellettuale è in istrette relazioni con la crisi fisica, o piuttosto l’una e l’altra sono l’espressione di un solo e medesimo fatto.
Osserviamo, dice Nietzsche, come si comportano i diversi organismi quando sono minacciati di dissoluzione dalla malattia o dalla sofferenza. Gli uni sono fisiologicamente degenerati, ed in essi la malattia soventemente non è che il segno esteriore di uno stato morbido latente; ora tali organismi non lottano affatto contro la malattia: il degenerato non ha l’istinto di ciò ch’egli deve fare o evitare per ritornare in salute; al contrario il suo istinto lo porta verso un regime che aggrava il suo stato, come si può osservare nei diabetici, nei gottosi, nei nevrotici. E così, grazie a questa perversione dell’istinto, egli s’incammina rapidamente e sicuramente verso la morte. Sugli organismi sani e vigorosi, al contrario, la malattia può agire come uno stimolante; essa sovreccita le funzioni della vita; gli elementi morbidi, i veleni introdotti fortuitamente nell’organismo, e che erano la causa della malattia, sono eliminati e dopo una crisi più o meno grave il corpo ritorna alla salute.
La vita intellettuale, per Nietzsche, non è che la traduzione razionale della vita fisica. «La tua piccola ragione, egli dice, che tu chiami «Spirito», non è che uno strumento del tuo corpo, o mio fratello, un piccolo strumento, un piccolo giocattolo della tua grande Ragione... I sensi e lo spirito non sono che strumenti e giocattoli: dietro di essi vi è ancora «Sè stesso». Il «Sè stesso» cerca pure con gli occhi dei sensi; ascolta pure con le orecchie dello spirito... Dietro i tuoi sentimenti e i tuoi pensieri, o mio fratello, si trova un padrone potente, un saggio sconosciuto, — egli si chiama «Sè stesso». Egli abita il tuo corpo, egli è il tuo corpo». La salute o la malattia hanno dunque la loro esatta ripercussione sull’anima. Ad ogni stato del corpo corrisponde uno stato dell’anima; una filosofia è l’indice di tale o tal altro stato di salute. Ora per Nietzsche il pessimismo sotto tutte le sue forme — ascetismo cristiano, religione della sofferenza umana, morale della pietà, socialismo egualitario, ecc. — non è altra cosa che l’equivalente psichico della degenerescenza fisica; in coloro che lo professano è dunque il sintomo di un indebolimento della vitalità. E allo stesso modo che il degenerato sceglie istintivamente gli alimenti propri ad affrettare la sua decadenza, così il pessimista si porta spontaneamente verso degli alimenti intellettuali che aggravano il suo stato, verso la filosofia di Schopenhauer o verso la musica di Wagner, per esempio. Al contrario l’uomo sano «elimina» il pessimismo come elimina dal suo organismo i veleni, i virus nocivi. Come si vede, per Nietzsche la lotta contro il pessimismo è stata la stessa cosa che la lotta contro la malattia. Il suo organismo psichico conteneva alcuni elementi nocivi dovuti all’influenza di Wagner e di Schopenhauer. Egli ha attraversato una crisi, e siccome in fondo era sano, la sofferenza invece di inclinarlo al pessimismo ha agito su di lui come uno stimolante; a forza di energia egli è riuscito a sbarazzarsi di quel virus, a ritornare alla salute. Questo processo psichico è stato parallelo e identico nella sua essenza, al processo fisico che nello stesso tempo si compiva nel corpo di Nietzsche.
Così vediamo succedersi in lui un periodo di negazione ad oltranza al periodo di affermazione: combatte tutte le tendenze pessimiste che scopre in sè, con la stessa feroce energia che spiega per vincere la malattia. Egli lavora ad eliminare ciò che crede essere un virus malefico. Ed in ragione delle nostre abitudini di spirito, quel lavoro ci appare come un’opera di distruzione. Nietzsche trova infatti un riposto sapore di pessimismo a tutte le idee, a quasi tutte le credenze che han fino ad ora consolato l’umanità.
L’umanità ha sempre creduto ad un Dio, ad un aldilà: Nietzsche scopre che questa credenza implica necessariamente un disprezzo pessimista dell’uomo e della terra; e conclude: «Furono la sofferenza e l’impotenza che crearono l’Aldilà... La fatica che con un salto — con un salto mortale — vuol raggiungere le cose estreme, una povera fatica ignorante che non vuol neanche più volere: è dessa che creò Dio e l’Aldilà». Ed insegna che «Dio è morto» e che l’uomo deve amare la terra.
Ma anche emancipato dalla fede religiosa, l’uomo ha creduto fino ad ora all’ideale, al valore assoluto del dovere, dell’imperativo categorico, della verità; ha creduto che bisognava vivere per il «bene» o «per la Verità», e gli spiriti più emancipati dei tempi moderni, scettici, «obbiettivi», agnostici, i «coscienziosi dello spirito» che rappresentano l’élite intellettuale e morale dell’umanità, nel naufragio di tutte le loro illusioni han conservato almeno il culto intransigente della verità. Nietzsche mostra ora che questa fede nella verità, questa volontà di sincerità ad ogni costo procede in realtà dallo stesso istinto pessimista, che conduce l’uomo a sacrificare la vita presente all’Aldilà. «Noi pure, egli dice, i pensatori di oggi, gli atei, gli antimetafisici, noi pure ci passiamo il fuoco che ci anima a quest’incendio, che una credenza più volte millenaria ha acceso, a questa fede cristiana che fu pure la fede di Platone, che Dio è la verità e che la verità è divina». E conclude che l’uomo non ha per missione di volere il bene, e di tendere verso il vero, ma che il male e l’illusione sono tanto utili per lo sviluppo della vita quanto il bene ed il vero.
L’uomo finora ha creduto che l’esistenza aveva uno scopo, si è sforzato di trovare il senso della vita e di conformare la sua maniera di vivere a quel fine universale. Nietzsche insegna che l’universo non ha scopo, che di per sè stesso non significa niente, che esso non è che un puro nonsenso e che dipende dall’uomo dargli un senso, che sta a lui, nella pienezza della sua sovranità, fissare la tavola dei valori... Ed è in nome di queste opinioni che Nietzsche combatte aspramente i partiti che nell’Europa attuale contano un maggior numero di fedeli: attacca l’ascetismo cristiano e i preti; esecra i socialisti, i democratici eguaglianzisti e gli anarchici; si eleva contro le dottrine altruiste e la religione della pietà, contro Wagner e contro Schopenhauer: condanna il culto intransigente della scienza. Appare così come un feroce negatore che fa della «filosofia a martellate», che rovescia gli idoli adorati dall’umanità d’ieri e d’oggi, e dappertutto dove egli passa non lascia che delle rovine.
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La predominanza dell’istinto di negazione raggiunge in Nietzsche il suo massimo, durante i sei anni che scorrono tra il 1876 e il 1882, quando pubblica Cose umane di troppo umane (1878), Pensieri e Sentenze varî (1879) e Il Viaggiatore e la sua Ombra (1880). Egli stesso parla di quest’epoca della sua vita come del momento della «sua grande liberazione». «Quali legami, egli dice, sono più solidi? Quali sono gli ostacoli quasi insormontabili? Negli uomini del tipo superiore saranno i doveri: quel rispetto che si addice alla gioventù, quella venerazione, quella pietà per tutto ciò che è degno di ammirazione e consacrato da un lungo rispetto, quella riconoscenza per il terreno ove sono sbocciati, per la mano che li ha sostenuti, per i santuari dove hanno imparato a pregare». Ma bruscamente Nietzsche rinnega questi vincoli così dolci e solidi, si rivolta, la rompe coscientemente con il suo passato. Dopo il lirico entusiasmo di R. Wagner a Bayreuth, diviene improvvisamente diffidente di tutto ciò che ammirava, freddamente risoluto a sottomettere tutto alla sua critica, ad andare fino in fondo nella negazione, ad estinguere spietatamente in sè ogni tenerezza per gli uomini e le idee da cui si è distaccato. E questa energia nella negazione resiste da allora fino alla fine dalla sua vita cosciente. La ritroviamo in Aurora (1881), nella Gaia Scienza (1882), in Zarathustra (1881-85), in Al dilà del Bene e del male (1886) e nella Genealogia della morale (1887). Sembra anzi che si esalti e si esasperi di più durante l’ultimo anno della sua vita di pensatore (1888); infatti Nietzsche non ha scritto mai nient’altro di più violento delle opere composte in quest’epoca: il Caso Wagner, il Crepuscolo degli Idoli, l’Anticristo, Nietzsche contro Wagner.
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La maggior parte del Crepuscolo degli Idoli fu composta in pochi giorni, in una specie di febbre di creazione, prima del 3 settembre 1888. Durante il resto di quel mese di settembre ed al principio di ottobre, Nietzsche fece ancora qualche aggiunta al suo libro la cui stampa fu compiuta alla fine di ottobre. Non apparve che nel gennaio 1889, dopo la crisi in cui si oscurò la sua intelligenza.
Il Crepuscolo degli Idoli o Come si filosofa a martellate appariva a Nietzsche come una specie di intermezzo satirico con il quale si riposava della preparazione della sua grande opera sulla «trasmutazione dei valori». Si divertì a provare col martello la solidità degli «idoli» che gli uomini adorano. «Vi sono, egli dice, più idoli che realtà per il mondo... Porre delle questioni a colpi di martello e forse intendere come risposta quel famoso suono vuoto che rivela le viscere gonfiate e vuote, — quale gioia per un ascoltatore che ha altre orecchie ancora dietro le orecchie, — per me, vecchio psicologo e incantatore di topi, dinanzi a cui precisamente le cose che vorrebbero restare silenziose, sono obbligate a parlare».
Crepuscolo degli Idoli (Götzendämmerung) è una espressione foggiata da Nietzsche in seguito al titolo Crepuscolo degli Dei (Götterdämmerung) popolarizzato dal conosciutissimo dramma di Wagner e che designa lo sprofondamento degli Dei del Valalla nelle tenebre del niente e della morte.
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Lo spirito di negazione è manifestamente uno degli aspetti del genio di Nietzsche. Zarathustra non è soltanto il profeta di una nuova fede, il saggio ispirato la cui limpida anima sa «dire sì come dice sì il cielo senza nubi», esso è pure il temibile «distruttore» che sa «dire no come la tempesta», che rompe le tavole degli antichi valori; egli è il «dispregiatore» di tutto ciò che ammirano i Buoni e i Giusti, l’«empio» che proclama dovunque la «morte di Dio»; il suo sdegno sa «violare delle tombe, spostare i limiti di frontiera, e gettare le vecchie Tavole fracassate in precipizi imprevisti»; il suo sarcasmo «ha sparpagliato a tutt’i venti le grandi parole marcite»; egli si paragona «alla scopa che mette in fuga i ragni crociferi», all’«uragano che purifica l’aria viziata delle catacombe».
Tuttavia non lasciamoci ingannare da quelle violenze di linguaggio e guardiamoci dal prenderle troppo alla lettera. Niente sarebbe più falso che immaginarsi Nietzsche come uno di quegli «spiriti che negano sempre», come una specie di Mefistofele contemporaneo, il cui riso o le cui bestemmie insultano tutte le credenze o tutte le speranze dell’Umanità. Al contrario, Nietzsche — e questo è uno dei lati più importanti e più curiosi della sua psicologia — risente lui stesso in generale e con rara intensità i sentimenti ch’egli proscrive e sovente conserva una tenerezza profonda per gli uomini e per le idee ch’egli violentemente combatte.
Prendiamo un particolare esempio. Abbiam visto che Nietzsche si eleva con aspra energia contro la religione della pietà e per bocca di Zarathustra ci ordina di divenire «duri», duri come il diamante, duri come lo scalpello dello scultore, se vogliamo arrivare alla vera grandezza, alla vera virtù. Ora cosa significa psicologicamente in lui codesta teoria? Codesto «egotismo» ha la sua radice in una certa secchezza di cuore, in un aristocratico disprezzo degli umili e dei sofferenti, in un dilettantismo d’artista che rigetta lungi da sè il dolore come inelegante, nella incapacità di compatire la sofferenza altrui, in una negazione insomma, in un «meno»? Sicuramente sarebbe questa la spiegazione più semplice e più naturale e spesso è stata esposta per render conto delle sue idee. Ma tuttavia non è così che Nietzsche spiega il suo caso. Secondo lui non è in virtù di una «mancanza» di pietà, ma in virtù di un «più» di pietà ch’egli è giunto a combattere la religione della sofferenza umana. L’egoista non sa sentire l’altrui sofferenza e le passa vicino indifferente o sdegnoso; il misericordioso sa comprenderla, si sforza di alleviarla e si compiace nella sua pietà; andate più lungi ancora nella stessa direzione e la pietà apparirà non più come una virtù, ma come una tentazione che bisogna respingere, come un pericolo, come lo stesso supremo pericolo, poichè essa uccide il misericordioso.
«Sventura a quelli che amano, dice Nietzsche, se essi hanno un’altezza che sia al disopra della loro pietà! — Il diavolo mi disse un giorno: «Dio pure ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini». — E ultimamente l’ho inteso dire queste parole: «Dio è morto; è la sua pietà per gli uomini che ha ucciso Dio». Come si vede Nietzsche è vicinissimo all’uomo di grande pietà e di grande amore ch’egli combatte; al contrario egli è agli antipodi dell’egoista di cui a prima vista sembra l’alleato. Questa spiegazione sicuramente sottile e raffinata è dessa vera o non sarebbe che un sofisma destinato a nascondere un egoismo molto più «umano» che cercherebbe d’abbigliarsi simpaticamente? Noi non esitiamo a credere nella perfetta sincerità dell’analisi data da Nietzsche. Infatti si trovano in lui, a lato di quegli aforismi volontariamente feroci e sovente citati sulla legittimità della schiavitù, sulla bellezza della guerra o sulla necessità di saper far soffrire senza lasciarsi turbare dalle grida della vittima, degli accenti di una infinita tenerezza che indubbiamente partono da un cuore vibrante di pietà e di amore. Citeremo come esempio la quarta parte di Zarathustra che racconta la suprema tentazione del profeta, la prova della pietà ch’egli deve attraversare senza debolezza: è condannarsi a non comprendere ciò che fa l’incanto originale di quelle pagine così commoventi, vedervi solamente un’apologia dell’insensibilità, un commentario della nuova Tavola che Zarathustra arreca ai suoi discepoli: «Siate duri».
In molti altri punti ancora le negazioni di Nietzsche sono in realtà delle affermazioni spinte all’estremo e che si distruggono per «autosoppressione» (Selbstaufhebung). Abbiamo visto già come la pietà, per «autosoppressione», si è elevata fino alla durezza, l’altruismo fino all’egotismo. Ora, in virtù di una analoga evoluzione, vediamo l’ateismo nascere dal sentimento religioso, l’«immoralismo» uscire dal più profondo rispetto per il dovere. È a forza di coscienza religiosa che Nietzsche è divenuto ateo; è per un supremo raffinamento di moralità cristiana ch’egli ha messo in questione il valore dell’imperativo del dovere e della stessa verità. Egli inalbera un intransigente ateismo e parla pertanto con profonda simpatia degli homines religiosi, degli uomini di fede; si dice immoralista e pertanto nessuno più di lui ha conosciuto il rispetto del dovere; attacca il culto della verità ad ogni costo eppure nessuno meglio di lui ha subìto la divorante ed entusiastica passione della verità; lancia contro Wagner il più terribile dei pamphlets mentre non cessa di profondamente ammirarlo; esalta la civiltà francese ed abbassa con una specie di furore la cultura tedesca, ma si scorge facilmente, attraverso gli scatti della sua collera e della sua ironia, un doloroso amore per la Germania, per la sua ingrata patria che si è lungamente ostinata ad ignorarlo o a misconoscerlo.
«Voi dovete esser fieri dei vostri nemici», insegna Zarathustra. Nietzsche ha praticato questo precetto. Non solo non si sente mai in lui l’odio denigrante che vorrebbe rimpiccolire ed abbassare l’essere detestato, ma spesso s’indovina in lui un vero amore degli uomini o delle idee che attacca: è questo pure il secreto dell’attrazione che sovente esercita su coloro stessi che sembrerebbe dovessero essere i suoi peggiori nemici. Se ad esempio l’immoralista e l’ateo Nietzsche incontra spesso della simpatia presso delle anime religiose, ciò avviene perchè, in realtà, egli è infinitamente più vicino ad esse che non gli spiriti tiepidi i quali accordano alle cose della religione una indifferenza od una ironica deferenza.
Ma Nietzsche non si limita soltanto alla negazione. Ciò che infatti caratterizza l’ultima parte della sua vita è il ritorno del lato positivo della sua natura che era stato messo in disparte al momento della sua crisi del 1876. Se in Cose umane Nietzsche ci appare come uno spietato analista crudelmente disingannato, in Aurora il tono comincia a cambiare; accenti più commossi, più vibranti si fanno intendere; si comincia, attraverso le tenebre del pessimismo, a veder brillare indecisamente l’alba di una nuova speranza. Questa luce si allarga in Gaia scienza ove si trovano «cento indizi dell’approssimarsi di qualcosa d’incomparabile». Poi con Zarathustra è un’improvvisa esplosione d’indescrivibile entusiasmo, un trionfale canto liricamente travolgente, come una cascata di luce abbagliante. La concezione della vita intravvista dal Nietzsche durante la sua giovinezza, nell’istante in cui scorgeva la salute dell’umanità in una rinascita dello spirito dionisiaco e della saggezza tragica, si mostra di nuovo in prima linea del suo pensiero, allargata, trasformata, abbigliata con più brillanti colori, ma riconoscibilissima malgrado tutto sotto la sua nuova forma: essa è diventata, sulle labbra di Zarathustra, la teoria del «Superuomo» e del «Ritorno eterno».
Nietzsche insegna che la caratteristica dell’uomo odierno è la sua mediocre vitalità. Il suo «Sè stesso» è malato, sofferente, inquieto; e la sua «piccola ragione» s’interpreta da se stessa questo stato di sofferenza con ogni specie di religione o di sistema filosofico pessimista: essa crede al cristianesimo, all’umanitarismo, alla religione della scienza; essa proclama che questa vita è cattiva, che questa terra è una valle di lacrime e si estrania dall’esistenza terrestre per aspirare all’Aldilà; essa ammette che esiste al disopra di «sè» qualcosa di superiore, di assoluto — Dio, l’Ideale, il Bene, la Verità — ed iscrive questo assoluto in testa alla sua «tavola dei valori». Ma questo stato di sofferenza della «Personalità» deve essere combattuto e vinto: occorre che l’uomo ritorni alla salute, che la pianta umana metta dei rampolli più vigorosi e più altieri. E questo ritorno alla salute si tradurrà nella sua «piccola ragione» con ciò che Nietzsche chiama una «trasmutazione di tutti i valori» (Umwertung aller Werte): dalla sua tavola dei valori egli casserà i valori che oggi vi sono scritti in testa, Dio, l’Ideale, il Bene, la Verità; saprà che è l’uomo stesso che dà un senso alla sua vita e che la vita non ha altro senso che quello che l’uomo le dà; egli sarà un «Creatore di valori», una causa prima, un audace esperimentatore che gioca con il Caso una sublime partita la cui posta è la vita o la morte, che cerca di realizzare quaggiù qualche ammirabile «successo», coscientemente, gioiosamente arrischiando la sua felicità e la sua vita per raggiungere questo scopo. E nello stesso tempo, invece di cercar di evadere dalla terra, ridiventerà risolutamente ottimista; non solo si rassegnerà alla vita umana, alla sua vita individuale, ma egli l’amerà tanto che accetterà gioiosamente l’idea di riviverla un numero infinito di volte, l’idea del «Ritorno eterno» di tutte le cose.
Tale è infatti il nostro destino: l’evoluzione universale si compie non secondo una linea dritta infinita, ma secondo un immenso circolo di cui ogni esistenza è un impercettibile segmento. Noi abbiamo vissuto un numero infinito di volte la nostra vita nei suoi minimi dettagli e la rivivremo lo stesso indefinitamente. Divenire cosciente di questa legge suprema dell’esistenza, accettarla non solo senza rivolta, senza orrore, ma di buon grado, e non solo di buon grado ma con gioioso entusiasmo, è questo lo scopo che Zarathustra indica all’umanità: allorchè essa l’avrà raggiunto l’«Uomo» sarà divenuto «Superuomo».
Il superuomo non è altra cosa che l’Uomo arrivato ad uno stato di salute superiore, — dal punto di vista fisico come dal punto di vista morale, — liberato dall’antica tavola dei valori e cosciente della legge del Ritorno eterno. Il passaggio dall’Uomo al Superuomo si farà — come quello dalla religione all’irreligione, o dall’altruismo all’egoismo — per «autosoppressione»; a forza di soffrire, a forza d’andare più avanti nella decadenza, verrà un momento in cui l’Uomo, in un supremo slancio di disgusto che sarà anche un supremo slancio d’amore e d’entusiasmo, metterà in opera tutto ciò ch’egli ha d’energia per dar nascita al Superuomo annientandosi da sè stesso.
Fu verso la fine della sua vita cosciente che questa visione d’avvenire s’impose all’immaginazione di Nietzsche con una intensità sempre crescente. La solitudine completa si era fatta intorno a lui. La vita errante a cui lo condannava la sua salute gl’impediva di mettere le radici in alcun luogo. I suoi antichi amici si erano allontanati ad uno ad uno, spaventati dalle sue audacie di pensiero, incapaci di seguirlo nella marcia delle sue idee. Le nuove amicizie si erano alla prova mostrate poco sicure e gli avevano portato più illusioni che gioie. Sua sorella, la sua confidente più cara e fedele, lo lasciava per seguire in America suo marito Bernardo Förster. Attorno a Nietzsche era il vuoto totale, il silenzio assoluto; a partire dal 1886, racconta sua sorella, egli non ebbe più nessuno con cui intrattenersi a viva voce dei suoi soggetti filosofici che lo appassionavano e per i quali viveva. Questo isolamento finì per diventargli uno spaventevole supplizio. La signora Förster ha pubblicato delle sue lettere che non si possono leggere senza una stretta al cuore, tento esse rivelano snervante melanconia ed intima disperazione. «Mio caro vecchio amico, scriveva nel 1884 ad uno dei suoi migliori compagni di gioventù,... quando ho letto la tua ultima lettera mi è sembrato che tu mi stringessi la mano con uno sguardo melanconico: melanconico come se tu volessi dirmi: «Com’è possibile che si abbia oggi così poche cose in comune, che si viva in mondi differenti? E una volta, invece!...» È così, caro amico, che mi avviene con tutti coloro che mi sono cari: tutto è finito, passato, intimità; ci si vede ancora, si parla per non tacersi, ci si scrive ancora delle lettere; ma la verità è lo sguardo che l’annunzia; ed esso mi dice (io l’intendo troppo bene): — Amico Nietzsche, eccoti tutto solo!» Tre anni più tardi, nel 1887, egli scrisse a sua sorella: «Di anno in anno la vita mi diviene più pesante; i miei anni di malattia tristi e dolorosi non mi sembravano così oscuri, così vuoti di speranza quanto la mia presente esistenza. Cos’è successo? Niente, se non è l’inevitabile: le differenze che mi separavano da tutti gli uomini che mi avevano dato fino ad ora la loro fiducia sono divenute patenti: e da una parte e dall’altra ci si accorge che ci si era ingannati... O cielo, quanto sono solitario oggi!... Non ho più nessuno con cui io possa ridere, nessuno con cui bere una tazza di tè, nessuno che amichevolmente mi consoli!» Con amara tristezza egli constata che tra i suoi compatriotti soprattutto non incontra che indifferenza ed ostilità. All’estero qualche intelligenza eccezionale, Burckhardt in Isvizzera, Taine in Francia, Brandes in Danimarca cominciano ad apprezzarlo. In Germania nessuno si occupa di lui.
«Son già dieci anni, egli scrive nel 1888, e nessuno in Germania si è fatto ancora un dovere di coscienza di difendere il mio nome contro quest’assurdo complotto del silenzio sotto il quale è come sepolto». Respinto dal mondo esterno, ricacciato nel suo «io» dall’ostilità dell’ambiente in cui viveva, Nietzsche s’immerge sempre più nel mondo interno del suo pensiero; si rifugia nel suo splendido sogno che lo consola delle sue tristezze e gli sostituisce ogni realtà. La sua opera di filosofo prende ai suoi occhi un valore ognor più considerevole. Il contemplativo nel cui cervello si formulano le idee direttrici che reggono la vita umana, il «creatore di nuovi valori» gli appare come un essere superiore drizzantesi ben al disopra dell’umanità volgare, dominante dall’alto gli uomini d’azione che subiscono senz’accorgersene l’influenza del suo pensiero, e non fanno altro che realizzare nel mondo visibile le sue concezioni ed i suoi sogni. Gesù Cristo fu uno di quei contemplativi il cui pensiero ha avuto nella storia degli uomini una prodigiosa ripercussione; fu il profeta della prima grande «trasmutazione dei valori» da cui è uscita la tavola attuale dei valori. Ed è a lui che Nietzsche, il profeta della seconda «trasmutazione dei valori», viene a poco a poco a compararsi e ad opporsi. Gesù è morto troppo presto, insegna Zarathustra:
«In verità egli morì troppo presto, quell’Ebreo che amarono i predicatori della lenta morte. E per molti, poi, fu una fatalità ch’egli morisse troppo presto.
«Egli non conosceva ancora che le lacrime e la melanconia dell’Ebreo così come gli odii dei Buoni e dei Giusti, l’Ebreo Gesù: ed ecco che il desiderio della morte lo ghermì all’imprevisto.
«Perchè non è restato nel deserto, lontano dai Buoni e dai Giusti!... Forse avrebbe imparato a vivere e ad amare la terra — e poi anche a ridere!
«Credetemi, o miei fratelli! Egli morì troppo presto; egli stesso avrebbe rinnegato la sua dottrina se avesse vissuto fino alla mia età! Egli era abbastanza nobile per rinnegarsi.
«Ma egli non era ancora ben maturo...».
Zarathustra-Nietzsche appare a sè stesso come il continuatore — cioè il distruttore — dell’opera di Gesù; egli è il suo successore e il suo «miglior nemico»; egli è in una volta l’Anticristo ed anche una specie di secondo Gesù Cristo che, come il Galileo, ha conosciuto la sofferenza e l’odio dei Buoni e dei Giusti, e, come lui, è una «fatalità» (Verhängnis) per innumerevoli generazioni a venire; per lui il cristianesimo deve perire per «autosoppressione» dando la vita a qualche cosa di superiore a lui stesso.
Durante le ultime settimane della sua vita cosciente, quella specie di ideale parentela immaginatasi con Gesù, gli s’impose allo spirito con una nettezza ed una evidenza sempre crescenti. Indubbiamente sotto l’influenza di cause morbide, si produsse in Nietzsche una specie di esaltazione di tutto il suo essere, di tutte le sue facoltà. Sembra che il suo genio, nell’istante di spegnersi, irradii un’ultima volta con non sappiamo quale soprannaturale chiarezza e si avvolga in una sorta di nimbo d’oro prima di sparire per sempre. Egli si sente felice, libero, leggero, si vede spaziare da altezze infinite al disopra degli uomini e della vita; crede alla potenza del suo pensiero creatore ed annunzia che «tra due anni tutta la terra si contorcerà in convulsioni »; attraverso i secoli egli tende la mano al suo predecessore Gesù di cui corona l’opera annientandolo: intitola Ecce homo la sua autobiografia scritta durante l’autunno del 1888, ed al momento in cui l’abisso della follia bruscamente gli si apre dinanzi firma la sua ultima lettera a Brandes: «Il Crocifisso».
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La notte della follia avvolse bruscamente Nietzsche, senza transizioni. Ne fu colpito improvvisamente a Torino nel gennaio del 1889, e la sua esistenza ne rimase per sempre ottenebrata, fino alla morte.
Destino singolarmente tragico quello di questo pensatore morto alla vita dello spirito, nel momento in cui il suo talento raggiungeva la piena maturità, e senza aver potuto compiere l’opera capitale nella quale pensava di formulare definitivamente la sua concezione della vita, la Volontà di potenza! E quale crudele ironia della sorte nel fatto che Nietzsche, misconosciuto, ignorato, abbandonato da tutti, solitario fino alla fine della sua vita di pensatore, si trova ora illustre, letto e discusso dal miglior pubblico d’Europa!
Henri Lichtenberger.