Pagina:Folengo - Opere italiane, vol. 1, 1911 - BEIC 1820955.djvu/193

TRIPERUNO.

Voi, ch’ad un’alta e faticosa impresa
vedete or me salir audacemente
per via mai forse da null’altro intesa,
piacciavi d’ascoltare queste lente
mie corde in voce lagrimosa e mesta, [In moerore animae deicitur spiritus.]
ch’altro non s’ha d’un’anima dolente.
E, bench’i’ veda alzandovi la testa [Pusillanimitati virtus succumbit.]
mia virtú debil al salir tant’alto,
di che sovente per viltá s’arresta;
pur spiego l’ale, e quanto so m’exalto
lá ’ve m’accenna il lume d’ogni lume,
per cui non temo alcun spennato salto.
Ché, mentre su con le ’ncerate piume [Utitur metaphorice fabula Icari et Dedali.]
tolgomi de le nubi sopra ’l velo,
d’un Dedalo megliore sotto ’l nume,
vedrò ch’immobil stassi e volge ’l cielo, [In perpetuis non differt posse et esse.]
sostien la terra, e l’universo a ’n cenno,
volendo, pò cangiar o ’n foco o ’n gelo.
Or dunque, di piú sana audacia e senno
ch’Icaro mai non ebbe, a l’ardua via
ambo gli piedi, ambo le braccia impenno.
E cantovi di questa nostra ria [Coecum quid et miserum hominibus vita.]
prigion che «vita» nominar non oso,
le frode di essa, il volgo, la pazzia;