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selva prima 189


Quivi spicciando fora d’un parete
largo cosí, ch’ampio paese cinge,
chiara fontana porsemi gran sete.
La qual fra sassi mormorando astringe
al dolce ber qualunque vi s’applica;
ma tosto se ne pente chi lei tinge,
perch’ella il senso e lo ’ntelletto intrica.
Però non men a un vischio tal m’accolsi, [Dulce quidem est poculum per quod praeteritorum fit bonorum oblivio.]
tratto dal bere e da l’usanza antica.
Quivi cum brame tanto me ne tolsi,
che tutto ’l bene che capisce in noi
non pur lasciai, ma nel contrario avvolsi.
Acque maligne, acque di tòsco, voi
piú del mèle soavi, piú che manna,
scoprite il fele al nostro error dopoi:
ché chi vi gusta pur, non che tracanna, [Difficillimum omnium rerum est mortalibus Dei consilium.]
presto ne gli occhi, anzi nel cor s’annebbia:
dura cagion, che a questo ci condanna!
Cangiasi d’un bel raggio in scura nebbia,
né qual era pur dianzi non ricorda,
né su quel punto sa che far si debbia.
Io dunque, alma di bere troppo ingorda,
le parti mie d’alti pensieri dotte
perdei qual cieca forsennata e sorda.
Perché non so: sássel colui, che notte
far giorno e giorno notte pote solo,
e dá sovente a noi d’amare bòtte.
Per fallo d’uno preme tutto ’l stolo, [De caeco nato scriptum est: «Quid peccavit? Hic aut parentes eius?». Responsum est: «Ut manifestentur opera Dei».]
e vedesi alcun padre umil e domo
irsene giú per colpa del figliuolo.
Or chi l’intenderebbe, che d’un pomo
succeda tanto incomodo, ch’ognora
sostegna il ceppo uman l’error d’un uomo?
Ben fu di acerbe tempre, poi ch’ancora
foggia non è la qual digesto l’abbia,
né mai (tant’esser deve crudo!) fôra,