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FEDERICO NIETZSCHE

zia; ed esso mi dice (io l’intendo troppo bene): — Amico Nietzsche, eccoti tutto solo!» Tre anni più tardi, nel 1887, egli scrisse a sua sorella: «Di anno in anno la vita mi diviene più pesante; i miei anni di malattia tristi e dolorosi non mi sembravano così oscuri, così vuoti di speranza quanto la mia presente esistenza. Cos’è successo? Niente, se non è l’inevitabile: le differenze che mi separavano da tutti gli uomini che mi avevano dato fino ad ora la loro fiducia sono divenute patenti: e da una parte e dall’altra ci si accorge che ci si era ingannati... O cielo, quanto sono solitario oggi!... Non ho più nessuno con cui io possa ridere, nessuno con cui bere una tazza di tè, nessuno che amichevolmente mi consoli!» Con amara tristezza egli constata che tra i suoi compatriotti soprattutto non incontra che indifferenza ed ostilità. All’estero qualche intelligenza eccezionale, Burckhardt in Isvizzera, Taine in Francia, Brandes in Danimarca cominciano ad apprezzarlo. In Germania nessuno si occupa di lui.

«Son già dieci anni, egli scrive nel 1888, e nessuno in Germania si è fatto ancora un dovere di coscienza di difendere il mio nome contro quest’assurdo complotto del silenzio sotto il quale è come sepolto». Respinto dal mondo esterno, ricacciato nel suo «io» dall’ostilità dell’ambiente in cui viveva, Nietzsche s’immerge sempre più nel mondo interno del suo pensiero; si rifugia nel suo splendido sogno che lo consola delle sue tristezze e gli sostituisce ogni realtà. La sua opera di filosofo prende ai suoi occhi un valore ognor più considerevole. Il contemplativo nel cui cervello si formulano le idee direttrici che reggono la vita

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