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188 caos del triperuno

e di quel Re, che ’n un presepio ascoso
vidi fra le duo bestie a gran bisogna,
ver’ se stesso crudel, ver’ noi pietoso, [«Proprio filio non pepercit, ut nos redimeret». Paul.]
che svelse il mundo tutto di menzogna
con sua dottrina colma di quel foco,
ch’arde sí dolce in alma che non sogna.
Io dico te, Iesú, lo qual invoco
mio Febo, mio Elicona, mio Parnasso,
ov’ogni bel pensier al fin collòco.
So ben che di te dir via piú t’abbasso,
che tacendo non alzo; e pur m’offersi,
ecco, a dricciar nel tuo bel nome il passo.
Ché, come vedi, son questi miei versi [«Summa Providentia carere fuco voluit ea quae divina sunt». Lact.]
d’amor almanco e caritade in cima,
se non toscani, ben sonori e tersi.

TRIPERUNO.

Di quella spera piú capace ed ima [Tangit idearum opiniones.]
del ciel, ove l’Artefice soperno
fabbrica ognor quanto mai finse prima,
io novamente usciva, fatto eterno
candido spirto leggiadretto e bianco,
che bianca piú non vien neve d’inverno;
quando ’l mio stesso fabbro un calzo al fianco
vibrommi tal, che giú ne venni a piombo
in loco basso e d’ogni posa manco.
E come vago e timido colombo [«Nil sine magno | vita labore dedit mortalibus». Horat.]
vola quando si parte da la torma,
del ciel tonante al subito ribombo;
tal io vi errava tanto che, d’un’orma
uscendo in l’altra, mi trovai sul porto,
dove l’oblio nostro ’ntelletto addorma.
Guardomi intorno paventoso e smorto, [Rationalis anima, quae ad corpus accedit, oblivionem sui quam primum incurrit.]
ché teso in ogni parte vedo un rete,
onde ch’entrarvi debbia mi sconforto.