Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo III/Allegorie del tredicesimo capitolo

Allegorie del tredicesimo capitolo

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ALLEGORIE DEL CAPITOLO TREDICESIMO


Non era ancor di là Nesso arrivato ec.

Avendo la ragione nel superior canto mostrato all’autore qual sia la colpa di coloro i quali violenza usano nel prossimo o nelle sue cose, più avanti per lo settimo cerchio procedendo, gli dimostra a qual pena dannati son coloro i quali in sè medesimi crudelmente adoperano, e le lor cose bestialmente gittano e consumano, descrivendogli primieramente quegli che contro a sè uccidendosi hanno [p. 154 modifica]mente adoperato, essere a perpetua pena dannati; e la pena è questa, che essi dalla divina giustizia gittati in inferno, quivi diventano salvatiche piante, e che delli loro rami e frondi l’Arpie schiantando si pascono; di che intollerabile dolor sentono, il quale per quelle rotture con dolorosi lamenti mandan fuori: dicendo ancora esse Arpie sopra i lor rami fare il nido loro; e in accrescimento della lor doglia mostra loro essere nella loro opinione privati della speranza di doversi di lor corpi rivestire al dì del giudicio, come tutte l’altre faranno. È adunque da sapere, acciocchè si conosca qual ragione movesse l’autore a fingere l’anime di questi dannati convertirsi in piante, l’anime nostre avere tre potenze principali, delle quali è la prima la potenza vegetativa, la quale ne dà la natura come generati siamo, in quanto cominciamo per questa potenza a prender nutrimento, per lo quale l’esser nostro si conserva e aumenta: e in questa potenza comunichiam noi con l’erbe e con gli alberi, e con ogni altra creatura insensibile. L’seconda potenza è la sensitiva, la quale l’anima nostra, avantichè noi nasciamo, riceve dalla natura, in quanto noi cominciamo a sentire, e a muoverci nel ventre della nostra madre, comechè questa potenza non ci sia nel principio conceduta perfetta, ma poi in processo di tempo, dopo il nostro nascimento, riceve perfezione; e in questa potenza comunichiamo noi con gli animali bruti, cioè con le bestie, e con gli uccelli e co’ pesci, e con qualunque altro animale ha sentimento. La terza e ultima potenza è la razionale, la quale da Dio n’è infusa, e di [p. 155 modifica] singolar grazia donata, dotata di ragione, di volontà e di memoria, e gli effetti veri di questa potenza non appariscono in noi se non nella perfetta età, perciocchè allora sono gli organi, per i quali le sue virtù si dimostrano, compiuti ed espediti; e in questa siamo simiglianti a Dio, e con gli angeli comunichiamo. Ora perciocchè chi sè medesimo uccide, appare assai manifestamente aver cacciato da sè e perduto ogni ordine di ragione e dì sana volontà, non pare che animale razional si possa chiamare, conciosiacosachè l’animai razionale con ogni sollecitudine curi di conservare il suo essere e di farlo sempre migliore, e a suo potere in più lunghezza di tempo distenderlo. Comechè d’alcuni si legga essersi già uccisi, non prima facie, come bestiali, ma mossi da alcuna ragione, siccome ne scrive Valerio Massimo de institutis antiquis, di quella donna antica, la qual diceva nel suo tempo non aver veduta contra di sè la fortuna turbata, e però con volontaria morte volea pervenire a non doverla vedere. Alcuni altri ex proposito si sono uccisi per tedio della presente vita, sperando di trapassare a migliore, siccome di Catone Uticense leggiamo, il quale prima feditosi, e sentito da suoi servidori, alutato e fasciato, e ancora toltagli ogni materia da potersi uccidere; leggendo nel mezzo del silenzio della notte quel libro, nel quale Platone scrive della eternità dell’anima, sfasciatosi e con le mani proprie ampliata la piaga, costrinse lo spirito ad abbandonare il misero corpo. Alcuni altri ancora, non per tedio della presente vita, ma per desiderio e con isperanza di migliore s’uccisero, siccome si [p. 156 modifica]legge di coloro, i quali udita la dottrina di Ferecide in Egitto, nella quale esso con tanta efficacia di sermone dimostrava la beatitudine della vita futura, corsero inconsideratamente alla morte: ma con che cagione si movesse qualunque si fosse, stoltamente e bestialmente adoperarono: perciocchè secondo ne dimostra Tullio nel sogno di Scipione, lo spirito è da rendere e non da cacciare; puote adunque apparere, quelli cotali che sè medesimi uccidono, aver perduto quello perchè chiamati debbano essere animali razionali: oltre a questo, perciocchè ogni animale, non razionale ma sensibile, quanto puote naturalmente fugge, non solamente la morte, ma ogni passion nociva, siccome contraria e nimica al senso, non pare che colui, il quale contro a questa universal natura delle cose sensibili adopera, siccome coloro fanno, i quali sè medesimi feriscono e uccidono, non si possa o si debba giustamente dire sensibile animale; e perciocchè pure animale è, resta ad essere animale di quella spezie, la quale non ha nè ragione nè sentimento, cioè vegetativo, e perciò l’autore in forma di vegetativo iu questo luogo dimostra coloro che sè medesimi uccidono, cioè in forma d’albero, il qual descrive noderoso e avvolto e pien di stecchi, volendo per questo significare il nudrimento della potenza vegetativa essere stato in cosa del tutto trasvolta dalla ragione, e contro ad ogni diritto sentimento aspra e spinosa. Che l’Arpie sieno loro cagione di doglia e di tormento, può esser questa la ragione: viene tanto a dire in latino questo vocabolo Arpia, quanto rapacità o rapina; e perciocchè la cagione della perdizion [p. 157 modifica]di queste anime è la rapina, la quale a sè medesimi fecero della presente vita uccidendosi, conoscendo esser ciò, e rammemorandosene, se ne dolgono e attristano con perpetui guai, e così questa rapina le fa dolorose, e ancora le costrigne a rammaricarsi, e a far sentire il suo rammarichio; e non solamente gli attristano di questo, ma ancora col toccar loro gli rendon brutti e fetidi; intendendo per questo l’abominevole alto della uccisione aver del tutto ogni lor fama maculata, e renduta orribile e biasimevole nel cospetto delle genti: e in quanto fanno i nidi sopra le lor dolorose piante, vuole mostrar così il lor dolore doversi continuamente aumentare, come la quantità de’ tormenti s’accresce nidificando e figliando. Della loro erronea opinione è assai detto nella esposizion testuale: e questo sia detto quanto al senso allegorico di coloro che sè medesimi uccisero. Resta a vedere della pena di coloro i quali bestialmente consumarono le lor sustanze, la qual dice, che è l’essere i miseri da nere cagne seguitati, e sbranati e lacerati; la cui significazione è assai leggiere a poter vedere, conciosiacosachè coloro i quali di ricchezza, per lor male adoperare vengono in estrema povertà, siano continuamente afflitti e stimolati, anzi nelle coscienze loro stracciati da amarissime rimorsioni del lor bestialmente aver gittato quello che dovean, quanto la lor vita durasse, sostentare e aiutare: e son questi cotali, o da tante cagne morsi, o in tante parti sbranati, quante sono le passioni le quali lor sopravvengono per la loro inopia, siccome è la fame, la sete, la indigenza del vestimento, del calzamento, [p. 158 modifica]le infermità, i disagi, i rimproveri, le beffe, le quali di sè o veggono o odon fare, o credon che fatte sieno; e son queste cagne tutte nere, cioè tutte piene di tristizia, la qual per lo color nero è significata; correnti e velocissime, in quanto subitamente in qualunque parte si sieno gli giungono e affliggono, in tanto che esse fanno loro spessissimamente desiderare e chiamar la morte: e questo basti alla parte seconda.