Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo III/Capitolo tredicesimo

Capitolo tredicesimo

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CAPITOLO TREDICESIMO


Non era ancor di là Nesso arrivato ec.

Assai leggiermente si vede qui la continuazione del presente canto col precedente, in quanto nella fine del precedente dice, che avendo Nesso mostratogli quali fossero alquanti di quegli che nel sangue bollivano, indietro se ne ritornò, e ripassossi il guazzo; e nel principio di questo mostra come essi, non essendo ancora Nesso dall’altra parte del fiume, entrarono per un bosco, della qualità del quale esso procedendo dimostra. E dividesi questo canto in quattro parti: nella prima dimostra la qualità del bosco nel quale dice che entrarono: nella seconda dimostra una ammirazione la quale ebbe l’autore, e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette; e parla con uno spirito, il quale gli [p. 118 modifica]manifesta chi egli è, e come quivi e perchè in piante salvatiche mutati sieno: nella terza dimostra una spezie di tormenti strana dalla primiera, data a certi peccatori le cui colpe non furon con quelle medesime de’ primi eguali: nella quarta dimostra per le parole d’uno spirito, che spezie di tormentati sieno questi nuovi, e chi fosse lo spirito che parla: la seconda comincia quivi: E ’l buon maestro: la terza quivi: Noi eravamo: la quarta quivi: Quando ’l maestro.


Dice adunque, Non era ancor di là, dall’altra riva del fiume, Nesso arrivato,

Quando noi ci mettemmo per un bosco,
Che da nessun sentiero era segnato.

E per questo si può comprendere, il bosco dovere essere stato salvatico, e per conseguente orribile, poichè alcuna gente non andava per esso, perocchè se alcuni per esso andati fossero, era di necessità il bosco avere alcun sentiero: e chiamansi sentieri certi viottoli, i quali sono per i luoghi salvatichi per antifrasi1, quasi dica sentiere, cioè pieno di spine e di stecchi, i quali in latino sono chiamati sentes; conciosiacosachè in essi sentieri alcuno stecco non sia; o vogliam pur dire, che si chiami sentieri dirittamente, perciocchè in esso sieno stecchi e pruni, conciosiacosachè tra’ luoghi spinosi sieno, e non paia quegli potere essere senza stecchi e spine.

Non fronda verde, ma di color fosco,

cioè nero, era in questo bosco; e questa è l’altra [p. 119 modifica]cosa per la quale vuole l’autore si comprenda questo bosco essere spaventevole, cioè dal color delle frondi, il quale il dimostra oscuro e tenebroso,

Non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;

alla qual cosa appare non essere in esso alcuno cultivatore o abitatore, per lo quale essendo il bosco rimondo e governato, fossero i rami andati diritti e schietti;

Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco,

cioè velenosi, e questo ancora dà più piena chiarezza della selvatica qualità del bosco. Le quali cose quantunque assai dimostrino della miserabile essenza d’esso, nondimeno per dimostrarlo ancora più odioso, induce due dimostrazioni; e l’una mostra da certe selve molto solinghe e piene di fiere salvatiche, conosciute dagl’Italiani, e l’altra mostra dalla qualità degli uccelli che in esso bosco nidificano, e dice,

Non han sì aspri sterpi, nè sì folti,

cioè sì spessi, Quelle fiere selvagge, le quali stanno nelle selve, poste tra’ due confini i quali appresso disegna, che ’n odio hanno

Tra Cecina e Corneto i luoghi colti,

cioè lavorati. Hanno le fiere salvatiche i luoghi lavorati ed espediti in odio, in quanto gli fuggono, perciocchè nè vi trovano pastura come nelle selve, nè gli trovano atti alle loro latebre, nè sicuri come le selve; o hannogli in odio, in quanto talvolta uscendo delle selve, e vegnendo ne’ luoghi colti, tutti gli guastano, conte massimamente fanno i cinghiari: e dice, tra Cecina e Corneto, perciocchè tra queste [p. 120 modifica]due ha d’oscure e pericolose selve e solitudini, e massimamente sopra un braccio d’Appennino, il quale si stende verso il mezzodì insino nel mare Tireno, il quale i moderni chiamano il monte Argentale, nel quale appare che già in assai parti abitato fosse, ove del tutto è oggi quasi abbandonato: e non solamente in questo monte, ma per le pianure tra’ due predetti termini poste ha selve antiche e spaventevoli, nelle quali dice l’autore non essere sì aspri sterpi, perciocchè sono spinosi come sono i pruni, e altre piante ancora più pericolose ch’e’ pruni; e i due termini tra’ quali dice essere queste selve così orribili sono Cecina e Corneto. È Cecina un fiume di non gran fatto, il quale corre a pie o vicino di Volterra, dal quale pare si cominci quella parte di Maremma che più è salvatica; e l’altro è Corneto, il quale è un castello alla marina, non molte miglia lontano a Viterbo, il quale alcuni credono che già fosse chiamato Corito, e fosse la città del padre di Dardano re di Troia. Appresso mostrata l’una cosa, per la quale ne vuol dare ad intendere il bosco, nel quale entrato è, essere oscuro e malagevole, ne mostra l’altra, quella descrivendo dalla qualità degli uccelli che in esso fanno i lor nidi, e dice, Quivi, cioè in quel bosco, le brutte Arpie lor nido fanno, e acciocchè d’altra spezie d’uccelli non intendessimo, ne scrive di quali Arpie voglia dire, e dice esser di quelle,

Che cacciar delle Strofade i Troiani
Con tristo annunzio di futuro danno

[p. 121 modifica]E acciocchè meglio per la lor forma conosciute sieno, descrive come sien fatte, dicendo, che queste Arpie,

Ale hanno late, colli, e visi umani,
Piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre,
Fanno lamenti in su gli alberi strani,

di quel bosco, i quali chiama strani, perciocchè son d’altra forma che i nostri dimestichi, come di sopra è dimostrato. Ma avanti che più si proceda, è da vedere quel che voglia dire che i Troiani fossero cacciati da questi uccelli delle Strofade. Ad evidenza della qual cosa è da sapere, che partito Enea da Creti, e venendo verso Italia, pervenne ad isole le quali sono nel mare Jonio chiamate Strofade, e in quelle co’ suoi disceso, e trovatovi bestiame assai, e fattone uccidere e cuocere, avvenne che mangiando, sopravvennero uccelli, i quali sono chiamati Arpie, i quali rapivano i cibi posti davanti ad Enea e a’ suoi; e non solamente gli rapivano, ma ancora bruttavano sì quegli i quali toccavano, che egli erano in abominazione a coloro che gli vedevano: per la qual cosa Enea comandò che con le spade in mano fossero cacciate via. Per la qual cosa una di loro chiamata Celeno, portatasi sopra un alto albero, sopra di loro disse: voi Troiani per l’averne uccisi i buoi nostri, ci movete anche guerra, e volete della lor patria cacciare l’Arpie: ma io, secondochè io ho da Apollo, v’annunzio, che non vi fia conceduto prima di potere in Italia comporre alcuna città, che per vendetta dell’ingiuria la quale n’avete fatta, voi sarete da sì crudel fame costretti, che per [p. 122 modifica]quella voi mangerete le mense vostre. Col quale tristo annunzio di futuro danno, Enea quasi cacciato, si partì di quelle isole verso Italia navicando: e sono quelle isole, le quali solevano essere nominate Plote, però chiamate Strofade, perciocchè insino a quelle furono le dette Arpie, essendo state cacciate dalla mensa di Fineo re d’Arcadia, seguite da Zeto e d’Achelai; e perciocchè essi quivi per comandamento fecero fine alla caccia, e tornaronsi indietro, sono l’isole chiamate Strofade, il qual nome suona in latino conversione. Di queste Arpie si dirà alquanto più distesamente, la dove il senso allegorico del presente canto si dimostrerà. E così avendo per molte cose l’autor dimostrata la qualità di questo bosco, seguita, E ’l buon maestro, dove comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autore scrive un’ammirazione la quale ebbe, e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette: e parla con uno spirito, il quale gli manifesta chi egli è, e come quivi e perchè in piante salvatiche mutati sieno: e dividesi questa parte in nove; nella prima Virgilio gli dimostra in qual girone egli è: nella seconda si maraviglia l’autore d’udir trar guai, e non veder da cui: nella terza Virgilio gli mostra come da questa maraviglia si solva: nella quarta l’autore fa quello che Virgilio gli dice: nella quinta lo spirito schiantato si rammarica: nella sesta Virgilio il consola, e domandalo chi egli è: nella settima lo spirito dice chi egli è: nella ottava il domanda Virgilio, come in quelle piante si leghino, e se alcuna se ne scioglie mai: nella nona lo spirito risponde alla [p. 123 modifica]domanda. La seconda comincia quivi: Io sentia: la terza quivi: Però disse: la quarta quivi: Allor porsi: la quinta quivi: E ’l tronco suo: la sesta quivi: S’egli avesse: la settima quivi: E ’l tronco sì: la ottava quivi: Però ricominciò: la nona quivi: Allor soffiò: dice adunque, E ’l buon maestro, disse: avanti che più entre, infra questo bosco,

Sappi che se’ nel secondo girone,

cioè nella seconda parte del settimo cerchio nel quale si punisce la seconda spezie de’ violenti, cioè coloro i quali, o sè medesimi uccisero, o i lor beni mattamente dispersero e dissiparono,

(Mi cominciò a dire), e sarai mentre,
Che tu verrai nell’orribil sabbione,

sopra ’l quale si punisce la terza spezie de’ violenti:

Però riguarda bene, e sì vedrai
Cose che torrien fede al mio sermone,

se tu non le vedessi, e ciò sono gli spiriti essere divenuti piante silvestri, e in quelle piagnere e dolersi. Per le quali parole l’autore divenuto più attento dice, Io sentia d’ogni parte, Qui comincia la seconda parte della parte seconda principale di questo canto, nella quale l’autor si maraviglia d’udir trar guai, e non veder da cui; e però dice, Io sentia d’ogni parte, di quel bosco, trarre guai,

E non vedea persona che ’l facesse,
Perch’io tutto smarrito m’arrestai.

E questo ismarrimento avvenne, perciocchè immaginar non potea, che i guai i quali udiva uscissono di que’ bronchi i quali vedea: e quinci scrive quello che estimò che Virgilio credesse, quando si mosse [p. 124 modifica]ad aprirgli, donde quegli guai venivano dicendo, Io credo ch’ei credette, Virgilio, ch’io credesse, Che tante voci, dolorose, uscisser tra que’ bronchi,

Da gente che per noi si nascondesse:

Però disse il maestro. Qui comincia la terza parte della seconda principale di questo canto, nella quale Virgilio gli mostra, come da questa maraviglia si solva, e dice, Però disse il maestro: per lo credere che esso credesse ec. se tu tronchi

Qualche fraschetta d’una d’este piante,

Li pensier c’hai, cioè che quegli che traggono i guai i quali tu odi, sian gente che per noi si nasconda, si faran tutti monchi, cioè senza alcun valore, siccome è il membro monco, cioè invalido e impotente ad alcuna operazione. Allor. Qui comincia la quarta parte della parte seconda di questo canto, nella quale l’autore fa ciò che Virgilio gli dice, e però segue, Allor, mosso dal consiglio di Virgilio, porsi la mano un poco avante,

E colsi un ramucel da un gran pruno;

chiamal pruno, perciocchè era, come di sopra ha mostrato, pieno di stecchi; E ’l tronco suo, Qui comincia la quinta parte della parte seconda di questo canto, nella quale lo spirito schiantato si rammarica, e però dice, E ’l tronco suo, cioè quel pruno, donde colto avea, o ver troncato il ramucello: o secondochè spongono altri il tronco suo, cioè quella particella tronca da quel gran pruno, gridò: perchè mi schiante? E queste parole paiono assai dimostrare la parte schiantata essere quella che parlò, e non [p. 125 modifica]quella d’onde fu schiantata, comechè appresso paia pure aver parlato e parlare il pruno,

Da che fatto fu poi di sangue bruno,

cioè tinto, il quale usciva del pruno, per quella parte donde era stato schiantato il ramucello,

Ricominciò a gridar: perchè mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietade alcuno?

Quasi voglia qui l’autore mostrare, avere i dannati compassione l’uno delle pene dell’altro; e questo mostra, in quanto questo pruno non sapeva che l’autore fosse più uomo che spirito: poi segue, e mostragli nelle sue parole, perchè di lui doveva avere alcuna pietà dicendo, Uomini fummo, nell’altra vita, ed or siam fatti sterpi, in questa:

Ben dovrebb’esser la tua man più pia,

in ritenersi di non avermi schiantato,

Se stati fossomo anime di serpi,

le quali, perocchè crudeli animali sono, forse parrebbe che meritato avessero che verso loro non s’usasse alcuna pietà. Appresso queste parole del pruno, per una comparazione dimostra in che maniera le parole uscissero di questo pruno, e dice,

Come d’un stizzo verde, ch’arso sia

Dall’un de’ capi, che dall’altro, capo, geme, acqua come spesse volte veggiamo; e non solamente geme acqua, ma ancora cigola, cioè fa un sottile stridore, quasi a modo d’un sufolare,

E cigola per vento che va via;

egli è vero che ogni animale vegetativo in nudrimento di sè attrae con le sue radici quella parte d’ogni elemento che gli bisogna; e perciò quella parte che trae dal [p. 126 modifica]fuoco e dalla terra, consiste nella solidità del legno, e senza alcun sentore ardendo il legno, si riprende il fuoco quello che di lui è nel legno, e similmente quello che v’è terreo, converte in terra: ma dell’umido e dell’aere non avvien così; perciocchè essendo l’umido, siccome da suo contrario, cacciato dal fuoco, ricorre a quella parte donde noi il veggiamo uscire, e per i pori del legno ne geme fuori. Ma questa umidità non fa nel suo uscire fuori alcun remore: l’aere ancora per non esser dal fuoco risoluto, gli fugge innanzi, e quando tiene la via che fa l’umido, volendo tutto insieme esalare, e trovando i pori stretti, uscendo per la strettezza di quelli, fa col suo impeto quello stridore, o cigolare che dir vogliamo; e convertito dall’impeto in vento, va via: dice adunque che, Così di quella scheggia, cioè di quel legno, usciva insieme, Parole e sangue, come dello stizzo acqua e vento: ond’io lasciai la cima, cioè il ramucello che schiantato avea,

Cadere, e stetti come l’uom che teme,

parendogli aver fatto men che bene. Ma Virgilio vedendolo spaventato, supplì prestamente quanto bisognava, e a sodisfare all’offeso, e a rassicurar l’autore dicendo, S’egli avesse. Qui comincia la sesta parte di questa seconda parte principale, nella quale Virgilio il consola, e domandalo chi egli è: dice adunque,

S’egli avesse potuto creder prima,

che egli avesse schiantato questo ramucello,

Rispose il duca mio, anima lesa, cioè offesa,

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Ciò e ha veduto, con lo schiantare il ramucello, pur con la mia rima, cioè con le parole mie sole: e vuolsi questa lettera cosí ordinare, Il duca mio rispose: o anima lesa, se egli avesse prima potuto pur con la mia rima credere ciò che ha veduto,

Non avrebbe egli in te la man distesa,

a cogliere il ramucello: Ma la cosa incredibile, cioè che di voi uscissero i guai i quali esso sentiva, mi fece

Indurlo ad ovra, ch’a me stesso pesa,

cioè a schiantare quel ramo dalla tua pianta.

Ma digli chi tu fosti, sì che in vece,

cioè in luogo, D’alcuna ammenda, all’offesa la qual fatta t’ha, tua fama rinfreschi, cioè rinnuovi, col dire alcuna cosa laudevole di te,

Nel mondo su, dove tornar gli lece,

cioè è lecito, siccome ad uomo che ancora vive, e non è dannato. E ’l tronco: sì. Qui comincia la settima parte della seconda principale di questo canto, nella quale lo spirito dice chi egli è, e però comincia, E ’l tronco: sì col dolce dir, cioè con la soavità delle tue parole, m’adeschi, cioè mi pigli, e spezialmente in quanto m’imprometti di rinfrescare la fama mia nel mondo, Ch’io non posso tacere, che io non ti manifesti quello di che tu mi domandi; e però, e voi non gravi, cioè non vi sia noioso,

Perch’io un poco a ragionar m’inveschi,

cioè mi distenda, mostrandovi quello perchè meritamente potrà rinfrescare la fama mia.

Io son colui che tenni ambo le chiavi.

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Qui dimostra lo spirito chi egli è, ma nol dichiara per lo proprio nome, ma per alcuna circunlocuzione, nella quale egli intende di dimostrare la preeminenza la quale ebbe in questa vita, e oltre a ciò la cagione che da quella il togliesse, e fosse cagione della sua morte; e ancora dimostra la innocenza sua, credendo per questa circunlocuzione essere assai ben conosciuto; e però acciocchè con men fatica s’intenda questa sua circunlocuzione, è da sapere che costui fu maestro Piero dalle Vigne, della città di Capova, uomo di nazione assai umile, ma d’alto sentimento e d’ingegno: e fu ne’ suoi tempi reputato maraviglioso dettatore, e ancora stanno molte delle pistole sue, per le quali appare quanto in ciò artificioso fosse: e per questa sua scienza fu assunto in cancelliere dell’imperadore Federigo secondo; appo il quale con la sua astuzia in tanta grazia divenne, che alcun segreto dell’imperadore celato non gli era; nè quasi alcuna cosa, quantunque ponderosa e grande fosse, senza il suo consiglio si diliberava; perchè del tutto assai poteva apparire costui tanto potere dell’imperadore, che nel suo voler fosse il sì e il no di ciascuna cosa: per la qual cosa gli era da molti baroni e grandi uomini portata fiera invidia; e stando essi continuamente attenti e solleciti a poter far cosa per la quale di questo suo grande stato il gittassero, avvenne, secondochè alcuni dicono, che avendo Federigo guerra con la chiesa, essi con lettere false, e con testimoni subornati, diedero a vedere all’imperadore questo maestro Piero aver col papa certo occulto trattato contro allo stato dell’imperadore, e avergli [p. 129 modifica]ancora alcun segreto dell’imperadorè rivelato; e fu questa cosa con tanto ordine, e con tanta e sì efficace dimostrazione fatta dagl’invidi vedere all’imperadore, che esso vi prestò fede; e fece prendere il detto maestro Piero e metterlo in prigione: e non valendogli alcuna scusa, fu alcuna volta nell’animo dell’imperadore di farlo morire: poi, o che egli non pienamente credesse quello che contro al detto maestro Piero detto gli era, o altra cagione che ’l movesse, diliberò di non farlo morire, ma fattolo abbacinare il mandò via. Maestro Piero, perduta la grazia del suo signore, e cieco, se ne fece menare a Pisa, credendo quivi men male che in altra parte menare il residuo2 della sua vita, sì perchè molto gli conosceva divoti del suo signore, e sì ancora perchè forse molto serviti gli avea mentre fu nel suo grande stato: ed essendo in Pisa, o perchè non si trovasse i Pisani amici come credeva, o perchè dispettar si sentisse in parole, avvenne un giorno che egli in tanto furor s’accese, che desiderò di morire; e domandato un fanciullo il quale il guidava, in qual parte di Pisa fosse, gli rispose il fanciullo: voi siete per me’ la chiesa di san Paolo in riva d’Arno; il che poichè udito ebbe, disse al fanciullo, dirizzami il viso verso il muro della chiesa: il che come il fanciullo fatto ebbe, esso sospinto da furioso impeto, messosi il capo innanzi a guisa d’un montone, con quel corso che più impetuoso potè, corse a ferire col capo nel muro della chiesa, e in questo ferì di tanta forza, che la testa gli [p. 130 modifica]si spezzò, e sparseglisi il cerebro, uscito del luogo suo, e quivi cadde morto: per la quale disperazione l’autore, siccome contro a sè medesimo violento, il dimostra in questo cerchio esser dannato l’dice adunque così

Io son colui, che tenni ambo le chiavi

Del cuor di Federigo, imperadore: e vuole in queste parole dire, io son colui, il quale con le mie dimostrazioni feci dire sì e nò all’imperadore di qualunque cosa come io volli; perciocchè siccome le chiavi aprono e serrano i serrami, così io apriva il volere e ’l non volere dell’animo di Federigo; e però segue, e che le volsi

Serrando e disserrando, sì soavi,

cioè con tanto suo piacere e assentimento,

Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi,

in tanto gli erano accette le mie dimostrazioni: e questo detto vuol dimostrare, che meritamente avea ogni altro tolto dal segreto dell’imperadore, dicendo,

Fede portai al glorïoso ufizio,

cioè d’essere suo secretario, per la qual quasi si poteva dir lui essere imperadore,

Tanta, ch’io ne perdei il sonno e’ polsi,

Perdesi il sonno per l’assidue meditazioni, le quali costui vuol mostrare che avesse in pensar sempre a quello che onore e grandezza fosse del signor suo; e in ciò dimostrava singulare affezione e intera fede verso di lui: i polsi son quelle parti nel corpo nostro, nelle quali si comprendono le qualità de’ movimenti del cuore e in queste più e men correnti si [p. 131 modifica]dimostrano le virtù vitali, secondochè il cuore è più o meno oppresso da alcuna passione; e perciò dicendo costui sè avere perduti i polsi, possiamo intendere lui voler mostrare, sè con sì assidua meditazione avere data opera alle bisogne del suo signore, che gli spiriti vitali, o per difetto di cibo, o di sonno o d’altra cosa, ne fossero indeboliti talvolta, e così essersi perduta la dimostrazione, la quale de’ lor movimenti fanno ne’ polsi. E detto questo dimostra la cagione del suo cadimento, e della sua morte dicendo, La meretrice, cioè la invidia, la quale perciò chiama meretrice, perchè con tutti si mette, come quelle femmine le quali noi volgarmente chiamiamo meretrici; vogliendo in questo, che come quelle femmine hanno alcun merito da coloro a’ quali elle si sottomettono, così la invidia aver per merito il disfacimento di colui al quale ella è portata: ma perciocchè ancora in parte alcuna non s’è singulare ragionamento avuto di questo vizio, perciocchè ancora al luogo dove si puniscono gl’invidiosi non s’è pervenuto, poichè qui così efficacemente in poche parole ne parla, sarà utile secondo quello che di questo vizio sentono i poeti dire alcuna cosa, Descrive adunque questo pessimo vizio Ovidio nel suo maggior volume in questa forma

— — — domus est imis in vallibus antri
Abdita, sole carens, non ulli pervia vento:
Tristis, et ignavi plenissima frigoris, et quae
Igne vacet semper, caligine seniper abundet.

E poco appresso seguita

— — — — videt intus edentem

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Vipereas carnes, vitiorum alimenta suorum,
Invidiam: visaque oculis avertit; at illa
Surgit humo pigra, semesarunque relinquit
Corpora serpentum, passuque incedit inerti.

E poco appresso

Pallor in ore sedet, macies in corpore toto:
Nusquam recta acies, livent rubidine dentes,
Pectora felle virent, lingua est suffusa veneno,
Risus abest; nisi quem visi movére dolores.
Nec fruitur somno, vigilacibus excita curis;
Sed videt ingratos, intabescitque videndo,
Successus hominum: carpitque, et carpitur una:
Suppliciumque suum est etc.

nelle quali descrizioni se noi sanamente riguarderemo, assai appieno vedremo i pestiferi effetti di questo vizio: essa secondochè noi veggiamo da Ovidio scritto, abita nelle valli, cioè secondo il giudicio dell’invidioso nelle più misere fortune; perciocchè allo invidioso pare sempre, che coloro alli quali esso porta invidia sieno in maggiore e migliore e più rilevata fortuna di lui: e oltre a ciò nell’abitazione dell’invidia, cioè nel petto dello invidioso, non luce mai sole, nè vi spira alcun vento, cioè non v’entra mai alcuna cognizione di verità, nè buon consiglio, nè parole salutifere d alcuno, ma sempre è pieno di tristizia, ed è freddissimo, siccome quello nel quale stare non può alcun caldo di carità: e in quanto dice i suoi cibi essere carni di vipere, dobbiamo intendere la crudeltà de’ suoi pensieri, e de’ suoi divisi e appetiti, de’ quali miseramente aspettando, esso pasce la dolorosa anima. Poi dice questa invidia andar [p. 133 modifica]con pigro passo; per la qual cosa possiam comprendere il peso e la gravezza del vizio opprimere tanto colui che compresso n’è, che ad ogn’altro movimento, che a quel solo al quale il tira il corrotto appetito, esso sia tardo e lento: e che esso sia pallido e magro assai convenientemente è detto, a dimostrare quanta sia la forza della passione la quale dentro l’affligge, intantochè dando impedimento alla virtù nutritiva, causa la palidezza e la magrezza. E in quanto scrive che la invidia in parte alcuna non guarda diritto, ne dimostra il giudicio dell’invidioso essere perverso, e contro ad ogni ragione e dirittura: e l’avere essa i denti rugginosi, ne dichiara il rado uso che all’invidioso pare avere nel poter divorare coloro alli quali porta invidia, quantunque egli in continuo esercizio ne sia: e l’avere il petto verde per lo fiele, il quale è abitacolo dell’ira, ci si dichiara mai nel petto dell’invidioso seccarsi o venir meno, ma sempre vivervi e starvi verde l’iracondia, la quale sempre, siccome offeso dall’altrui felicità, lo stimola a vendetta, e al disfacimento di colui a cui invidia porta. E così ancora, avere la lingua sempre bagnata di veleno, dobbiam comprendere il continuo esercizio dell’invidioso, il quale dove con altro offender non può, non si vede mai stanco di raccontar cose nocive, e di seminare scandolo. Oltre a tutto questo non ride mai l’invidioso, se egli non ride del danno altrui: e sempre vegghia, e sta attento ad ogni cosa con la quale nuocer potesse, con grandissimo suo dolore vedendo coloro alli quali invidia porta, e i lieti avvenimenti degli uomini: e perciocchè nelle corti [p. 134 modifica]de’ grati principi ha sempre di quegli che sono messi avanti, o degni o non degni che sieno, e di quegli ancora che sono lasciati addietro, e questo vizio non è altro che una passione ricevuta per l’altrui felicità, senza offesa di colui che la passion riceve, par di necessità le corti doverne esser piene, e tanto più. quanto maggior sono; per la qual cosa meritamente dice l’autore, questa meretrice non aver mai torti gli occhi, cioè volti in altra parte dall’ospizio dell’imperadore, e lei esser vizio e morte comune delle corti: adunque con così fatto nemico ebbe il maestro Piero a fare, siccome qui nel testo si dimostra dove dice l’autore, La meretrice, cioè la invidia, che mai dall’ospizio

Di Cesare non torse gli occhi putti,

cioè malvagi e disleali; Morte comune, d’ogni uomo, cioè vizio deducente a morte, e delle corti vizio, Infiammò contro a me, cioè accese, gli animi tutti, de’ cortigiani:

E gl’infiammati infiammar sì Augusto,

cioè l’imperador Federigo, Che i lieti onor, posseduti per lo glorioso uficio, tornaro in tristi lutti, in quanto esso fu privato della grazia dell’imperadore, e dell’uficio, e del vedere, e cacciato via.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,

il quale come di sopra è mostrato, fu tanto che il fece in furia divenire, e,

Credendo col morir fuggire sdegno,

cioè non essere reputato degno d’avere ricevuta la repulsa dell’imperadore, Ingiusto fece me, tanto che egli ne meritò esser dannato a quella pena, [p. 135 modifica]contra me giusto. Volendo per avventura in queste parole intendere, che dove egli stimò, uccidendosi, mostrare la sua innocenza, avvenne che molti opinarono lui non averlo per ciò fatto, ma averlo fatto sospinto dalla coscienza, la quale il rimordea del fallo commesso; e però a purgare questo intendimento seguita, Per le nuove radici, chiamate nuove, perciocchè non molto tempo davanti ucciso s’era, e in quel luogo convertito in pianta, d’esto legno, nel quale voi mi vedete trasformato,

Vi giuro: che giammai non ruppi fede
Al mio signor, che fu d’onor sì degno:

e poi parendogli con questo giuramento aver certificati della sua innocenza segue,

E se di voi alcun nel mondo riede,
Conforti la memoria mia, cioè la fama, che giace
Ancor del colpo, che ’nvidia mi diede,

quello apponendomi che io mai fatto non aveva. Un poco attese, Virgilio dopo queste parole, e poi: da ch’el si tace,

Disse ’l maestro mio, non perder l’ora,
Ma parla, e chiedi a lui s’altro ti piace,

di sapere.

Ond’io a lui: domandal tu ancora
Di quel che credi ch’a me satisfaccia,

Ch’io non potrei, domandarlo io, tanta pietà m’accora, cioè mi preme il cuore: ed è possibile l’autore questa pietà tanta non avere avuta per compassione che avuta avesse dello infortunio dello spirito, ma per sè medesimo, il qual conosceva similmente per invidia, non per suo difetto, dovere ricevere delle [p. 136 modifica]noie, delle quali aveva maestro Piero ricevute, e state gli eran predette come di sopra appare. Perciò ricominciò. Qui comincia la parte ottava di questa seconda parte principale del presente canto, nella quale il domanda Virgilio, come in quelle piante si leghino, e se alcuna se ne scioglie mai, dice adunque. Perciò, cioè per quello che io avea detto, ricominciò, a parlar Virgilio e dire: se l’uom ti faccia

Liberamente ciò che ’l tuo dir prega,

cioè di confortare la memoria tua che giace ec. Spirito incarcerato, in cotesto tronco, ancor ti piaccia, oltre alle cose che dette m’hai,

Di dirne come l’anima si lega

In questi nocchi, cioè in questi legni nocchiosi: e dinne, se tu puoi, S’alcuna, anima, mai di tai membri, quali son questi nocchi, si spiega, cioè si sviluppa o si scioglie. Allor soffìò. Qui comincia la nona parte della seconda parte principale del presente canto, nella quale lo spirito risponde alla domanda fatta da Virgilio, e dice così, Allor, cioè udita la domanda e volendo rispondere, soffiò lo tronco forte, per questo dimostrando parergli amaro e noioso, non il dire come l’anime diventan bronchi, ma il rammemorarsi della cagione perchè esso fosse tronco divenuto, e poi, che soffiato ebbe, Si convertì quel vento, che uscì fuori del tronco nel soffiare, in cotal voce, cioè:

Brievemente sarà risposto a voi.

E dopo queste parole seguita la risposta alla domanda fatta dicendo, [p. 137 modifica]

Quando si parte l’anima feroce,

è l’anima di quegli che sè medesimi uccidono feroce, cioè di costume e maniera di fiera, in quanto crudelmente e ferocemente contro a sè medesima adopera, quel corpo uccidendo, il quale per albergo e per istanza l’è dato dalla natura per insino allo estremo della vita sua;

Del corpo ond’ella stessa s’è divelta,

cioè cacciata e separata, uccidendolo, Minos, quel dimonio, il quale nel quinto canto scrive l’autore essere esaminatore delle colpe, e giudicatore de’ luoghi a quelle convenirsi, la manda alla settima foce, cioè al settimo cerchio dell’inferno, nel quale si puniscono i violenti. Cade, questa anima mandata da Minos, in la selva, la qual tu vedi qui, e non l’è parte scelta, una più che un’altra, nella quale ella debba il supplicio diterminatole ricevere; Ma là dove fortuna, cioè caso, la balestra, la gitta o fa cadere, Quivi germoglia, cioè nascendo fa cesto, come gran di spelta. È la spelda una biada, la qual gittata in buona terra cestisce raolto, e perciò ad essa somiglia il germogliare di queste misere piante; e dopo questo germogliare, dice che, Surge in vermena, cioè in una sottil verga, come tutte le piante fanno ne’ lor principii, ed in pianta silvestra: la pianta è maggiore che la vermena, in quanto la vermena non pare ancora atta a trapiantare, per la sua troppa sottigliezza; dove la pianta, essendo già più ferma e più cresciuta, è atta a trapiantare; e però è chiamata quella verga degli alberi che già ha alcuna fermezza pianta: [p. 138 modifica]

L’Arpie pascendo poi delle sue foglie,

che animali o vero uccelli l’Arpie sieno, si dirà dove il senso allegorico si porrà; e qui vuole questo spirito, poichè mostrato ha come quivi nascano, mostrare la qualità del lor tormento, il quale mostra che stea nel rompere che fanno l’Arpie delli loro ramucelli; e cosí pare quel tormento essere simile a quello che nella presente vita si dà a’ disleali e pessimi uomini, in quanto sono attanagliati; e così dice che pascendo, cioè rompendo e schiantando l’Arpie le foglie di queste piante, fanno dolore all’anime rilegate in quelle piante, come le tanaglie fanno a’ corpi: e perciocchè queste anime sono tutte intorniate e chiuse dalla corteccia dell’albero loro, e però d’alcuna parte spirar non possono, a tor via il dubbio da qual parte esse mandin fuori l’angoscia, la qual per lo dolor sentono, e che l’autore avea udita senza vedere chi se la facesse, detto che queste Arpie troncandole, Fanno il dolore, dice che esse similmente, con le rotture dello schiantare, fanno, e al dolor finestra, cioè danno per quelle rotture alle dolorose voci, le quali per lo dolore il qual sentono mandan fuori. E questo dichiarato, dichiara la seconda parte della domanda, cioè s’alcuna mai da tai membri si spiega; e dice, Come l’altre, anime verranno tutte il dì del giudicio a riprendere i lor corpi, così noi, verrem per nostre spoglie, cioè per i nostri corpi, i quali sono spoglie dell’anima, così come i vestimenti sono spoglie del corpo: Ma non però, ch’alcun, di noi, se ne rivesta, di quelle spoglie, cioè non però, [p. 139 modifica]quantunque noi vegnamo per i nostri corpi, che alcuna delle nostre anime rientri in quegli: e la cagione perchè alcuna di noi non rientrerà nel corpo suo, è per ciò,

Che non è giusto aver ciò ch’uom si toglie.

Noi uccidendoci ci togliemo i corpi, e però non è giusta cosa che noi gli riabbiamo; e per questo senza rivestirglici, Qui, cioè per questa selva, gli strascineremo, cioè strazieremo; e oltre a ciò, poichè strascinati gli aremo, e per la mesta, cioè dolorosa. Selva saran li nostri corpi, de’ quali io parlo, appesi,

Ciascuno al prun dell’ombra sua molesta,

cioè inimica. E questo finisce la sua dimostrazione. Ma qui è attentamente da riguardare; perciocchè quello che questo spirito dice, è dirittamente contrario alla verità cattolica, per la qual noi abbiamo, che tutti risurgeremo e riprenderemo i nostri corpi, e con essi risuscitati, verremo al giudicio universale ad udire l’ultima sentenza; e chi dice tutti, non eccettua alcuno, dove questi dice, che l’anime di coloro che sè medesimi uccisono, non rientreranno ne’ corpi, e per conseguente non resurgeranno; e così contradice alla nostra fede. È qui da credere che l’autore non ha qui fatte narrar queste parole a questo spirito, siccome ignorante degli articoli della fede, perciocchè tutti esplicitamente gli seppe, siccome nel Paradiso manifestissimamente appare; ma dovendo questo error recitare, ha qui usata una cautela poetica la quale è, che quante volte i poeti voglion porre una opinione contraria alla verità, essi si [p. 140 modifica]guardano di recitarla essi in propria persona, ma inducono alcuno altro, e a lui siccome quello cotale ch’è indotto tenesse, la fanno raccontare; il che Virgilio fa in alcuno luogo, perciocchè volendo d’una opinione la quale esso non teneva esser vera compiacere a’ Romani, i quali al suo tempo erano nel colmo della loro grandezza, egli nel primo libro dell’Eneida induce Giove, non quel Giove il quale esso alcuna volta vuole intendere per lo vero Iddio, ma quello che i gentili scioccamente credevano essere Iddio, e dice, che parlandogli Venere sua figliuola, e madre d’Enea, siccome sollecita degli avvenimenti d’Enea, il quale era dalla fortuna del mare, volendo venire in Italia, dove dovea essere il regno di lui e de’ suoi successori, trasportato in Cartagine, tra l’altre cose le risponde così:

His ego nec metas rerum, nec tempora pono:
Imperium sine fine dedi etc.

E non si cura Virgilio di far mentitore costui, il quale egli avea per Iddio falso e bugiardo: ma in quelle parti, ove essi vogliono quello che essi estimarono esser vero, essi in propria persona il profferano, siccome Virgilio medesimo fa sopra questa medesima materia dell’imperio de’ Romani, toccando alcuna cosa intorno alla fine del secondo della Georgica, dove dice:

Illum non populi faces, non purpura Regum Flexit etc.
Non res Romanae, perituraque regna, supple, Romana etc.

Il quale imitando l’autore, come in assai altre cose fa, fa a questo spirito dannato raccontare questa [p. 141 modifica]opinione erronea, e ciò non fa senza cagione; ma il fa volendo con questa opinione ritenr coloro che l’udiranno dal detestabile peccato della disperazione; perciocchè assai volte avviene, gli uomini più per paura della pena che per amor della virtù guardarsi dalle cose scellerate. È il vero, che ae a’ poeti gentili già conceduto fosse, non pare che la religion cristiana permetta ad alcun poeta cristiano, nè in sua persona nè in altrui, raccontare o far raccontare, assertive, alcuna erronea cosa, e che contraria sia alla cattolica verità, e però non par qui assai essere scusato l’autore per aver fatto ad uno spirito dannato raccontar questo errore. Ma a questo si può così rispondere, acciocchè si conosca l’autore in questo non avere errato: dobbiamo adunque saper esser due maniere di pena, nelle quali, o nell’una delle quali, la giustizia di Dio condanna coloro che male hanno adoperato; e chiamasi l’una delle maniere di queste pene, pena illativa, e l’altra pena privativa: la pena illativa si pone nella propria persona di colui che ha peccato, siccome è tagliarsi alcun membro o farlo d’alcuna spezie di morte morire: la pena privativa è quella, la quale s’impone nelle cose esteriori di colui il quale ha peccato, siccome nelle sue sustanze, negli onori, negli stati, nella cittadinanza, privandolo d’alcuna di queste, o di parte d’alcuna, o di tutte; e però si può dir qui, perciocchè le leggi temporali non hanno in alcuna cosa potuto punire quegli che sè medesimi uccidono, perciocchè il corpo morto non può ricever pena, e quantunque esse voglian che i corpi così uccisi sieno gittati a divorare alle fiere, questa non è [p. 142 modifica]pena all’ucciso, ma è vergogna a chi di lui rimane; e se voglian dire, egli è infamia al nome dell’ucciso, questa infamia perisce sotto l’occupazione di maggiore infamia; perocchè molto maggiore infamia è l’essersi ucciso, che non è l’essere poi gittato via a guisa d’un cane. Oltre a ciò le leggi temporali non possono nelle sue cose punirlo, perciocchè chi sè medesimo priva della vita, si priva d’ogni altra sua cosa; sicchè, perchè le leggi facessero ogni suo bene occupare, a lui non monta niente: e deesi credere, che chi di sè medeimo non s’è curato, non si cura d’alcuna altra sua cosa: e quella non si può dirittamente dir pena la quale non affligge colui al quale è imposta: e volendo la divina giustizia che impunito non rimanga così grande eccesso, quello che non può fare la temporale, si dee credere che essa supplisce, e vuole che in questi cotali sia la pena illativa, siccome ella è nell’altre anime de’ dannati, e oltre a ciò vi sia la privativa: ma perciocchè ad alcuno passato di questa vita non si può alcuna cosa torre che sua sia, se non solamente il corpo, vuole la divina giustizia ch’in questi cotali sia, credano non dovere riavere il corpo loro, come l’altre anime riaranno, comechè nella verità essi il riaranno come l’altre: e se forse si domandasse, in che sentono però queste anime danate più pena, avendo questa opinione, che l’altre non l’hanno, si può così dire: che come l’anime de’ beati desiderano i corpi loro, acciocchè come essi furono in questa vita partefici delle fatiche ad acquistar la gloria di vita eterna, così sieno con lo insieme partefici della gloria; così [p. 143 modifica]l’anime dannate ardentemente desiderano di riavere i corpi loro, acciocchè siccome strumenti delle loro malvage operazioni furono in questa vita, così in quella dannazione gli sentano punire, e sostenere pene come sostengono esse; e perciò quegli che di questo desiderio estimano d’esser privati, sentono oltre alla pena illativa, similmente la privativa; e perciò avvedutamente l’autore fa questa opinion raccontare ad una di quelle anime, alle quali la giustizia di Dio permette di stare in lor maggior pena in questa erronea opinione; e così senza aver detto contro alla verità, si può dir l’autore avere come cristian poeta scritto. Noi eravamo, qui comincia la terza parte principale del presente canto, nella quale, poichè l’autore n’ha dimostrato che pena abbian coloro i quali nella propria persona usano violenza, ne dimostra una spezie di tormenti, strana dalla primiera, data a certi peccatori, le cui colpe non furono con quelle de’ primieri eguali; perciocchè non in sè, ma nelle lor cose usarono violenza, e dice così,

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
Credendo ch’altro ne volesse dire,

avendo egli finito di dire quello che di sopra è scritto,

Quando noi fummo d’un romor sorpresi,

il qual sentimmo farsi nella selva: e quinci per una comparazione dimostra come soprappresi fossero, dicendo,

Similemente a colui, che venire

Sente il porco, salvatico, e la caccia, cioè quegli [p. 144 modifica]e cani e uomini che di dietro il cacciano, alla sua posta, usano i cacciatori partirsi in diverse parti, e così divisi porsi in quelle parti della selva, donde stimano dover potere fuggendo passare quelle bestie le quali voglion pigliare; e questi cotali parti dove si pongono chiamano poste, e però colui, alla cui posta viene la bestia cacciata, se n’avvede perciò, Ch’ode le bestie, le cacciate e quelle che cacciano, e le frasche, cioè i rami e le frondi della selva, stormire, cioè far romore per lo stropiccio del porco, e de’ cani e de’cacciatori. Ed ecco, mentre essi stavano soprappresi dal romore, due dalla sinistra costa. Nudi e graffati, dice nudi, perciocchè non erano dalle cortecce degli alberi rivestiti, come eran quelle anime che rilegate erano in que’ bronchi; e graffiati dice, perciocchè di sopra è detto, quel bosco esser pieno di stecchi con tosco, e chi corre tra così fatte piante, non potendo attendere a riguardarsi, è di necessita che si graffi, fuggendo sì forte, cioè sì velocemente e con tanto impeto,

Che della selva rompieno ogni rosta,

e però erano graffiati: e questo vocabalo rosta usiam noi in cotali fraschette o ramicelli verdi d’alberi, con le quali la state cacciam le mosche. Quel dinanzi, supple gridava: ora accorri, accorri, morte, nelle quali parole dimostra o la gravezza della pena, o la grandezza della paura;

E l’altro, cui pareva tardar troppo,

cioè esser troppo lento nel suo fuggire per rispetto a colui che dinanzi a lui fuggiva, Gridava, dicendo: Lano, sì non furo accorte [p. 145 modifica]

Le gambe tue alle giostre del toppo:

ad intelligenza di queste parole è da sapere, che Lano fu un giovane sanese, il quale fu ricchissimo di patrimonio; e accostatosi ad una brigata d’altri giovani sanesi, la quale fu chiamata la brigata spendereccia, i quali similmente erano tutti ricchi, insiememente con loro, non spendendo ma gittando, in piccol tempo consumò ciò ch’egli aveva, e rimase poverissimo; e avvenendo per caso, che i Sanesi mandarono certa quantità di lor cittadini in aiuto de’ Fiorentini sopra gli Aretini, fu costui del numero di quegli che vi andarono; e avendo fornito il servigio, e tornandosene a Siena assai male ordinati e mal condotti, come pervennero alla Pieve al toppo, furono assaliti dagli Aretini, e rotti e sconfìtti: e nondimeno potendosene a salvamento venire Lano, ricordandosi del suo misero stato, e parendogli gravissima cosa a sostener la povertà, siccome a colui che era uso d’esser ricchissimo, si mise infra’ nemici, fra’ quali, come esso per avventura desiderava, fu ucciso; e perciò in modo di rimproverare, gridava quell’altro spirito, le sue gambe, cioè il suo corso così presto, cioè veloce alle giostre del toppo, cioè agli scontri delle lance, dalle quali fuggito non s’era potendo; volendo in questo ricordargli la cagione la quale il fece tardo al fuggire, cioè la sua misera ed estrema povertà, nella quale per sua bestialità era venuto; e perocchè egli non fu prodigo, ma gittatore e dissipatore del suo, il descrive l’autore in questo luogo:

E poichè forse gli fallia la lena,

cioè a questo spirito, che gridava rimproverando a [p. 146 modifica]Lano, e la morte e per conseguente la cagione della morte sua, Di sè e d’un cespuglio, nato d’una di quelle anime, fece un groppo, cioè un nodo, forse sperando per quello non doverlo di quivi poter muovere le cagne le quali il seguivano. Di dietro a loro, cioè a questi due che fuggivano, era la selva piena

Di nere cagne, bramose e correnti
Come veltri ch’uscisser di catena.

In quel che s’appiattò, cioè in questo secondo che avea fatto un groppo di sè ad un cespuglio, miser li denti, quelle cagne,

E quel dilaceraro a brano a brano,
Poi sen portar quelle membra dolenti,

del dilacerato,

Presemi allor lo mio duca per mano,

e lasciato stare maestro Piero delle Vigne, E menommi al cespuglio, col quale colui s’era aggroppato, che piangea, Per le rotture sanguinenti, fattegli nello schiantar de’ rami, che avvenne nell’impeto delle cagne, invano: perciò dice che esso piagneva invano, perciocchè non dovea per lo pianto suo minuirgli la pena. E poi dimostra l’autore quello che questo spirito piangendo diceva, cioè,

O Giacomo, dicea, da sant’Andrea,

così mostra che fosse nominato quello spirito, il quale le cagne avevano lacerato. Fu adunque costui Giacomo della Cappella di santo Andrea di Padova, il quale rimase di maravigliosa ricchezza erede, e quella tutta dissipò e gittò via: e tra l’altre sue bestiali operazioni si racconta, che desiderando di vedere un [p. 147 modifica]grande e bel fuoco, fece ardere una sua ricca e bella villa: ultimamente divenne in tanta povertà e in tanta miseria, quanto alcuno altro divenisse giammai, laonde creder si può che esso molte volte piagnesse quello che stoltamente avea consumato, e di che egli doveva consolatamente poter vivere; e perciò il pon l’autore siccome peccatore che usò man violenta nelle proprie cose in questo cerchio: e segue poi l’autore il rammarichio del cespuglio dicendo che dicea,

Che t’è giovato di me fare schermo?

quasi dica niente, perciocchè tu non se’ campato da’ denti delle cagne che ti seguivano, e a me hai aggiunta pena: e ancor seguita,

Che colpa ho io della tua vita rea?

cioè se tu sapesti vivendo sì mal governare il tuo, che tu ne sii dannato a questa pena?

Quando il maestro fu sovr’esso fermo,

cioè sopra questo cespuglio,

Disse: chi fosti, che per tante punte

delle cime del suo albero schiantate, Soffi, cioè soffiando mandi fuor per quelle punte, con sangue doloroso sermo? E quegli a noi, disse, o anime, che giunte, cioè pervenute.

Siete a veder lo strazio disonesto,

fatto di quel peccatore il quale a questo mio bronco s’era aggroppato, e,

C’ha le mie fronde sì da me disgiunte,
Ricoglietele al piè del tristo cesto,

di questo mio cespuglio. E quinci senza nominarsi, dice solamente la città là onde egli fu, e ancora [p. 148 modifica]qual quella fosse mostra per alcuna circumscrizione dicendo,

Io fui della città che nel Batista

Mutò il primo padrone: a dichiarazione delle quali parole è da sapere, che secondochè alcuni hanno opinione, quando la città di Firenze fu da primo posta, era signore dell’ascendente Marte; e per questo coloro i quali la posero, essendo pagani, presero per loro protettore e maggiore iddio, Marte; e quello fecero scolpire di macigno a cavallo e armato, e poserlo sopra una colonna in quel tempio il quale noi chiamiamo oggi san Giovanni, e in quello fu onorato di reverenza e di sacrificii mentre in questa città perseverò il paganesimo: poi essendo qui seminata la verità evangelica, e lasciato da’ cittadini divenuti cristiani l’error gentiligio, fu questa statua di Marte tratta del detto tempio: e perciocchè pure ancora sentivano alcuna cosa del pristino errore, non la vollero disfare nè gittar via, ma fatto sopra la coscia del ponte vecchio un pilastro, la vi poser suso; comechè Giovanni Villani scriva, questa non essere stata la prima posta della statua di Marte quando fu tratto dei tempio detto, ma che egli fu posto sopra un’alta torre vicina ad Arno; e questo fu fatto; perciocchè temevano d’alcun vaticinio de’ loro antichi, nelli quali si leggeva, questa statua esser fatta sotto costellazione, che qualora in meno che onorevole luogo tenuta fosse, o fattale alcuna violenza, gran danno ne seguirebbe alla città; e in su quella torre dimorò insino al tempo che Attila disfece la città, e allora, o che la torre sopra la quale era cadesse, o che per altra [p. 149 modifica]maniera sospinta fosse, questa statua di Marte cadde in Arno, e in quello dimorò tanto, quanto la città si penò a redificare: poi riedificata al tempo dell’imperio di Carlo Magno, fu ripescata e ritrovata, ma non intera; perciocchè dalla cintola in su la immagine di Marte era rotta, e quella parte non si ritrovò mai: e così diminuita, dicono che fu posta, come di sopra è detto, sopra ad un pilastro in capo del ponte vecchio: del quale poi, essendo negli anni di Cristo 1343, oltre al ricordo d’ogni uomo, non già per molte gran piove, ma per qual che cagion si fosse, Arno, e tutta la città avesse allagata, e già i due inferior ponti menatine, similmente ne menò via il ponte vecchio, e il pilastro e la statua, la qual mai poi nè si trovò nè si ricercò. Adunque in questa guisa tratta del tempio predetto la detta statua, fu il tempio consecrato al vero Iddio, sotto il titolo di san Giovanni Battista, ed esso san Giovanni fu assunto in lor padrone e protettore de’ cittadini; e così fu il primo padrone, cioè Marte, trasmutato in san Giovanni: ond’e’ per questo, essere stato Marte lasciato per san Giovanni,

Sempre con l’arte sua la farà trista.

In queste parole e nelle seguenti tocca l’autore una opinione erronea, la qual fu già in molti antichi, cioè, che per la detta permutazione, Marte con guerre e con battaglie, le quali aspettano all’arte sua, cioè al suo esercizio, abbia sempre poi tenuta questa città in tribulazione e in mala ventura: la qual cosa non è solamente sciocchezza, ma ancora eresia, a credere che alcuna costellazion possa nelle menti degli [p. 150 modifica]uomini porre alcuna necessità; nè sarebbe della giustizia di Dio, che alcuno lasciando un malvagio consiglio, e seguendone un buono, dovesse per questo sempre essere in fatica e in noia; ma si dee piuttosto credere, che di molti pericoli n’abbia la divina misericordia tratti, ne’ quali noi saremmo venuti, se questa buona e santa operazione non fosse stata fatta da’ nostri passati: poi seguita continuandosi a quel che cominciato ha a dire di questa iniqua opinione, dicendo,

E se non fosse che ’n sul passo d’Arno,

cioè in sul pilastro sopra detto,

Rimane ancor di lui, cioè di Marte, alcuna vista, alcuna dimostrazione: e ben dice alcuna, perciocchè come di sopra dissi, questa statua era diminuita dalla cintola in sù, senzachè essa tutta era per l’acque e per i freddi e per i caldi molto rosa per tutto, tantochè quasi oltre al grosso de’ membri, nè dell’uomo nè del cavallo alcuna cosa si discernea: e per quello se ne potesse comprendere, ella fu piccola cosa, per rispetto alla grandezza d’uno uomo a cavallo, e di rozzo e grosso maestro,

Quei cittadin che poi la rifondarno, (Firenze) Sovra ’l cener che d’Attila rimase, Avrebber fatto lavorare indarno,

cioè invano. Vuole adunque questo spirito mostrare, quella pietra essere stata di tanta potenza, che per l’esserle quella particella d’onor fatto, cioè d’essere riservata e posta sopra quel pilastro, che ella abbia conservata in essere la città nostra, poichè ella fu riedificata, la quale altrimenti, da che che caso si fosse [p. 151 modifica]avvenuto, sarebbe stata disfatta e desolata: ma come davanti è detto, a creder questo è grandissima sciocchezza e peccato, perciocchè a Domeneddio appartiene la guardia delle città, e non alle pietre intagliate, o ad alcun pianeto o stella: e se Domeneddio si ritrarrà dalla guardia d’alcuna, tutto il cielo, nè quanti pianeti sono o stelle non la potranno conservare un’ora. Ma perciocchè dice sopra ’l cener che d’Attila rimase, è da sapere che essendo Attila re de’ Goti passato in Italia, in esterminio e ultima distruzione del nome romano, e avendo molte città in Lombardia e in Romagna già guaste e disfatte, secondochè piace a Giovanni Villani, esso passò in Toscana, dove similmente più ne disfece, e tra l’altre Firenze, la quale dice che occupò in questa maniera: che avendola per molto tempo assediata, e non potendola per forza prendere, volse l’ingegno agli inganni, e con molte e false promessioni prese gli animi de’ cittadini, i quali troppo creduli, sperando quello dovere loro essere osservato che era promesso, il ricevettero dentro alla città, e per sua stanza gli assegnarono.il Capitolio, nel quale esso dopo alcuno spazio di tempo fece convocare un dì i maggior cittadini della terra, e quegli facendo passare d’una camera in un’altra, ad uno ad uno tutti gli fece ammazzare, e i corpi loro gittare in una gora, la quale dal fiume d’Arno dirivata passava sotto il Capitolio; nè di questo inganno alcuna cosa sì sentia per la città, nè per avventura si sarebbe sentita, se l’acqua della gora al rimettere in Arno non si fosse veduta vermiglia del sangue degli uccisi: perchè già facendone [p. 152 modifica]romore i cittadini, e Attila sentendolo, mandata fuori del Capitolio certa quantità di sua gente armata, comandò loro che ad alcuno grande nè piccolo, maschio nè femmina perdonassero; e così, quantunque molti chi qua e chi là ne fuggissono, fu il rimanente de’ Fiorentini crudelmente ucciso, e tra gli altri ii vescovo di Firenze chiamato Maurizio, uomo di santissima vita: e fatta questa uccisione, comandò che la città fosse tutta disfatta e arsa, e così fu ogni cosa convertita in cenere e in favilla: e secondo dice lo scrittore di questa istoria, questo fu fatto il dì 18 di Giugno, l’anno di Cristo 450, e poi che ella era stata edificala 700 anni. Poi più volte tentarono i discendenti de’ cittadini fuggiti di doverla reedificare; ed essendo le lor forze piccole, sempre furono impediti da’ Fiesolani e da certi nobili uomini d’attorno, i quali estimavano la reedifìcazione di quella doversi in lor danno convertire, siccome poi avvenne: ma pure perseverando essi antichi cittadini in questo volere, essendo imperador Carlo Magno, mandarono chi supplicasse in lor nome, e all’imperadore e al popolo di Roma, che con la lor forza la città antica si potesse rifare: ottennero la dimanda loro; e oltre a ciò scrive Giovanni Villani, che i Romani mandarono molti nobili della loro città a doverla riabltare; e così con la forza dell’imperadore e de Romani, e ancora de’ discendenti degli antichi cittadini, che tutti a ciò concorsero, fu sopra il cenere, cioè sopra l’arsioni rimase d’Attila reedificata Firenze, e abitata l’anno di Cristo 802 all’entrata del mese d’Aprile. Ultimamente questo spirito [p. 153 modifica]avendo dimostrato di qual città fosse, dice di che morte s’uccidesse dicendo, Io fè giubbetto, cioè forche, a me delle mie case, e così mostra s’impiccasse per la gola nella sua medesima casa: la quale dice avere a sè fatto giubbetto, perciocchè così si chiama a Parigi quel luogo dove i dannati dalla giustizia sono impiccati. Nè è costui dall’autor nominato, credo per l’una delle due cagioni, o per riguardo de’ parenti che di questo cotale rimasero, i quali per avventura sono onorevoli uomini, e perciò non gli vuole maculare della infamia di così disonesta morte, o vero perciocchè in que’ tempi, quasi come una maladizione mandata da Dio nella città nostra, più se ne impiccarono, acciocchè ciascun possa apporlo a qual più gli piace di que’ molti.

  1. Per Antistosimi, ha il MS.
  2. Il residio.