Il caos del triperuno/Selva prima

Selva prima

../Dialogo delle tre etadi ../Selva seconda IncludiIntestazione 19 settembre 2022 100% Da definire

Dialogo delle tre etadi Selva seconda
[p. 185 modifica]

SELVA PRIMA



DISTICHON

Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe;
tres dixere Chaos: numero Deus impare gaudet.

HEXASTICHON

Quae nat aquis coeloque interdum attollitur ales,
vel nat amore aquilae vel volat icta metu.
Nam quae solis adit, veluti Iovis ales, acumen?
est Fulicae ut Minti ludat in amne sui.
At, si illa huc humile ad stagnum descenderit ales,
quae nat aquis, aquilis digna erit esca suis.

[p. 187 modifica]

TRIPERUNO.

Voi, ch’ad un’alta e faticosa impresa
vedete or me salir audacemente
per via mai forse da null’altro intesa,
piacciavi d’ascoltare queste lente
mie corde in voce lagrimosa e mesta, In moerore animae deicitur spiritus.
ch’altro non s’ha d’un’anima dolente.
E, bench’i’ veda alzandovi la testa Pusillanimitati virtus succumbit.
mia virtú debil al salir tant’alto,
di che sovente per viltá s’arresta;
pur spiego l’ale, e quanto so m’exalto
lá ’ve m’accenna il lume d’ogni lume,
per cui non temo alcun spennato salto.
Ché, mentre su con le ’ncerate piume Utitur metaphorice fabula Icari et Dedali.
tolgomi de le nubi sopra ’l velo,
d’un Dedalo megliore sotto ’l nume,
vedrò ch’immobil stassi e volge ’l cielo, In perpetuis non differt posse et esse.
sostien la terra, e l’universo a ’n cenno,
volendo, pò cangiar o ’n foco o ’n gelo.
Or dunque, di piú sana audacia e senno
ch’Icaro mai non ebbe, a l’ardua via
ambo gli piedi, ambo le braccia impenno.
E cantovi di questa nostra ria Coecum quid et miserum hominibus vita.
prigion che «vita» nominar non oso,
le frode di essa, il volgo, la pazzia;

[p. 188 modifica]

e di quel Re, che ’n un presepio ascoso
vidi fra le duo bestie a gran bisogna,
ver’ se stesso crudel, ver’ noi pietoso, «Proprio filio non pepercit, ut nos redimeret». Paul.
che svelse il mundo tutto di menzogna
con sua dottrina colma di quel foco,
ch’arde sí dolce in alma che non sogna.
Io dico te, Iesú, lo qual invoco
mio Febo, mio Elicona, mio Parnasso,
ov’ogni bel pensier al fin collòco.
So ben che di te dir via piú t’abbasso,
che tacendo non alzo; e pur m’offersi,
ecco, a dricciar nel tuo bel nome il passo.
Ché, come vedi, son questi miei versi «Summa Providentia carere fuco voluit ea quae divina sunt». Lact.
d’amor almanco e caritade in cima,
se non toscani, ben sonori e tersi.

TRIPERUNO.

Di quella spera piú capace ed ima Tangit idearum opiniones.
del ciel, ove l’Artefice soperno
fabbrica ognor quanto mai finse prima,
io novamente usciva, fatto eterno
candido spirto leggiadretto e bianco,
che bianca piú non vien neve d’inverno;
quando ’l mio stesso fabbro un calzo al fianco
vibrommi tal, che giú ne venni a piombo
in loco basso e d’ogni posa manco.
E come vago e timido colombo «Nil sine magno | vita labore dedit mortalibus». Horat.
vola quando si parte da la torma,
del ciel tonante al subito ribombo;
tal io vi errava tanto che, d’un’orma
uscendo in l’altra, mi trovai sul porto,
dove l’oblio nostro ’ntelletto addorma.
Guardomi intorno paventoso e smorto, Rationalis anima, quae ad corpus accedit, oblivionem sui quam primum incurrit.
ché teso in ogni parte vedo un rete,
onde ch’entrarvi debbia mi sconforto.

[p. 189 modifica]

Quivi spicciando fora d’un parete
largo cosí, ch’ampio paese cinge,
chiara fontana porsemi gran sete.
La qual fra sassi mormorando astringe
al dolce ber qualunque vi s’applica;
ma tosto se ne pente chi lei tinge,
perch’ella il senso e lo ’ntelletto intrica.
Però non men a un vischio tal m’accolsi, Dulce quidem est poculum per quod praeteritorum fit bonorum oblivio.
tratto dal bere e da l’usanza antica.
Quivi cum brame tanto me ne tolsi,
che tutto ’l bene che capisce in noi
non pur lasciai, ma nel contrario avvolsi.
Acque maligne, acque di tòsco, voi
piú del mèle soavi, piú che manna,
scoprite il fele al nostro error dopoi:
ché chi vi gusta pur, non che tracanna, Difficillimum omnium rerum est mortalibus Dei consilium.
presto ne gli occhi, anzi nel cor s’annebbia:
dura cagion, che a questo ci condanna!
Cangiasi d’un bel raggio in scura nebbia,
né qual era pur dianzi non ricorda,
né su quel punto sa che far si debbia.
Io dunque, alma di bere troppo ingorda,
le parti mie d’alti pensieri dotte
perdei qual cieca forsennata e sorda.
Perché non so: sássel colui, che notte
far giorno e giorno notte pote solo,
e dá sovente a noi d’amare bòtte.
Per fallo d’uno preme tutto ’l stolo, De caeco nato scriptum est: «Quid peccavit? Hic aut parentes eius?». Responsum est: «Ut manifestentur opera Dei».
e vedesi alcun padre umil e domo
irsene giú per colpa del figliuolo.
Or chi l’intenderebbe, che d’un pomo
succeda tanto incomodo, ch’ognora
sostegna il ceppo uman l’error d’un uomo?
Ben fu di acerbe tempre, poi ch’ancora
foggia non è la qual digesto l’abbia,
né mai (tant’esser deve crudo!) fôra,

[p. 190 modifica]

se chi nostr’alme spinge in questa gabbia, «Sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur». Paul.
col raggio di pietá nol dissacerba
e tempra di giustizia in sé la rabbia;
né stomaco di struzio né onto né erba,
mentre da noi per quest’ombre si viva,
è per smaltir un’esca tanto acerba.
I' non fu’ mai di tal cibo conviva,
e pur padirlo, anzi patirlo, deggio,
per cui vien ciascun’alma del ciel priva.
La qual ir non dovria di mal in peggio, «Adam obtemperans mulieri habet tipum rationis voluptati succumbentis». Aug.
se, al priego d’una femina, colui
morse ’l mal frutto e pèrsevi ’l bel seggio.
A che unqua nascer noi, se per altrui
fallir par ch’anco l’ira non s’estingua
divina in noi, per loghi alpestri e bui?
Ahi miser! taci e morditi la lingua,
ché maladetto fie chi in ciò s’adira:
giá Dio mai d’uman sangue non s’impingua;
anzi ama l’opre sue, contempla e mira,
e studia l’uomo a sé fatto simile
scampare dal suo stesso foco ed ira.
Ma non pensar, non che cercar, suo stile «Plato in libris Legum quid sit omnino Deus inquiri oportere non censet». Cic.
via troppo da l’uman pensier rimoto,
ché alto pensier non cape in senso vile.
Dunque dirò che quanto chiaro e noto
m’era dinanzi al ber de l’acque sparve,
onde fui d’ombra pieno e di sol vòto.
Eccomi sogni intorno, fauni e larve,
che mi facean per quella notte scorta,
né mai piú ’l bel ricordo dianzi apparve.
Pur mi raffronto a quella orribil porta Utitur periphrasi circa id quod in instanti agitur.
fiso mirando, e qui fermai lo piede
com’uom ch’entrarvi drento si sconforta,
e, fin ch’altri vi passi, dubbio sede.

[p. 191 modifica]

GENIO.

«Alma, che per altrui difetto al varco
dubbioso arrivi e Dio ti vi destina,
or quivi entrando inchina
l’orgoglio, alzando gli occhi al ciel che carco
gira di stelle e mostrasi luntano!
Di lá scendesti, e piú non ti rimembra «Cum igitur statuisset Deus ex omnibus animalibus solum hominem facere coelestem, cetera universa terrena, hunc ad coeli contemplationem rigidum erexit; ibi pedem constituit, scilicet ut eadem spectaret, unde illi origo est». Sen.
qual eri avanti ’l poculo di Lete!
Ma se tornarvi brami, quelle membra,
ove tu déi corcarti a man a mano,
fa’ che raffreni fin che ’n lor s’acquete
l’uman desio che le conduce al rete
sí di legger, ove ne resti presa.
Ma strenua contesa
non sa fatica, finalmente, o carco».

TRIPERUNO.

Queste parole, in man d’un vecchio bianco,
vedendo appese di quell’uscio in fronte,
io tremai forte e tremone pur anco.
Anzi n’ho, rimembrando, a gli occhi un fonte:
ché allor, mentre per me giá si delibra
non ir piú innanzi e volgomi dal ponte,
donna m’appar accanto, che mi vibra Iustitia Dei est, ut nullum malum transeat impunitum.
un pugno al fianco e drieto mi flagella,
ch’avea ne l’altra man un’aurea libra.
Ritornomi a la porta, dove quella
mi piega col temone di sue pugna,
drieto chiamando sempre: — Alma rubella,
alma proterva, fa’ che non ti giugna
scamparti da colui che qui ti move
ad una faticosa e strana pugna,

[p. 192 modifica]

ch’avrai con esso teco e non altrove, Summa et omnium difficillima est victoria sui.
e per vincer leoni, tigri ed orsi,
vincendo te, minori son le prove! —
I' non mil fei ridir, ma via trascorsi,
qual timido cavallo che s’arresta
ne l’apparir d’un’ombra e sta su’ morsi;
poi, vòlto in fuga, soffia ad alta testa,
ma chi gli sede addosso presto il torna,
stringel ai fianchi e fra l’orecchie il pesta;
ond’egli per le bòtte si ritorna
in quella parte onde lo smosse l’ombra,
di passo no, ma corre e non soggiorna.
Traggomi drento, al fine, ove me ’ngombra Hic uterum matris intelligit.
notte ch’ancor piú m’ebbe ottenebrato,
in luogo cui la terra intorno adombra.
Ed io ne stetti non d’abisso al lato,
ma in centro d’ombre grosse denso e folto,
qual talpa preso in gli occhi e smemorato.
Cosí piú mesi in quella tomba involto, «Decem meusium tempore coagulatus sum in sanguine». Sap.
io, pronto spirto ne la carne inferma,
stetti non pur prigione, ma sepolto,
fin che, o Natura, l’opra tua fu ferma.

MELPOMENE.

Mentre piangendo l’alte strida ed urli,
sorelle mie, sí duramente innalzo
(da me sol viene il tragico costume), «Melpomene tragico proclamat moesta boatu». Virg.
lasciáti i crin al vento, ché ridurli
qui non bisogna in trezza né ’l piè scalzo
guidar per vaghi fiori e verdi piume
de’ prati lungo al fiume,
anzi, sdegnando quella piaggia e questo
poggetto ameno, statine qui meco
in solitaro speco,

[p. 193 modifica]

fin che mie rime udite sian di mesto
e lagrimoso canto, il qual risulte
da quei sassosi monti e valli inculte.
Depon, Urania mia, la tua siringa, Asperitatem rythmorum ipsa haec materies deposcit.
che settiforme ha in sé del ciel il tipo;
e tu, Clio, la lira, ove ’l mantòo
al greco vate fai ch’egual attinga;
e mentre i lauri e l’edere dissipo,
spargi quei fior del corno, che l’eròo
giá svelse ad Acheloo,
Erato mia: né tu, Polinnia, il plettro,
né, Calliope, l’arpa, né la cetra,
Talia (s’unqua s’impetra «Non facit ad lacrimas barbitos ulla meas». Ovid.
grazia da voi!), pulsate, ch’ora il settro
tengo fra noi, cessando ancor le stanze
di Euterpe, e di Tersicore le danze.
Ahi! di qual gioia e quanto bella effige
traboccar vidi l’uomo in tanto scorno!
Miráti ’l ciel come, di grado in grado,
sol per causarli util piacer, s’afflige Summum erga hominem Dei beneficium.
volgersi tra duo moti adversi intorno!
Miráti ’l Gange, l’Istro, Nilo e Pado,
ogni altro fiume e vado
tornarsi d’onda in onda al vecchio padre!
Pioven le nubi e la porosa terra
dal centro si disserra,
sorbendo il dato umor, onde giá madre
fassi di questo fior e di quel pomo,
per aggradir ed aggrandir un uomo:
l’uomo che, ingrato a Dio non ch’a Natura, Peccatum originale, quod in Adam fuit personale, in aliis naturale.
per antiporre un fral desire al dolce
suo fermo stato, giustamente abietto
fu d’alta gloria in infima iattura,
la cui durabil colpa in ciel si folce,
che mai non parte dal divin aspetto.
Però sta fermo e stretto

[p. 194 modifica]

destin, a penitenzia d’un tal fallo,
che l’uomo in grembo a morte quivi nasca:
cosí dal cielo casca Anima rationalis hanc in miseriam devolvitur, ut mox altius se ipsam recognoscat.
l’alma di novo fatta in scuro vallo,
dove se stessa oblia cieca ed inferma,
giá devoluta in sterco, fango e sperma.
Indi Natura, per supplicio degno,
men se gli mostra madre che noverca;
la qual ogni animal provvede contra
l'onte del tempo, dandogli sostegno.
Nasce pur l’uomo ignudo, il quale cerca «Principium iure tribuetur homini, cuius causa videtur cuncta alia genuisse natura, magna saeva mercede contra tanta sua munera; non sit ut satis aestimare, parens melior homini an tristior noverca fuerit». Plin.
schermirsi d’un agnello, volpe o lontra,
dal gelo in cui se ’ncontra,
ché di scampo megliore non ha copia.
Ma di squame coperti, penne e lane
per fiumi, selve e tane
van pesci, augelli e fiere. In somma inopia
sol nasce l’uomo, cui cadé per sorte
pianger nascendo e, nato, gir a morte.
Non cosí tosto un augelletto spunta
de l’uovo fora, quando a tempo nasce:
ecco s’addriccia e, con soppresso grido,
del becco l’esca piglia in su la punta,
e senza documento di chi ’l pasce
su l'orlo estremo tirasi del nido,
donde giú funde al lido
ciò che smaltisce per servarsi netto.
Non cosí l’uomo, no, ché d’ora in ora «Oh quam contempta res homo nisi supra humum se erexerit!». Arist.
convien di fascie fora
cavarlo, in cui legato stassi stretto,
e trarlo di sozzura e puzzo lordo,
al misero suo stato e cieco e sordo.
Or dite, prego, quand’egli mai s’erge «Prima roboris spes primumque temporis munus quadrupedi similem facit». Plin.
co’ l’aspetto nel ciel onde si parte,
che pria carpone de le braccia gambe
non faccia, mentre in foggia d’angue perge?

[p. 195 modifica]

Ché se al contrasto di natura l’arte,
l’industria in suo ripar non fusser ambe,
mentr’egli sugge e lambe
lo sin materno, peggio de le belve
ne rimarrebbe, tanto l’odia e sdegna
e fassigli matregna
colei ch’abbella monti, valli e selve,
e d’un sí gentil figlio non tien cura «Non quidem certe est aliquid miserius homine». Homer.
pel torto del primier; dico Natura!
Solo la donna artifice e la industre
parton de le sue membre l’officina;
ma quant’è ’l pianto e quante le percosse
anzi ch’ancora il misero s’industre
saper su piedi starsi! onde ruina
sovente sí, che molte fiate mosse
di luogo porta l'osse,
restandone d’un mostro piú deforme.
Cosa non giá, che ne li armenti caschi:
cercate e’ verdi paschi,
le nubi, i fiumi, quante sian le forme
che, nate appena, chi ’l nòto, chi ’l volo,
chi prende il corso; e l’uomo casca solo!
Deh! perché nasce lo ’nfelice dunque «Itaque multi extitere qui non nasci optimum censerent aut qui ocissime aboleri». Plin.
di tanti strali ad esser un versaglio?
Ogni tempesta in lui s’aggira e scarca,
ogni virgulto se gli attacca, ovunque
move di questa selva nel travaglio.
S’avvien ch’egli pur goda, ecco la Parca «Oh fallacem hominum spem fragilemque fortunam et inanes nostras
conceptiones, quae mediocri in spatio saepe franguntur et corruunt!». Cic.

rumpelo al mezzo, e varca
la vita, al sol qual nebbia o fumo al vento:
stato penoso e miserabil tanto!
Ch’altro che affanni e pianto,
travagli, sdegni, lagrime, scontento
attende uomo che nasce? e se lo move
fortuna a qualche onor, morte vi ’l smove.
Queste parole in capo

[p. 196 modifica]

voglio sculpite sian d’ogni tiranno,
lo qual non esser Dio, ma fumo e nebbia «Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas | regumque turres». Hor.
s’intenda, e che non debbia
farsi adorar al mondo, perché vanno
e vengon tutti eguali di fral seme,
ma tal le piume, tal le paglie preme.

TRIPERUNO.

Dapoi li giorni e mesi, che ’n tal centro
sí lordo il mio destin crescer mi fece,
donna m’apparse a quel girone dentro, Natura.
ch’indi sciolto mi trasse d’orbo in vece,
poi molto altiera disse: — Or tienti in mente,
mortal, che piú tornar qui non ti lece! —
E ciò parlando, l’empia ed inclemente, «Natura ceteris animantibus testas, cortices, coria, spinas, villos, setas, pilos, plumam, pennas, squamnas, vellera tribuit; hominem tantum nudum in nuda humo natali die abicit ad vagitus statum et ploratum». Ex Plin.
nudo fanciul ne la stagion piú acerba
lasciommi solo e sparve incontanente.
Sparve costei d’aspetto alta e soperba,
ed ove allor passava, in ogni canto
seccar facea con fior e frondi l’erba,
fin che di neve col gelato manto
mi ricoperse intorno e monti e selve;
di che tremavo con dirotto pianto.
Miravami da lato e fiere e belve
con ogni augello d’alcun pel guarnito,
qual sia che ’n grotte alberghi o qual s’inselve;
ma sol io nudo sopra il nudo lito
stavami d’Aquilone sotto ’l fiato,
né fui per tanto da pietade udito.
Il qual piangendo mover quel spietato Erode.
avrei potuto, ch’ogni fanciullino
uccise per mal zelo del suo stato.
Chi vide mai d’inverno un cagnolino
tremar su l’uscio chiuso di chi ’l tiene
usato starsi di madonna in sino;

[p. 197 modifica]

cosí veder potea me con le rene
in terra nude, vòlto in quella parte
del ciel ove ’l suo moto si conviene,
ed ove ’l Serpe tortuoso parte Polus quod centrum est circuli arctici. «Arctos oceani metuentes aequore tingi». Virg.
l’orribil Orse, dove nasce il spirto
del fier Boote che non mai si parte
(qual fiume e lago, ch’aspro duro ed irto
non ferma il corso) di Callisto in braccio.
Ma non vidi poi sí d’un lauro e mirto,
anzi con altri assai di quell’impaccio
lor vidi sciolti, e con bella verdura
starsen di neve in mezzo e presso al ghiaccio,
mercé le calde gonne, che Natura «Truncos arboresque cortice interdum gemino a frigoribus et calore natura tutata est». Ex Plin.
lor diede per servarli eterna vita:
a lor sí mite, a noi maligna e dura!
Ma una dongella, non so d’onde uscita,
presta ne gli atti e d’abito succinta,
m’accolse in grembo, di servir spedita;
poi lunga fascia intorno m’ebbe cinta,
portatomi giá dentro una spelonca
ben chiusa intorno e di fuligin tinta.
Ver è che, d’uomo come statoa tronca
di braccia e gambe, in que’ legami resto,
e cosí giacqui stretto in picciol conca.
Onde col capo sol (ch’un’oncia il resto
mover non poscio) vòlto a lei parlava,
con quell’istesso di fanciullo gesto
qual fece altrui con Dio, quando d’ignava «Ah, Domine Deus, ecce nescio loqui, quia puer ego sum». Hieremias.
lingua mostrossi e proferir non valse,
dovendo predicar a gente prava.
— Chi fu la donna — dissi — cui si calse
gittarmi in terra nudo al vento e pioggia,
onde ’l mio corpo di gran gelo n’alse? —
Ella sorrise, lagrimando, in foggia
di chi nel petto amaro e dolce copre;
poi disse: — Eternamente non s’alloggia

[p. 198 modifica]

in questa terra, né si cela e scopre
il sol eternamente: sol un franco
e fermo stato è molto al ciel dissopre.
Di lá cadesti e sei per montarvi anco,
se ’n questa umana vita di due strade «Littera Pythagorae discrimine secta bicorni». Virg.
dritto sentiero pigli e lasci ’l manco.
Però ch’al fin de la piú molle etade
ti trovarai sul passo di Eleuteria,
che per doi rami è guida a dua contrade.
Quinci ratto si viene a la miseria,
quindi al pregio acquistato per lung’uso,
ché s’ha quanto di aver si dá materia.
Ovver fia dunque tempo che ’n ciel suso
ritornarai vittor di questa giostra
o cascarai, di quel che sei, piú giuso.
La donna, che sí cruda ti si mostra,
fidel ancilla de l’Eterno Padre,
non odiar, perch’è la madre nostra,
nostra non pur, ma d’ogni pianta madre,
Almafisa chiamata, che riceve
sua fama in variar cose leggiadre. Pulchrum naturae varietas est.
E s’or il mondo t’ha cangiato in neve,
non d’aspettar t’ incresca, perché i lidi
rinnovellar de’ fiori ancor ti deve.
Né sia perch’animale alcun invidi
uomo per piume o squame o pel che s’abbia,
né perché sappian tesser antri o nidi;
e tu sol, nudo, isposto a l’empia rabbia
di Borea, veda ogni vil canna e legno
armato contra ’l freddo ed atra scabbia.
Questo forse ti pare d’odio segno;
pur sta’ sicuro e fa’ che ti conforte,
ch’odio non è, ma sol un breve sdegno.
S’odio tal fusse, ti darebbe morte, «Teneamus ut nihil censeamus esse malum quod sit a natura datum hominibus». Cic.
né avrebbeti produtto Dio giammai
né fatto del suo regno al fin consorte.

[p. 199 modifica]

— O me felice — dissi allor — non mai
esser nasciuto e, senza altra vittoria
di carne, gioir sempre in gli alti rai!
— Ne’ rai — quella rispose — de la gloria,
de cui ragioni, per gioir non eri,
se pria non dato avessi qui memoria.
Alma non fu né fôra mai che speri,
innanzi d’esta vita i vari affanni,
viver del ciel in que’ lunghi piaceri.
Guarda, figliuol, che forse tu te ’nganni,
s’esser for che ’n idea ti pensi eterno,
nanti la forma de’ corporei panni.
Li quali ebber principio dal soperno
Padre, con l’alma scesa in questi guai,
ove, de la vertú se col governo «Aequaliter se in adversis gerere quid aliud est quam saevientem fortunam in adiutorium sui pudore victam convertere?». Val. Max.
di questo vento l'onde sosterrai,
che non ti caccia quinci e quindi a voglia,
oh lode, oh fama, oh pregio che n’avrai!
Però d’esser nasciuto non ti doglia,
né di Almafisa il sdegno oltra ti prema,
ché ’n ciel déi riportar felice spoglia,
e salirai sopra la cinta estrema,
che le soggette del suo moto avvisa
e molto di lor proprio moto scema.
Anchinia industre sono, sempre fisa Industria.
supplir ai mancamenti con bell’arte,
se mancamento è in quella d’Almafisa.
Né son, quand’ella cessi, per mancarte Industres homines, ubi dormitare videtur natura, exiliunt.
di pronti avvisi e di sagaci modi,
scoprendoti mie prove in ogni parte.
Fra tanto cosí stretto in questi nodi
voglio tenerti, fin che a tempo ritto
ti sosterrai su piedi fermi e sodi.
Ma viene ecco mia sore, che ’n Egitto Ars liberalis.
uscita, da’ caldei l’uman dottrina
portò de le scienze a tuo profitto;

[p. 200 modifica]

ed anco è audace sí, ch’assai vicina Teologia.
sovente a Dio poggiando si ritrova
e vede lui d’una persona e trina.
Costei l’altezza di natura prova, Fisica
distingue, insegna in argomenti fermi, Logica
ma sopra lei sol contemplar le giova, Metafisica.
ché sa quanto sian debil ed inermi
gli sensi umani e la divina altura,
non che i ragionamenti ottusi e ’nfermi.
Costei la terra, il mar, il ciel misura, Geometria
nómera le cagion di piogge e venti Aritmetica
con l’osservar di stelle ogni mistura. Astrologia
Costei qua giú gli armonici concenti Musica.
seppe cavar su dal soave moto,
per levamento de l’afflitte genti.
Costei, de’ spirti con vigor, l’ignoto Magia.
cognito fa, li quali sotto l’etra
pendon ne l’aere piú dal ciel rimoto.
Costei sa le virtú d’ogni erba e pietra, Medicina
orando persuade il giusto e il torto, Arte oratoria
e canta e’ gesti altrui ne l’aurea cetra. Poesia
Senza costei non è stabil conforto Filosofia morale.
di questo mare al travagliato corso:
da lei tu sempre avrai securo porto.
Ed io con lei ti mostrarò quell’Orso Sotto metafora del navigar sotto tramontana parla di Camillo e suo figliuolo Paolo di casa Orsina.
con l’Orsatino suo, che sian tuo guida
per ogni spiaggia e periglioso dorso.
Non sará vento mai che ti divida,
stanne sicuro, dal governo loro,
che la sua luce altéra nol conquida.
Quel di Vinegia sommo concistoro
muove sotto costei lo gran stendardo
e pose in man de l’Orso il leon d’oro:
Orso non men di senso che di guardo, Arte militare.
pronto a le imprese, liberal e schietto,
veloce al perdonar, a l'onte tardo. —

[p. 201 modifica]

Parlava la donzella e gran diletto
favoleggiar di quello si prendea,
quando l’altra, giungendo a lei rimpetto,
con voce e viso altier cosí dicea:

TECNILLA.

Su, presto, Anchinia, su, che tardiam noi? «Praestantissimum animal est homo in terris existens». Apuleius.
Esca d’impaccio omai, né piú si lasce
tanto bel spirto avvolto in quelle fasce,
ché aver eterni in ciel dé’ i giorni soi!

ANCHINIA.

Far una impresa tostamente e bene,
che d’alto pregio ed eccellente sia,
nostra vertú non è, Tecnilla mia,
ma solo al Re celeste ciò conviene.
Egli sol è, che tra ’l pensier e l’atto
non cape tempo, quanto esser può, breve;
che producendo un fior non ha men leve
fatica, ch’ebbe a far quanto è mai fatto.
Quest’animal è di maniera tale, Homo omnium animalium excellentissimus difficiles habet ortus incrementaque tarda.
che, qual sia per venir, non vien sí presto;
cosa non giá d’altro animai, ché questo
vive dapoi, quell’è caduco e frale.
Però gran tempo, ove l’arte s’impaccia,
va tanto piú quant’è l’opra piú degna:
tu stessa el sai, né alcun altro te ’nsegna,
se non la prova e le tue stanche braccia.

TECNILLA.

Non le dir stanche, ove ’l sudor gradisce, «Generosos animos labor nutrit». Sen.
ché un dolce incarco mai non fa stracchezza;
onde, quanto lo indugio, la prestezza
perfettamente ogni opra sua compisce;

[p. 202 modifica]

ché, ove intervien de nostri alti pensieri
volunteroso ed avido consenso,
sí pria l’affetto e poi l’effetto immenso Ab affectu perficitur effectus.
cresce, ch’al fin non ha che piú alto speri.
Io sola in l’uomo tutti e’ miei concetti
lieta riposi, e non in altra cosa;
e tu, Almafisa, benché neghittosa
gli sei, non temo giá che ’l sottometti.

ANCHINIA.

Taci, non dir cosí, germana sciocca,
ch’error di lingua va né mai ritorna; «Nescit vox missa reverti». Hor.
troppo sei baldanzosa; e chi le corna
in ciel vòl porre, al fin giú si trabocca.
Natura non pur l’uomo, ma, piú d’uomo
se cosa altéra nasce, per la chioma
la tien al segno; egli la grave soma,
volendo o no, sen porta, umile e domo.

TECNILLA.

Sí; quando l’arte mia non vi s’arrisca Naturae humanae incommoda qui recte philosophantur non magni faciunt.
opporsi a quante passioni ed onte
fargli può mai quella soperba fronte,
ch’ei sotto soi flagelli s’invilisca.

ANCHINIA.

Tu fermamente, se non tutta, in parte
sei fatta stolta e garrula, Tecnilla,
la qual in foggia d’arrogante ancilla
a tua madonna crediti agguagliarte.
So ben ch’ogni pensier hai d’imitarla Ars, in quantum potest, naturam imitatur.
e, vòlta in tal desio, sempre la invidi;
onde, perché non mai la giugni, gridi
e latri come chi d’altri mal parla.

[p. 203 modifica]

Ma sta’ sicura che senz’onda il mare,
senza splendor il sole, senza belve
e nanti senza augelli fian le selve,
ch’un picciol nevo mai lei poscia equare.
E ciò saper non m’è durezza alcuna,
quando ch’io d’ambe voi son l’aiutrice,
ed anco Pirra, donna ferma, altrice «Per varios usus artem experientia fecit» Manil.
di tutte prove, vien meco in quest’una
sentenza: che Natura, in un momento
formando un picciol vermo, eccede tanto
l’arte operante al sforzo estremo, quanto
ogni vil cosa l’ampio fermamento.
Di che qui darti intendo un sano avviso:
se alcuna è in te virtú, la riconoschi
sol d’Almafisa, che se i monti e boschi
ci nega, l’opre nostre son un riso.

TECNILLA.

Non far, Anchinia, piú di ciò parole;
so ben ch’Industria in losingar Natura
fu sempre vaga, onde non ha misura «Qui iudicat voluntati suae obtemperare non oportet». Amb.
lo giudice che tien la parte sola.

ANCHINIA.

Se d’adular son vaga nostra madre,
tu adulterarla piú; ché ’n l’altrui vista
fai natural quel ch’opra è di sofista, Ars sophistica apparens sapientia est, et non existens.
né men le mani hai de le voglie ladre.

TECNILLA.

M’allegro ben che te stessa condanni!
O scema d’intelletto, non t’accorgi
quanto di scorno, me biasmando, porgi
a te medema e ’l tuo veder appanni?

[p. 204 modifica]

Son io ne l’opre mie piú da ragione
che da l’industria mossa, e ’n l’aspra imago
de la viril Etia ben piú m’appago, Ragione.
che ’n la tua, ornata sol di fizzione;
ché quanto avanzar puoi de le nostr’opre, Hominum industria metallorum conversionem (quod est naturae) ob avaritiam quaerit.
t’industri porlo in grembo d’avarizia,
e fai cosí, che l’empia tua malizia
col manto mio ne gli occhi altrui si copre.
Però qual maraviglia se la fraude
di veritá sta involta ne la pelle
e se imputate a l’arte sian le felle Liberalis ars culpa manualis industriae saepe calumniam patitur, ut patet de alchimistis.
tue astuzie, onde Almafisa ride e plaude?
Sen ride e plaude in foggia di chi, altrui
odiando, il vede scorso in qualche scherno.
E tu quella pur sei, che ne l’inferno
t’ingegni penetrar ai luoghi bui
e trarne la cagion di tante risse,
furti, omicidii, stupri e sacrilegi:
dico ’l metallo, con cui adorni e fregi
le menti umane sí, che ’n quel stan fisse
né piú s’innalzano a specchiar il lume, «Magnitudo pecuniae a bono et honesto in pravum abstrahit». Sallust.
ch’io di Natura posi oltra la cima,
e men d’un’arca d’or’ si prezza e stima
un atto generoso e bel costume!
Ma perché l’ingordigia di quel mostro,
c’ha ventre e morso d’adamante e foco,
empir non puoi, ché ogni esca gli par puoco
e va fremendo in questo mortal chiostro;
tu che levarmi d’Arte il nome cerchi
e quel che Alchimia si dimanda pormi,
altri metalli in or’ par che trasformi:
oro non sono ed esser pur alterchi!
Misera che tu sei, non vedi chiaro «Semper discentes et numquam ad scientiam veritatis pervenientes». Paul.
ciò che fai senza l’arte sa di froda?
non vedi ben che non si rumpe o snoda
il laccio che a la gola tien lo avaro?

[p. 205 modifica]

Quanto meglio farai non dipartirti
dal primo nostro rito e modi antiqui,
e ’nvestigar in ciel qua’ sian li obliqui,
e qua’ gli dritti segni, e piú alto i spirti
che causan e’ duo moti e tante fiamme
scoperte a l’uomo nostro, che ’n la culla
qui tieni avvolto come cosa nulla,
cui rumper giá s’affretta Cloto il stamme!

ANCHINIA.

S’io sí rubalda qual or m’hai depinto
io teco fusse, o maldicente donna,
rubalda anco sarei con mia madonna, Multa sunt quae natura industriae nostrae reliquit facienda ut domina ancillae.
c’ha fatto l’uomo e non, come tu, finto.
Tu fingi l’uomo, anzi tu ’l stempri e spezzi,
tu ’l snervi, tu ’l disossi, guasti e spolpi,
e poi, se mal gli vien, Natura incolpi, Natura enim quae hominis vitio corrupta est multa incommoda generi humano parit.
che piú d’un uomo una formica apprezzi.
Dimmi, insolente donna, perché resti
con quella forza tua, che d’Almafissa
passa l’altezza (sí la sai prolissa!),
oprar che mal alcun non l’uomo infesti?
Se ferreo è il nervo, se d’azzale è il braccio,
se tant’è ’l tuo valor ch’aver ti vanti,
perché non smovi le cagion de’ tanti
uman affanni, febre, caldo e ghiaccio?
perché non freni (se la Grecia tua,
ove sí splende, parla sempre il vero)
quell’Eolo, de’ venti c’ha l’impero,
e fa sentir altrui la forza sua?
perch’anco in cielo, d’Orion a tergo
latrando, un picciol Cane tanta rabbia
sparge d’ardor, e tant’umor e scabbia
diffunde il Drago dal suo eterno albergo?

[p. 206 modifica]

Oltra dirò: per qual cagion non svelli
de le sanguigne mani di Tanéta Mors omnium naturalium incommoditatum terribilissima homini est.
la falce, che giammai non si racqueta
truncar gli umani e farne polve d’elli?
Tanéta i’ dico, sí, atra ninfa e cruda,
che i tuoi Platoni e Socrati non scelse;
anzi, quanto le teste son piú eccelse,
lor spezza, e d’elli tu ne resti nuda!

TECNILLA.

Quanto a le dua stagioni a l’uomo infeste,
non ti rispondo, perché giá la impresa
ti diedi di ciò degna: far la spesa, Industria quippe humana dicimus temporis iniurias ferre.
contra lor, d’ombre, tetti, piume e veste.
Ad altri morbi assai per te si occorre,
c’hai simil esercizio, né vergogna
ti paia impreso aver da la cicogna
un ventre adusto foggia per diporre.
E come a la mia ninfa Filomusa Duabus sed diversis tibiis utuntur musica et medicina.
la tibia per isporre il canto usata
trovasti giá, cosí ha Farmacia grata
la tromba che al purgar un ventre s’usa.
Di ta’ remedi al miser uomo e schermi
contra l’offese di Natura certo
studio ti vien, e poi la laude e ’l merto,
perché sollevi, Anchinia mia, gl’infermi.
Ma quanto a quel che l’invincibil ferro «Mors est munus necessarium naturae iam corruptae, quae non est fugienda, sed potius amplectenda et iterum fiat voluntarium quod futurum est necessarium». Io. Chrys.
de l’improba messora frenar debbia,
voglio non puoter farlo, ché di nebbia,
per mezzo suo, gli alti intelletti sferro.
La morte a miei seguaci è un’esca dolce
e di Natura for del fango i purga,
ed è cagion ch’un’alma d’ombra surga
ne l’alta luce, di che ’l mondo folce.

[p. 207 modifica]

«Qual è chi viva e non vedrá la morte?»,
David cantava lieto ne la cetra,
bramoso il gentil spirto d’esta tetra
prigion uscir a la celeste corte.
Però di’ meglio, ch’io puotendo tiri
tanti miei figli tosto d’esta tomba,
ché un cor non piú s’incende al son di tromba,
d’un’alma santa a gli ultimi sospiri,
né farle può Natura piú grand’onta
che ’n questa vita sua menarla in lungo,
la qual pò invidiar un fior, un fungo,
che nasce e mor fra un sol ch’ascende e smonta.

ANCHINIA.

Stolto parlar se non stolta risposta
potrebbe aver; onde chi sempre tacque
a gli insolenti detti, sempre piacque:
dico quanto al clistero o sia sopposta.
Ben si potrebbe un portico, un palagio,
un vestal tempio ed un anfiteatro
addurre in loda mia, l’arme, l’aratro,
la nave e tante cose; ma ’l malvagio
rancor t’accieca e légati la lingua,
che non pò dir quel che ragion la sferza.
Tu non sei prima né seconda e terza,
quando che l’ordin nostro si distingua,
se ti credi esser, non di te son quarta.
Roditi pur, se sai, che non ti cedo;
e s’attendermi vòi mentre ch’io riedo,
possio condur chi tal dubbio diparta.

[p. 208 modifica]

TECNILLA.

O temeraria ed arrogante! mira
come si gonfia questa fabbra vile!
Qual giudice sará tanto sottile,
che nostra lite concia? dimmi, è Pira? Onmium artium experientia iudex videtur.
dico quell’altra de le prove mastra,
che, come tu, vantandosi va ch’io
cosa che vaglia senza lei non spio,
e di Almafisa appellami figliastra.

ANCHINIA.

Vantarsi drittamente può qualunque
trovasi aver servito qualche ingrato;
ché quanto ben è in te non l’hai trovato
se non per il suo mezzo. E pur, ovunque
esser ti trovi, ch’altri non conosca
l’astuziette tue donde prevali,
ti fai sí grande che, s’avessi l’ali
cosí d’ogni altro augel com’hai di mosca, Ars comparatione naturae musca est ad aquilam.
egual salir vorresti al gran Monarca;
lo quale sol vòl essere, che senza
sian l’opre sue d’alcuna esperienza,
ove egli pienamente e ratto varca.

TECNILLA.

Di me medema meco mi vergogno,
trovandomi altercar con essa teco!
Hai forse il capo tepido di greco,
ubriaca che tu sei? ch’ancor bisogno
farotti aver del tempo, c’hai qui speso
in dirmi oltraggi, meretrice lorda!

[p. 209 modifica]

ANCHINIA.

Non mi toccar, Tecnilla, questa corda,
ché peggio sentirai quel c’ho sospeso
di lingua in cima. Or taci e fia tuo meglio!
Dir onte altrui né udirle voler poscia, «Quod ab alio odis fieri tibi, vide ne alteri tu aliquando facias». Tob.
è di pazzo costume; ma, d’angoscia
mentre sei pregna, va’ mirarti al speglio,
se vergognarti vòi piú del tuo volto
fatto di mostro per soverchia furia,
che litigar qui meco e dirmi ingiuria,
le quali di te meglio forte ascolto.

TRIPERUNO.

Eran le dua sorelle omai sí d’ira, «Furor arma ministrat». Virg.
per la puntura di sue lingue, in cima,
che fu tra lor per esser pugna dira.
Ma grave donna di molt’altre prima,
dolce cantando, fuvvi sopraggiunta,
la cui beltá non quanta sia s’estima.
Un’arpa con sua voce ben congiunta
fece che da le dua giá in arme prone
la gara venne tostamente sgiunta.
Latte di tigre o sangue di dragone Feritas ad harmoniae concentum facile mansuescit.
ben mostrarebbe aver beuto infante,
chi non saltasse udendo sua canzone!
Non è di pietra cor, non d’adamante,
non di Neron, Mezenzio, Erode, Silla,
che non si dileguasse a lei davante.
Onde non pur Anchinia con Tecnilla
lasciâr l’ingiurie fattesi, ma sono
e questa e quella piú che mai tranquilla;

[p. 210 modifica]

anzi leggiadre, al numerabil sòno
di diece corde, mosser una danza,
dandosi un bascio ad ogni sbalzo nono. Novem doctrinae atque scientiae nodos intellige sub novem musarum figura. Non sine maxima proportione et harmonia orbes coelestes invicem locati sunt.
Quivi Almafisa venne con l’onranza,
fra mille ninfe d’arbori e de fiumi,
ché ognun concorre a quella concordanza:
né men scherzan in cielo e’ chiari lumi,
nel mar e’ pesci, e ’n cielo quei dal volo,
le fiere in terra e i serpi ne’ lor dumi.
Stavami ne le fascie stretto e solo,
sí come l’augelletto, il qual distende
l’ale, ma non s’innalza e n’ha gran dolo.
Chi su, chi giú quel tutto che s’intende
da l’uom, se non a pieno, almen in parte,
va, vien, traversa, corre, monta e scende.
— Ciascun mai d’Omonía non si diparte! — Concordantia.
cosí la cantatrice udi’ chiamare,
che i passi altrui col canto suo comparte.
Io che l’errante macchina danzare,
per quel dolce concento, vidi al moto Deus noster gloriosus omnia in numero, pondere et mensura creavit.
universal e poi particolare,
di quei legami tutto mi riscuoto,
come colui che lungo indugio annoi,
dovendosi asseguir qualche suo voto.
Svelsi di quelle scorze un braccio e poi,
con quella svelta man che i nodi sterpe,
tanto cercai ch’usciron ambi doi.
E con quel modo ch’un immondo serpe,
vedendo, ov’era ’l ghiaccio, nato il fiore,
si sbuca lieto d’un’angosta sterpe,
dove si spoglia il vecchio corio fore
tutto d’argento, ed or fassi piú cinte «Nihil non tam proprium humanitatis est quam remitti dulcibus modis astringique contrariis». Boët.
del ventre al capo ed or segue ’l suo amore;
tal io, poi che le spoglie risospinte
m’ebbi d’addosso, per danzar su m’ersi;
ma fûrno dal desio mie forze vinte.

[p. 211 modifica]

Ché surto in piede starvi non soffersi,
anzi cascai, donde corse a comporre
Anchinia un carro, il qual meco si versi.
Su tre rotelle il carriuolo corre,
ed è, sí come io son di lui, mio guida
che al passo infermo e debile soccorre.
Di ciò par ch’Almafisa se ne rida,
che ’l legno arguto poggia ovunque poggio,
e che l’industre Anchinia è che m’affida.
Ma con le mani a lui mentre m’appoggio
ed ir con seco quinci e quindi bramo,
ecco me ’ntoppo in qualche adverso poggio;
di che sossopra il carro ed io n’andiamo:
quel resta intégro ed io n’ho rotto ’l naso,
e che ritto mi torni Anchinia chiamo.
Anchinia mi rileva, e d’ogni caso
per le percosse ch’atterrato piglio
presta ricorre de l’onguento al vaso.
Ed io, ch’oltra ’l dolor esser vermiglio
comprendo il lito del mio sangue, invoco
lei con la mano posta al pesto ciglio.
Ma quella mi risana, ed anco al gioco Nutrix itaque fidelissima datur homini industria.
di quel mio tal destriero mi riduce,
in fin che da me stesso, a poco a poco,
ir poscia senza il carro ed altro duce.

[p. 212 modifica]

SESTINA LI CUI CAPIVERSI DICONO QUELLA SENTENZIA:


«CONCORDANTIA — DVRANT — CVNCTA — NATURE — FEDERA».


URANIA.

C ome ’l primo veloce mobil cielo,
O pposto a quei che volgono le stelle,
N on li distempra e sé tramuta in foco?
C om’è sospesa? e chi sostien la terra?
O nde con lei forma ritonda il mare
R itien, e mai posando non ha pace?
D’ una concorde e ragionevol pace Discordi quadam concordia coelos elementaque Deus omnipotens astrinxit.
A vvinse l’alta causa cielo a cielo,
N é men con pace in maggior cerchio il mare
T iensi a la terra, e giran sette stelle
I n sette sfere, il cui centro è la terra,
A nti da l’aer cinta e poi dal foco.

D ubbio non è che ’l mondo o in acqua o ’n foco
V errá sommerso, quando la lor pace
R otta sará, per sfare il mar, la terra, «Ipse quoque in fatis reminiscitur affore tempus | quo mare, quo tellus correptaque regia coeli | ardeat et mundi moles operosa laboret». Ovid.
A llor che dé’ fermarsi il nono cielo
N é piú rotarsi ’l sol con le sei stelle,
T rarsi nel centro de la terra il mare.

C rebbe, fu tempo giá, su l’alpe il mare;
V orar il mondo deve ancor il foco;
N on fia perpetuo il giro de le stelle,
C he al fin col cielo avran quiete e pace;
T ratto giá il ceppo uman o su nel cielo
A starvi sempre, o ’n centro de la terra.

[p. 213 modifica]


N on t’invaghir dunque, omo de la terra.
A nzi contendi (ove di gloria il mare
T u lieto solcarai) salir in cielo,
U’ sempra t’arda l’amoroso fuoco.
R iposto d’alma in alma in somma pace.
E sotto i piedi ti vedrai le stelle.

F ece l’alto fattor, sopra le stelle
E giú nel piú profundo de la terra,
D ue stanze, l’una detta eterna pace,
E l’altra, di perpetuo foco mare.
R inchiuso entro la terra, a l’ombre, è il foco;
A l’alme, gioia eterna su nel cielo.

Fe’ Dio l’uomo di terra, che ’n le stelle
avesse pace; ma chi nacque in mare Venus, quae maris e spuma nata est, pro voluptate carnali accipitur.
trallo dal cielo in sempiterno foco.

TRIPERUNO.

Poscia che vide, per Industria ed Arte,
Natura finalmente l’uomo in piede
correr veloce in questa e ’n quella parte,
ed esser l’animale, il qual possede
alto saper e di ragion dottrina,
che fôra poi d’eterna vita erede,
con lieto e dolce aspetto a me s’inchina,
qual mansueta madre che al figliolo
prima di sdegno fu cruda e ferina.
D’innumerabil figli dentro il stolo
da lei fui ricondutto al bel giardino
dove altrui vive lieto e senza dolo.

[p. 214 modifica]

Quivi sotto ’l pacifico domino
ed aurea stagione di Akakia, Innocentia.
vissi gran tempo semplice bambino,
fin ch’indi mosso poi, per lunga via,
fui ricondutto a ritrovar Altèa Veritas et Libertas.
e l’altra donna che ’n nostra balía
commette ambe le strade e bona e rea.

[p. 215 modifica]

DE LA PUERIZIA ED AUREA STAGIONE

EUTERPE.

Giá rinnovella intorno la stagione,
ch’eternamente verdeggiar solea
prima ch’avesse Astrea «Et virgo caede madentes | ultima coelestum terras Astrea reliquit». Ovid.
gli uomini a sdegno e sé tornasse ai dèi,
lasciando in lor quell’altra cosí rea
che li arde, mentre Febo alto s’impone
al tergo di Leone,
o quella che dai monti iperborèi
riporta il gielo a gli afri e nabatei.
Or che l’occhio del ciel aggiorna in Tauro,
or che ’l fior spunta ove ’l ghiaccio dilegua, Boreas.
or che ’l scita co’ l’indo vento tregua Auster.
fatt’ hanno e dato è in preda il tempo al Mauro,
Zefiro torna incolorar i lidi, Zephirus.
e i pronti a tesser nidi
vaghi augelletti, per lor macchie errando,
natura van lodando,
c’ha ricondutto cosí lieti giorni,
d’aura gentile, d’erbe e fronde adorni.
Férmati, Apollo, pregoti, nel grado,
ch’oggi ascendendo e poggi e selve abbelli,
e gli aurei tuoi capelli
tempratamente spandi a l’universo;
onde amorosi, leggiadretti e snelli Amore.
ne vengon gli animali tutti al vado
non d’Istro, Gange o Pado,
ma del suo naturai obbietto verso,
c’ha l’un de l’altro, quand’è ’l ciel piú terso,
verde la terra, il mar tranquillo e piano.
Férmati, Apollo, e ’n sí bel trono sedi,
fin che a le mani, al collo, a l’ale, ai piedi

[p. 216 modifica]

del Tempo (egli scamparse a man a mano «Sed fugit interea, fugit irreparabile tempus». Virg.
s’asseta, tant’è vano!)
Pirene ed Appennino sian appesi,
che non si parta e i mesi
porti con seco e l’aura e ’l dolce umore,
ch’or monta in ogni foglia, in ogni fiore.
L’aureo, gioioso e mansueto aprile,
ch’or sparger d’ombre i verdi campi veggio,
piacciali eterno seggio
qui prender nosco, ch’altri non succeda.
Partito lui, si va di mal in peggio; Aureae pueritiae succedunt libidinosa iuventus, ambitiosa virilitas, curiosa senectus, stomachosa decrepitas.
mentre vi spira l’ausura a gentile,
Parca non sia, che file
umana vita, e Morte a Pluto rieda,
sol ombre ove posseda;
rinverdasi da sé omai la terra;
valete aratri, marre, falci e zappe!
non piú vepri saranno, cardi e lappe.
Quella natia vertú che ’n lei si serra,
senza ch’altri la sferra,
uscendo stessa ci dimostra quanto
sia di natura il manto
piú bello senza l’arte e piú verace, Per se fert omnia tellus.
ch’opra di voglia piú de l’altre piace.
Ecco di latte scorreno giá i fiumi,
sudano mèle i faggi, olio li abeti,
e su per que’ laureti
celeste manna ricogliendo vanno
le virgin ape; e i rosignoli lieti,
c’han d’or’ le penne, entro purpurei dumi
nidi d’argento e fine perle fanno,
securi di rapina o d’altro danno. «... fede e innocenza son reperte solo ne’ pargoletti, poi ciascuna | pria fugge che le guanze sian coperte». Dante.
L’impaventosa lepre lato al cane,
l’agnella presso al lupo queta dorme,
ché tutti li animal, giá in lor conforme,
natura tiene in sue medeme tane:

[p. 217 modifica]

securi pesci e rane,
questi da lontra, quelle da le biscie;
non è chi strida o fiscie
l’un contra l’altro per stracciarsi ’l pelo,
ché l’aurea etade giá scese dal cielo.
Date quiete, posti li aspri giovi,
a’ vostri armenti omai, duri bifolci,
ed a que’ fonti dolci
lasciateli appressare! né quel rivo
di voi sia alcun che piú ’l sostegna o folci,
né chi di loco a loco lo rimovi,
ché ’n questi giorni novi
non è di libertá chi venga privo.
Cantate anco, pastori, ché l’estivo
e freddo ardore non privar piú deve
di latte od appestar e’ vostri greggi!
Non piú clamosi fòri, non piú leggi,
ché ciò vita gioiosa non riceve.
O giovo dolce e leve
a l’uomo ancora, il qual sprezza fortuna, «Vitam beatam efficiunt tranquillitas conscientiae et securitas innocentiae». Greg.
siagli pur chiara o bruna,
ché chi vivendo non fa oltraggio altrui
securo di l’aurea stagion è in lui.
E simplicetta e pueril canzone,
come richiede il suo stesso soggetto,
fu questa mia, dottissime sorelle;
di che a voi chiama: — Non son io di quelle
che, Urania, scrivi con sí bel soggetto
e n’empi il sino e petto
ai duo novi Franceschi, l’un ch’agnelli
canta, lupi e ruscelli,
l’altro del Senator l’alta pazzia!
Ma chi fa il suo poter con gli altri stia.

FINISCE LA PRIMA SELVA

DEL TRIPERUNO.

[p. 218 modifica]

DIVVS VATES

OPTIMA QVAEQVE DIES MISERIS MORTALIBVS AEVI

PRIMA FVGIT SVBEVNT MORBI TRISTISQVE SENECTVS

ET LABOR ET DIRAE PARIT INCLEMENTIA MORTIS