fin che mie rime udite sian di mesto
e lagrimoso canto, il qual risulte
da quei sassosi monti e valli inculte.
Depon, Urania mia, la tua siringa, [Asperitatem rythmorum ipsa haec materies deposcit.]
che settiforme ha in sé del ciel il tipo;
e tu, Clio, la lira, ove ’l mantòo
al greco vate fai ch’egual attinga;
e mentre i lauri e l’edere dissipo,
spargi quei fior del corno, che l’eròo
giá svelse ad Acheloo,
Erato mia: né tu, Polinnia, il plettro,
né, Calliope, l’arpa, né la cetra,
Talia (s’unqua s’impetra [«Non facit ad lacrimas barbitos ulla meas». Ovid.]
grazia da voi!), pulsate, ch’ora il settro
tengo fra noi, cessando ancor le stanze
di Euterpe, e di Tersicore le danze.
Ahi! di qual gioia e quanto bella effige
traboccar vidi l’uomo in tanto scorno!
Miráti ’l ciel come, di grado in grado,
sol per causarli util piacer, s’afflige [Summum erga hominem Dei beneficium.]
volgersi tra duo moti adversi intorno!
Miráti ’l Gange, l’Istro, Nilo e Pado,
ogni altro fiume e vado
tornarsi d’onda in onda al vecchio padre!
Pioven le nubi e la porosa terra
dal centro si disserra,
sorbendo il dato umor, onde giá madre
fassi di questo fior e di quel pomo,
per aggradir ed aggrandir un uomo:
l’uomo che, ingrato a Dio non ch’a Natura, [Peccatum originale, quod in Adam fuit personale, in aliis naturale.]
per antiporre un fral desire al dolce
suo fermo stato, giustamente abietto
fu d’alta gloria in infima iattura,
la cui durabil colpa in ciel si folce,
che mai non parte dal divin aspetto.
Però sta fermo e stretto
T. Folengo, Opere italiane. |
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