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206 | caos del triperuno |
Oltra dirò: per qual cagion non svelli
de le sanguigne mani di Tanéta [Mors omnium naturalium incommoditatum terribilissima homini est.]
la falce, che giammai non si racqueta
truncar gli umani e farne polve d’elli?
Tanéta i’ dico, sí, atra ninfa e cruda,
che i tuoi Platoni e Socrati non scelse;
anzi, quanto le teste son piú eccelse,
lor spezza, e d’elli tu ne resti nuda!
TECNILLA.
Quanto a le dua stagioni a l’uomo infeste,
non ti rispondo, perché giá la impresa
ti diedi di ciò degna: far la spesa, [Industria quippe humana dicimus temporis iniurias ferre.]
contra lor, d’ombre, tetti, piume e veste.
Ad altri morbi assai per te si occorre,
c’hai simil esercizio, né vergogna
ti paia impreso aver da la cicogna
un ventre adusto foggia per diporre.
E come a la mia ninfa Filomusa [Duabus sed diversis tibiis utuntur musica et medicina.]
la tibia per isporre il canto usata
trovasti giá, cosí ha Farmacia grata
la tromba che al purgar un ventre s’usa.
Di ta’ remedi al miser uomo e schermi
contra l’offese di Natura certo
studio ti vien, e poi la laude e ’l merto,
perché sollevi, Anchinia mia, gl’infermi.
Ma quanto a quel che l’invincibil ferro [«Mors est munus necessarium naturae iam corruptae, quae non est fugienda, sed potius amplectenda et iterum fiat voluntarium quod futurum est necessarium». Io. Chrys.]
de l’improba messora frenar debbia,
voglio non puoter farlo, ché di nebbia,
per mezzo suo, gli alti intelletti sferro.
La morte a miei seguaci è un’esca dolce
e di Natura for del fango i purga,
ed è cagion ch’un’alma d’ombra surga
ne l’alta luce, di che ’l mondo folce.