Il Principe della Marsiliana/I
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I.
Dinanzi all’osteria di Muzio Scevola, in Trastevere, sventolavano un sabato sera le bandiere tricolori e quelle gialle a rosse del Comune di Roma, e dalle finestre delle casupole vicine pendevano tralci di lauro, ai quali erano appesi i lampioncini di più colori, pronti per la illuminazione. Sopra la porta dell’osteria vi era il ritratto di Garibaldi, circondato pure di lauro, e intorno a quello erano disposte le candele infilate nelle punte di ferro.
Sulla piazzetta davanti all’osteria stavano molti uomini aggruppati a capannelli e discutevano vivamente; alcuni appartenevano alla classe dei bottegai e portavano le catene d’oro pesanti attaccate ai primi bottoni della sottoveste, il corno di corallo penzoloni e le cravatte vistose; altri invece appartenevano al ceto dei cittadini, e la maggior parte al popolo minuto.
I cittadini, che erano in minor numero, andavano da un gruppo all’altro e posavano familiarmente la mano sulle spalle dei popolani.
A un tratto, nel veder scendere da una botte un giovinotto sbarbato e vestito correttamente di saia turchina, tutte le conversazioni cessarono, i capannelli si scomposero e la folla si spinse verso di lui.
Il giovinotto distribuiva strette di mano a tutti, salutando ciascuno per nome.
— Signor Rosati! — dicevano le persone aggruppate intorno a lui rispondendo al saluto.
— Come va? Che mi dite di nuovo? — domandava Fabio Rosati, rivolgendo uno sguardo d’intesa a tre o quattro cui la folla popolana pareva ubbidire.
— In Borgo si può contare su cinquecento voti, non più, — disse il Simonetti, un omaccione grasso, che aveva bottega d’orzarolo vicino a piazza Rusticucci e godeva di molta popolarità fra i liberali di quel rione.
— E dalle parti vostre come si sta? — domandava Fabio Rosati a Scortichino, il ricco oste di San Francesco a Ripa.
— Benone, sor Fabio mio. Ieri sera avevo l’osteria piena di gente e dopo che ebbi parlato, come so parlar io, non fo per vantarmi, sa, e ebbi detto che bevessero pure senza pensare al conto, tutti convennero che era meglio votare per Sua Eccellenza, che almeno aveva dato prova d’essere liberale in Campidoglio, piuttosto che per quel clericalone del de Petriis, che non ha mai fatto altro che portare la mantellina dei fratelloni dell’Angelo Custode, impiastricciare i cocci, e imbrogliare i forestieri.
— Bravo Scortichino! — disse il Rosati con fare di protezione battendo sulla spalla al ricco oste. — E qui che notizie ci sono? — domandò a un uomo alto con una lunga barba e due occhi mansueti come quelli di un agnello.
— Qui, trattandosi di un principe ci pensano due volte, — disse il sor Domenico, uomo popolarissimo, che vantava ancora l’amicizia di Garibaldi, si ricordava del Vascello e parlava dell’eroe con le lagrime agli occhi. — Qui ci vorrebbe qualcosa per ismuover questa gente, qualche colpo che rendesse popolare il principe della Marsiliana.
— E quale, per esempio? — domandò il Rosati infilando il braccio in quello del sor Domenico e guidandolo in disparte.
— Qui, sor Fabio mio, il principe ha dei nemici. Dicono che non può essere liberale schietto con quella moglie.
— E che fa la principessa? — chiese il Rosati fermandosi e guardando in faccia il sor Domenico.
— Bazzica troppo dalle monache di Santa Rufina. Capirà, la carrozza tutti ce la vedono ogni giorno ferma per delle ore davanti al convento, tutti sanno che non aiuta altro che i baciapile e poi ha anche la riputazione di esser superba come tutti in casa Grimaldi.
— E che cosa sapreste suggerirmi, sor Domenico, per riconquistare alla principessa le simpatie del Trastevere?
— Una cosa sola: bisognerebbe che la principessa venisse stasera a cena all’osteria insieme col principe e domenica l’elezione di lui è assicurata.
— Siete pazzo! — esclamò il Rosati mostrando con un gesto di ribrezzo quanto ripugnavagli di vedere la principessa della Marsiliana in quel luogo.
— Eppure è l’unico mezzo, — diceva l’oste senza alterarsi, scrollando la bella testa mansueta. — È l’unico mezzo!
— Ma ora è tardi.
— No; lei corra a casa dal principe, gli riferisca questo suggerimento mio, e gli dica che se non viene la principessa è inutile che venga neppur lui.
Fabio Rosati stette un momento pensoso, con gli occhi fissi per terra, poi stendendo la mano al sor Domenico gli disse:
— Credo che abbiate ragione; — e senza salutare nessuno risalì in botte e si fece condurre al palazzo del principe della Marsiliana.
Nel passare sotto la porta carrozzabile per entrare nel cortile, Fabio domandava al guardaportone alto, solenne e tutto tronfio di portare la livrea della antica casa principesca, se Sua Eccellenza era tornata.
Il guardaportone, senza aprir bocca, brandi la mazza con gesto da re di corona e accennò al Rosati il phaéton attaccato che aspettava il principe, e quindi riposò in terra la mazza e riprese a guardare con occhio sprezzante la gente che passava a piedi.
Fabio salì di corsa le scale. Giunto nell’anticamera nella quale il trono, formato di arazzi portanti lo stemma della famiglia nel centro e le imprese del celebre cardinal Urbani, sulla parte laterale, occupava tutta una parete, si fermò e disse al servitore di guardia di annunziarlo, e senza aver la pazienza di attendere la risposta, si mise alle calcagna di lui per l’ampia galleria, nella quale tutto un passato di deità olimpiche e d’imperatori romani parevano schierati per far gli onori a chi passava.
Fabio non volse neppure uno sguardo su quei marmi preziosi; il suo occhio grande e dolce pareva che non provasse il bisogno di guardare nulla di ciò che lo circondava, che non ubbidisse a nessuna curiosità.
Eppure era la prima volta che entrava in casa Urbani, o almeno in quella parte del palazzo riservata alla famiglia, poichè il principe aveva al pianterreno due stanze che guardavano sul Corso e nelle quali riceveva la mattina tutte le persone che non erano presentate alla principessa. Fabio Rosati, segretario di una quantità di comitati, nei quali figurava il nome del principe della Marsiliana, e anche del Circolo dei Cittadini di cui don Pio era presidente, aveva frequentissime occasioni di avvicinarlo. Svelto, intelligente, benchè privo affatto di cultura, rispettoso senza cortigianeria, e sopratutto buono e abile, Fabio era riuscito a conquistare l’animo di molti patrizii romani, e specialmente di don Pio, il quale ora aveva rimesso nelle mani di lui l’esito della sua elezione a deputato.
Il servo si fermò in fondo alla galleria, dinanzi a una porta grigia tutta coperta di dorature, e bussò leggermente. Il cameriere di fiducia del principe, un francese sbarbato, con gli occhiali che davano alla sua fisonomia l’aspetto di prete, comparve sull’uscio, e vedendo Fabio, che conosceva, lo pregò di entrare in un salottino precedente la camera del principe.
Don Pio, appena udita la voce di Fabio, gli andò incontro e gli strinse cordialmente la mano.
— Grazie di essermi venuto a prendere, — disse al Rosati. — Mi annoiava di giunger solo in mezzo a tutta quella gente.
— Non vengo per questo, — rispose Fabio guardando in terra e non sapendo come riferire al principe le parole del sor Domenico. Dacchè era entrato nel palazzo sentiva maggiormente tutta la stranezza della proposta che doveva fare, e non aveva il coraggio di esprimerla.
— Occorrono altre somme per le spese elettorali? — domandò il principe. — Me lo dica francamente; so quanto bevono gli elettori romani, e nulla mi stupisce.
— No, no; ho ancora qualche migliaio di lire, — disse il Rosati sorridendo. — Si tratta di una cosa molto più difficile a dirsi.
— Me la dica subito, — insistè il principe senza turbarsi; — sono preparato a tutto.
— Senta, il sor Domenico, l’oste di Muzio Scevola, dice che se stasera non viene la principessa insieme con lei, i voti del Trastevere le saranno per la massima parte negati.
Il principe sorrise mettendosi il monocolo all’occhio sinistro, e guardò fisso il Rosati dicendo:
— È una condizione curiosa e non so se donna Camilla l’accetterà; tenterò. Ma l’ora è passata già, — aggiunse il principe guardando una piccola pendola di smalto posata sopra la scrivania; — lei vada a far pazientare chi mi aspetta, io cercherò d’indurre la principessa a venir meco. — E accompagnando il Rosati nella galleria, don Pio penetrò nel salottino di sua moglie, e appena passata la soglia di quella stanza sparì dal volto di lui tutta l’espressione di dolce bonarietà, che aveva durante la conversazione col Rosati.
La principessa nel vedere il marito si alzò e fece cenno a due monache di Santa Rufina, che erano sedute in faccia a lei, di lasciarla.
— Che cosa vuoi? — domandò la piccola signora al marito con voce leggermente nasale, andando verso lui dopo aver accompagnato all’uscio le suore.
— Sai che io voglio in ogni modo esser deputato e che sarebbe un’onta per me se col mio nome, col mio passato, con le mie aderenze e i miei mezzi non riuscissi a essere eletto!
— Non le capisco certe vanità, — diss’ella alzando gli occhi al cielo. — Quando uno si chiama Urbani non ha bisogno di tenere a un titolo che il popolo può conferirgli, e può anche ritorgli.
— I tempi sono cambiati, bisogna camminare con essi se non si vuol restare schiacciati e soffocati appunto da questo pondo grandissimo che il passato ci ha posto sulle spalle; bisogna far qualcosa noi pure per esser degni degli avi.
Il principe pronunziava queste parole con voce monotona, senza nessun sentimento, come una lezioncina imparata a mente. E infatti da quindici giorni la ripeteva di continuo a sè stesso per dirla in ogni occasione.
La principessa lo ascoltava a testa bassa, come se riprovasse quelle massime.
— Dunque che cosa vuoi? — gli domandò parlando sempre con voce nasale e a denti stretti, come chi ha la consuetudine di servirsi della lingua inglese.
— Voglio che tu mi accompagni stasera all’adunanza elettorale. — Quel nome di osteria faceva ribrezzo anche a don Pio e non poteva pronunziarlo.
— E dove? — domandò la principessa, alzando in volto al marito due occhi piccoli e fieri.
— Da Muzio Scevola.
— E che luogo è?
— Una locanda, dove mi danno una cena elettorale.
— Non ci vengo.
— Ma, Camilla, pensa a quello che fai; mi tacciano di clericale per colpa tua; per colpa tua non sarò eletto; io voglio riuscire deputato, e tu, tu devi venire.
— Non vengo, — rispose la piccola signora sedendosi. — Tu sei padrone di derogare al tuo nome, alla tua nascita, ma non puoi imporre a me di avvilirmi. Io, oltre a esser custode del nome tuo, sono anche custode di quello di mio padre; sono una Grimaldi, lo sai.
E fieramente alzò la piccola testa dal volto pallido, sul quale non si leggeva altro che una grande espressione di fierezza.
— Camilla, tu sei la mia rovina, — disse il principe, uscendo senza stenderle la mano.
Nella galleria lo attendeva il suo cameriere per infilargli il soprabito e presentargli i guanti, il bastone e il cappello.
Don Pio, calmo in apparenza, dette alcuni ordini, scese le scale inchinato dai servitori, e dopo essersi seduto nel phaéton prese in mano le redini dei cavalli e uscì dal palazzo.
Era quasi notte quando il phaéton si fermò sulla piazzetta dinanzi all’osteria, già illuminata dai lampioncini colorati, e il principe, sceso prontamente, si trovò a fianco Fabio Rosati e il sor Domenico, il quale si tolse il cappello a cencio e gli disse a bruciapelo:
— Non mi ha voluto dar retta e le cose si imbrogliano. Faremo un buco nell’acqua se non viene la principessa.
Don Pio infilò il braccio familiarmente in quello del sor Domenico e tirandolo in disparte gli disse:
— Che volete, la principessa non c’entra per nulla nella mia elezione; le signore hanno idee che noi dobbiamo rispettare, ma che non dividiamo.
— Lo capisco, — diceva il sor Domenico spartendosi con le dita la lunga barba, come soleva fare quand’era soprappensieri, — lo capisco, ma lei sa, Eccellenza, che abbiamo da far con certa gente cocciuta e siamo in certi tempi...! Basta, vedremo; bisognerebbe che per amicarsi i trasteverini lei avesse qualche buona promessa in riserva e la manifestasse stasera.
— Vedremo, — disse il principe ritornando verso Fabio Rosati, che era circondato da un gruppo di persone ben vestite e parlava a bassa voce con loro.
Appena a quel gruppo si avvicinò don Pio tutti si tolsero il cappello e si fecero addietro alcuni passi. Il principe stese la mano all’ingegnere Marini e al professore Arnaldi. Fabio Rosati gli presentò subito quelli che non conosceva.
— Il signor Massa, giornalista, — disse accennando un giovinotto pallido, con le scarpine lucide e l’aria spavalda, — il signor Caruso, giornalista pure — aggiunse accennando un omaccione grasso, dallo spiccato tipo meridionale con le lenti sul naso e una barbetta rada sulle guance butterate dal vaiuolo.
Il principe della Marsiliana fece un passo verso i due rappresentanti della stampa e stese loro la mano.
In quel momento la sora Lalla, grassa, rossa, tutta catene e pendenti d’oro, comparve in cima alla scaletta dell’osteria, e, con le mani sui fianchi esuberanti, si mise a gridare:
— Ma insomma, volete proprio che tutto vada ai cani! Venite o non venite?
Il sor Domenico, che aveva per la sua vecchia compagna un affetto grandissimo, un affetto in cui entravano i ricordi giovanili, la gratitudine per il coraggio mostrato da lei quando egli era in carcere a San Michele, da dove lo aveva fatto scappare, e la stima per la sua proverbiale onestà, sorrise e disse volgendosi al principe:
— Credo che Lalla abbia ragione; è tempo di andare a cena se si vuol mangiare.
Il principe, col fare disinvolto del gran signore che sa subito adattarsi al luogo dov’è e alle persone che lo circondano, salì in fretta la scala; il Rosati lo seguiva da vicino e il Massa saliva a due a due gli scalini per non rimanere a distanza. Giù sulla piazzetta il sor Domenico invitava tutti a salire e a un tratto la scala fu guernita di persone di ogni ceto che parevano impazienti di mettersi a tavola, e sulla piazza non rimasero altro che alcune donne, due coppie di guardie di pubblica sicurezza addossate al muro e due carabinieri, che camminavano pesantemente in su e in giù senza scambiar parola fra di loro.
Appena il principe della Marsiliana comparve nella sala bassa dell’osteria ornata sulla parete principale di un affresco raffigurante Muzio Scevola con la mano sull’ara, e su quella di fondo, di un teatrino, la sora Lalla alzò la mano, il capo della banda collocata sul palcoscenico dei burattini brandì il bastone del comando, e le trombe intonarono la rumorosa marcia dell’Aida.
Don Pio guardò il Rosati e atteggiò le labbra a un lieve sorriso di scherno vedendo quel tugurio basso, tutto pieno di tavole, i quartaroli del vino posati sulle panche e vedendo sopratutto quei pezzi d’uomini di bandisti aggruppati sopra il palcoscenico, con le quinte più basse di loro e le teste che rimanevano celate dal palco; ma fu un sorriso impercettibile, e messosi l’occhialino all’occhio sinistro si accostò alla sora Lalla e le stese la mano.
— S’è affaticata tanto per me, — le disse sorridendo.
— Ci siamo avvezzi al lavoro, Eccellenza, — disse la sora Lalla togliendosi la mano destra di sul fianco per darla al principe.
Al sor Domenico, che giungeva in quel momento, spuntarono le lagrime agli occhi vedendo la mano della moglie in quella del principe della Marsiliana, e volgendosi addietro gridò, come per dare l’intonazione alla folla che lo seguiva:
— Evviva il nostro candidato!
— Evviva! — rispose la folla. E il capo banda a un tratto troncò la marcia dell’Aida per incominciare l’inno di Garibaldi.
Una grande confusione regnava nella sala, aumentata dalla musica e dalla troppa gente che, volendo passare per recarsi nella terrazza coperta dalla pergola, lavorava di gomiti e spingeva quelli che le facevano resistenza verso la tavola principale, che era quella d’onore. Il sor Domenico, accorgendosi che il principe della Marsiliana era pigiato verso le sedie o doveva presentare le spalle per resistere all’urto, alzò la testa, la quale dominava la folla, e gridò:
— Ragazzi, fate largo!
Tanto quelli che erano assuefatti ad ascoltarlo, quanto gli altri che, forse per la prima volta, il caso poneva accanto a lui, ubbidirono a quella voce dolce, che aveva nel comando una intonazione di convincente preghiera, e intorno al principe si formò un vuoto.
Don Pio, volgendosi all’oste, gli disse sorridendo:
— Se così vi ascoltano, la mia elezione è assicurata.
— Non credo, — rispose l’oste con la sua solita franchezza. — Vostra Eccellenza ha molti avversari fra i popolani. Se la principessa fosse venuta qui, domani a otto, tutti votavano per lei, ma così, ci vuole un colpo, un colpo da maestro, se ne rammenti.
Il principe, guardando la folla, si arricciava il baffo sinistro senza rispondere, e intanto si avviava al posto d’onore indicatogli dall’oste e già stava per sedersi, quando Caruso gli si accostò e chinandosi all’orecchio di don Pio, gli disse a bassa voce:
— Prometta di adoprarsi per fare approvare la stazione in Trastevere e tutti i voti sono suoi.
Don Pio, che da un quarto d’ora cercava inutilmente la promessa che doveva assicurargli i voti dei popolani di quel rione, udendo quel suggerimento si voltò di scatto a veder chi glielo dava, e non seppe nascondere quanto facevagli piacere.
— Grazie, — disse a Caruso, stringendogli con effusione la mano.
— Niente, — rispose l’altro abbassando la testa.
Accanto al principe si era seduto a destra il sor Domenico e a sinistra il posto restava vuoto; don Pio avrebbe voluto che quella seggiola fosse occupata dal Caruso per parlare con lui, ma non ebbe il coraggio di chiamarlo. Lo conosceva appena, già era debitore a quell’uomo di una idea che non gli sarebbe mai nata e non voleva che vincoli maggiori di gratitudine si stabilissero fra lui e quello sconosciuto. In quel momento penetrava a stento fra la folla l’onorevole Serminelli, deputato di un collegio d’Abruzzo, e don Pio Urbani fecegli cenno di andare accanto a lui.
Erano già state servite le fettuccine nei vassoi ricolmi, e tutti si erano empiti il piatto tirandone giù un mucchio e lasciandone cadere sulle tovaglie, che erano in più punti imbrattate di sugo. Soltanto nella vicinanza del principe la gente mangiava poco e la tovaglia era ancora bianca. Il sor Domenico stesso, messo in soggezione, non aveva il suo bell’appetito di tutti i giorni, e la sora Lalla, che non perdeva d’occhio nessuno e dirigeva il servizio, si accostava ogni tanto al principe, al marito o a Fabio Rosati, col quale aveva maggior confidenza, e invitava or l’uno or l’altro a mangiare e sopratutto a bere.
Di questo invito non avevano bisogno alle due tavole laterali, poste lungo le pareti. Una di quelle era presieduta da Scortichino, l’oste di San Francesco a Ripa, che mangiava per tre dando il buon esempio a tutti, e mesceva a destra e a sinistra da bere asciugandosi la fronte col tovagliolo; e l’altra dal Simonetti, l’orzarolo di Borgo, che faceva sparire nello stomaco, a forma d’otre, i vassoi delle fettuccine. Quasi nessuno parlava in quel primo quarto d’ora, ma quando dopo le fettuccine ebbero mangiato il fritto e comparvero i tradizionali carciofi alla giudìa, quando i camerieri ebbero incominciato a portar via le bottiglie e sostituirle con altre piene, allora, negli intervalli della musica, incominciò un vocìo assordante, incominciarono le grasse risate echeggianti sulla terrazza attigua coperta dal pergolato, e dove si era riunita tutta la gente di minor conto, tutta la plebe.
Il principe parlava poco e ascoltava il sor Domenico e l’on. Serminelli, tutti e due pratici di elezioni, che gli davano dei consigli. Caruso non potendo stare accanto al principe si era messo alle costole a Fabio Rosati e sottovoce ripetevagli che se il principe sapeva svolgere l’idea suggeritagli da lui, era deputato del certo.
Don Pio, nella cui mente era infatti penetrato il suggerimento del Caruso, ascoltava con orecchio distratto i discorsi delle persone che aveva a fianco e teneva l’occhio intento sul Rosati e su quel tipo strano di uomo grasso e senza energia, che pareva avesse concentrata nell’occhio tutta l’attività della mente, e avrebbe voluto, senza chiedergli nulla, avere da lui altri suggerimenti. Egli sentiva avvicinarsi il momento di parlare e la sola idea che sapeva di dover manifestare era infatti quella della stazione in Trastevere, ma era una idea isolata, che non sapeva su che basare, nè come svolgere.
La sua non era una elezione preparata da lunga mano, come egli non era preparato alla vita politica. Lo scioglimento della Camera in seguito alla caduta del ministero, avvenuto in primavera, aveva rese necessarie in maggio le elezioni generali, e un gruppo di elettori, ascoltando il suggerimento del Rosati, si era fatto propugnatore del nome di don Pio Urbani, principe della Marsiliana, non perchè fosse noto come uomo intelligente, nè come buon amministratore, ma solo per contrapporlo a un ricco mercante di campagna, il de Petriis, che, per la impopolarità acquistatasi nel consiglio comunale, si voleva escluso dal Parlamento come rappresentante di un collegio di Roma.
Del resto, don Pio non aveva altri precedenti che questi. Figlio unico e erede di un grande nome e di un grande patrimonio rovinato, era rimasto orfano di padre nei primi anni dell’infanzia. Sua madre, mercè l’aiuto di un buon amministratore, che si diceva fosse vice-principe di nome e di fatto, aveva estinto gran parte delle ipoteche e preparato al figlio, che faceva educare nel collegio dei gesuiti a Mondragone, un avvenire ricco e senza fastidi. Don Pio, appena uscito di collegio, aveva corso la cavallina, e col pretesto di viaggiare, per dar l’ultima mano alla sua educazione, aveva girato il mondo in compagnia di una donna più anziana di lui, celebre a Nizza e a Parigi per la sua eleganza e per la disinvoltura con cui rovinava la gente. Da quei viaggi don Pio era tornato sfiaccolato, senza aver imparato null’altro che a vestirsi e a spendere. Cresciuto senza nessun ideale, senza nessun attaccamento nè all’antica causa dei papi, nè alla nuova causa dell’Italia, tornava a Roma dal suo viaggio quando la più grande rivoluzione del nostro secolo si era già compiuta. Quel grande fatto, che aveva afflitto così profondamente tutti i partigiani del papato e che aveva fatto esultare tutti gli italiani, lo aveva lasciato indifferente. Sua madre, rimasta fedele alle antiche idee, sua madre lo aveva inutilmente spinto a schierarsi fra i sostenitori del Vaticano, fra quelli cui lo legavano vincoli di parentela e di consuetudini di famiglia; egli sorrideva, si metteva il monocolo all’occhio sinistro e non rispondeva. Del resto la duchessa Teresa Urbani si limitava a esortare il figlio, e si sarebbe guardata bene dall’imporgli la sua volontà. Giunta a quarant’anni senza avere eredi, ella provava per questo figlio, tanto invocato e tanto vivamente bramato, una di quelle passioni cieche che le donne sentono per quelle creature che le hanno salvate dal marchio della sterilità, passione più forte di ogni altra della loro esistenza. Agli occhi di donna Teresa nessuno era più bello, più intelligente e più spiritoso del suo Pio, benchè egli non avesse nè una bella figura signorile, nè una bella intelligenza, e di spirito ne possedesse quel tanto necessario a fare buona figura in un salotto. La vera qualità del principe della Marsiliana era piuttosto la scaltrezza, che egli sapeva nascondere sotto un aspetto di grande bonarietà. Egli aveva inoltre una specie di fiuto che lo poneva sulla traccia delle persone da sfruttare, e che ora gli faceva indovinare nel Caruso l’uomo opportuno, l’uomo che avrebbe potuto cavarlo d’impaccio.
Si discuteva a Roma da molto tempo il nuovo piano regolatore della città, e durante queste discussioni la capitale si trasformava a vista d’occhio, ponendo, come tanti ostacoli al nuovo piano, i lavori che già erano compiuti.
La questione di trasportare altrove la stazione ferroviaria era all’ordine del giorno. Nelle adunanze della Società degli architetti si era messa avanti l’idea di trasportarla ai Prati di Castello, fuori della porta San Giovanni, lasciando quella vecchia riserbata soltanto per la piccola velocità.
Già si erano fatti studî e disegni, si erano pubblicati opuscoli per sostenere l’una o l’altra idea, ma il pensiero di fare la stazione nel Trastevere non era balenato a nessuno, e quel pensiero, di cui il principe riconosceva l’opportunità, per assicurare la sua elezione, ora lo tormentava non sapendo egli come esprimerlo, e, mentre con la punta del coltello egli cercava di scalcare una quaglia, pensava, pensava che avrebbe dovuto fra poco parlare, e quel pensiero gli faceva aggrottare le ciglia.
La banda sul palcoscenico continuava a suonare, tutti parlavano a un tempo, quando il sor Domenico si alzò e fece cenno ai sonatori e ai convitati di tacere. La sora Lalla andò sulla terrazza a dare un ordine eguale, e a un tratto per tutta l’osteria, un momento prima così piena di rumore, regnò un silenzio solenne; nessuno osava neppur portarsi la forchetta alla bocca per non far rumore. Il sor Domenico si alzò e con quella voce dolce e vellutata, che scendeva al cuore, e nella quale era riposto in parte il segreto della sua popolarità, disse, imitando Garibaldi che era il suo idolo:
“Ragazzi! Voi sapete se io sono sempre con voi. Da anni e anni non mi considero più un uomo isolato; mi pare di essere il vostro padre, il capo di tutte le famiglie del Trastevere, perchè quando qualcuno soffre io soffro insieme con lui, come quando qualcuno gode io mi associo alla sua gioia. Sapete pure che il mio amore non è limitato a questo generoso rione dove si mantenne sempre viva l’ammirazione per le virtù passate di questa Roma, il cui nome solamente è simbolo di grandezza o di gloria, ma si estende invece a tutta la città e all’Italia, che ha dovuto cinger qui la sua corona regale! Voi sapete pure che io non ho mai parlato a voi altro che il linguaggio della verità, che non vi ho mai dato un consiglio che non fosse onesto e ispirato da quell’amore di patria che ci anima tutti. Ora che siamo alla vigilia delle elezioni, io prendo la parola e dico, con quella sincerità che tutti conoscete, di porre il nome del principe della Marsiliana accanto a quello degli uomini liberali cui deste il suffragio nelle passate legislature. Questo nome non è portato da nessuna combriccola, non rappresenta interessi parziali, e sopratutto non è legato a nessun passato. Per noi ci vuole un uomo nuovo, che capisca i nuovi tempi, un uomo al disopra di qualsiasi sospetto; e tale è il principe della Marsiliana; io, ragazzi, lo raccomando al vostro suffragio, io credo che nessuno possa meglio rappresentare questo collegio di Roma che lui!„
Grida diverse partirono dalla folla, che ingombrava prima la terrazza e che ora si era spinta fino nella sala e occupava tutto lo spazio dinanzi all’affresco di Muzio Scevola; alcune di approvazione e altre di disapprovazione. Scortichino, il Simonetti e il sor Domenico sopratutto accennarono a quegli strilloni di far silenzio e il capobanda fece intonare l’inno di Garibaldi per porre fine al tumulto, che minacciava farsi serio. Appena ristabilita la calma, don Pio posò il tovagliolo ed alzatosi, senza guardar nessuno in faccia e a voce bassa, incominciò a parlare, dicendo:
“Porto un gran nome, è vero, ma le mie simpatie sono per il popolo, poichè io stimo e rispetto chi lavora, e ho viva ammirazione per quelli che sostengono, giorno per giorno, ora per ora, la lotta per l’esistenza. Se voi, che siete qui adunati, volete concentrare sul mio nome i vostri voti, assicuratevi che avrò a cuore i vostri interessi più dei miei. Nulla mi lega al passato: nè simpatia, nè vincoli di famiglia; tutto invece mi spinge verso l’avvenire, che è rappresentato, specialmente qui a Roma, dalla forte, onesta e patriottica popolazione del Trastevere. L’avvantaggiare gl’interessi materiali e morali di questo rione, sarà per me una nobile ambizione. Io credo che uno dei mezzi per concentrare qui una parte della vita rigogliosa della Roma nuova, della Roma degli italiani, sia quello di far costruire in questo luogo la nuova stazione ferroviaria. Per l’attuazione di questo disegno io spenderò tutte le forze mie e se vi riuscirò sarò più altero di aver legato a quest’opera il mio nome, di quello che non sia della gloria passata dei miei antenati.„
Grida di viva approvazione partirono dalla folla; il sor Domenico aveva le lagrime agli occhi e cercava la mano del principe per istringerla. Fabio Rosati gli s’era accostato e pareva che chiedesse i suoi ordini, quando Caruso lentamente si alzò e volgendo intorno uno sguardo dubbioso di sopra alle lenti, chinò la testa in atto di saluto incontrando gli occhi di don Pio, e quando la folla, per ordine dei soliti capi, fu ricondotta al silenzio, egli prese a dire:
“Il principe della Marsiliana ha con brevi parole svolto tutto un programma di cui l’idea fondamentale consiste nel trasportare nel Trastevere un centro di attività e di lavoro.
“Questa idea non è una idea nuova, sorta nel momento delle elezioni, suggerita dal bisogno di procacciarsi dei voti, no, quest’idea è stata lungamente studiata ed elaborata dal nostro candidato.„
Il principe meravigliato da quelle parole, e credendo di sognare, non osava alzar gli occhi per non incontrare quelli dell’oratore nè del Rosati, il quale con la testa dava lievi segni di approvazione e ammirava la furberia e la sfacciataggine di Caruso.
“Io, che seguii quel lavorìo paziente ed accurato, degno di una mente vasta e educata a tutte le più nobili discipline dell’economia moderna, io che ebbi l’onore di essere il confidente del principe durante lo svolgimento della nobile idea, io posso esporvi il vasto piano concepito da don Pio Urbani. Egli vorrebbe vedere Roma circondata da una cintura di ferrovia che avesse la stazione principale qui nel Trastevere, quella di smistamento a San Giovanni e quella di piccola velocità ai Prati di Castello. Inutile dirvi che l’attuazione di questo disegno farebbe salire enormemente il prezzo dei terreni nelle tre località indicate e darebbe un grande sviluppo alle costruzioni, portando qui, dove specialmente siamo, molta gente, molte forze e molto denaro.„
Don Pio, benchè assuefatto a non meravigliarsi di nulla, era assolutamente annichilito da tanta sfacciataggine, e continuava a tenere gli occhi nel piatto. Da principio, udendo Caruso, aveva provato la voglia di fare una risatina sarcastica, ora s’era fatto serio perchè capiva che quell’uomo s’imponeva a lui in forza del servizio resogli e creava fra di loro una specie di complicità. Un resto di onestà, un sentimento di pudore lo spingevano a protestare, ma il pensiero del fine cui mirava, troncavagli le parole in bocca e lo induceva a lasciare che le cose andassero per la china su cui avevale avviate Caruso, purchè riuscisse eletto.
I popolani del Trastevere, abbacinati da quel miraggio d’interessi e di guadagni, erano tutti concordi nel vedere in don Pio l’unico candidato, il solo candidato serio, e non pensavano più alle simpatie della principessa della Marsiliana per i clericali, non osavano più rimproverare al principe l’inerzia di cui aveva dato prova per il passato. Appena Caruso ebbe cessato di parlare, un evviva frenetico, accompagnato dall’inno di Garibaldi, echeggiò per la sala bassa, tutte le mani si protesero per cozzare i bicchieri ricolmi, e don Pio, turbato, dovette partecipare al brindisi.
— In bocca al lupo, — gli disse Caruso avvicinando il proprio bicchiere a quello di don Pio.
— Grazie, — disse il principe, guardandolo senza sorridere.
Fabio Rosati s’era alzato e andava da una tavola all’altra distribuendo strette di mano, raccogliendo le parole lusinghiere per il principe con l’intenzione di ripetergliele poi.
— Ve lo dicevo che non c’era altri che lui, che il voto era ben dato? — ripeteva egli a quanti gli parlavano della stazione in Trastevere. — Bella mente, idee larghe, idee nuove e un cuore d’oro.
In quel tempo don Pio era assalito dalle domande dell’on. Serminelli, il quale voleva gli svolgesse meglio l’idea cui aveva accennato. Don Pio, non sapendo che cosa rispondere, guardava Caruso, ma questi aveva attaccato discorso con un popolano, che aveva accanto, e fingeva di non badare a lui.
— Ma è una sorpresa che ci avete fatta, — diceva l’onorevole il quale aveva nel principe uno dei più validi elettori, poichè don Pio era un grande proprietario di terreni sul Fucino.
Don Pio esitò a rispondere, ma finalmente, accettando la situazione tal quale avevala creata Caruso, disse:
— Ci voleva la bomba, ci voleva, non vi pare?
Caruso intanto, con le orecchie tese, non perdeva una parola di quanto diceva il principe della Marsiliana e gongolava lasciando pendere il labbro inferiore, e ponendosi i pollici nei taschini della sottoveste con un fare di grasso beato.
Tutti erano contenti, tutti, anche il sor Domenico, il quale andava ripetendo fra i suoni stanchi della musica che l’elezione era assicurata, tutti, meno Fabio Rosati, il quale provava pel Caruso un senso di repulsione e nella sua onestà si meravigliava che il principe tacesse, che il principe tollerasse quello che a lui pareva un insulto.
Ma come avviene spesso, invece di togliere a don Pio la grande stima che gli tributava da lungo tempo, da quando si era mostrato verso di lui affabile e cortese e lo aveva trattato molto diversamente da quel che non sogliano i signori del patriziato romano con i cittadini, nei quali credono di veder sempre dei clienti, Fabio se la prendeva con Caruso e sentiva accrescere immensamente la repulsione che quell’uomo già inspiravagli. Con un colpo d’occhio capiva l’influenza che quell’intruso dall’aspetto volgare avrebbe presa sul principe e gli doleva che per essere eletto dovesse sottoporsi a quel giogo.
Le voci avvinazzate formavano un frastuono tremendo nella sala bassa e sotto il pergolato; un odore nauseabondo di vino versato, di pietanze, di cattivi sigari, di gente sudicia, riempiva l’aria, e don Pio incominciava a sentirsi a disagio in quel luogo ed era stanco e nauseato. Per questo, fatto un cenno al Rosati, si alzò e, accompagnato dal sor Domenico, dalla sora Lalla e dall’onor.
Serminelli, dal Caruso e dal Massa, traversò la sala dove echeggiarono della grida stanche e rauche di “Evviva il nostro candidato„ e accommiatatosi da tutti salì in phaéton, prese le briglie di mano al cocchiere e, invitato il Rosati a sedersi accanto a lui, toccò con la punta della frusta i cavalli, che partirono al trotto.
Durante il breve tragitto, Fabio fu più volte sul punto di dire al principe quanto lo affliggeva di vederlo nelle mani di un volgare imbroglione, di narrargli che Caruso aveva servito un po’ tutti i partiti con la penna, una penna che non sapeva intingere altro che nella bile, e che ora non avendo più nessuno si attaccava a lui come alla tavola di salvezza. Voleva narrargli che era diffamato come uomo per avere abbandonato a Milano la moglie e un figlio senza pane; che era diffamato come giuocatore, per essere stato scoperto con le carte segnate in mano, era diffamato come giornalista per non essersi mai addimostrato fedele a nessuno, servendo meglio chi meglio lo pagava. Ma tutte queste rivelazioni, che salivano a Fabio dal cuore alla bocca, egli non aveva coraggio di farle a una persona che incutevagli tanto rispetto quanto il principe della Marsiliana. Fabio Rosati era troppo romanamente educato per trovare in sè tanta audacia, poichè quelle rivelazioni naturalmente contenevano un biasimo per don Pio, il quale, invece di rinnegare qualsiasi connivenza col Caruso, aveva permesso che mentisse sfacciatamente.
Don Pio pure, nonostante l’impassibilità della fisonomia, si sentiva a disagio rispetto al Rosati, e dispiacevagli di aver perduta la sua stima in un momento in cui aveva bisogno della fede illimitata del giovane per riuscire nell’intento. Per non abbordare l’argomento spiacevole, don Pio non disse parola durante il tragitto, e soltanto giungendo al palazzo invitò a mezza bocca il Rosati a salire.
— Grazie, è tardi e ho da fare, — rispose l’altro, che in condizioni diverse sarebbe stato lietissimo di quell’invito.
Essi si separarono freddamente, e Fabio, triste come chi non ha veri ideali e vede crollare la fede che ha riposta in un individuo, più per la sua posizione che per il valore personale, si diede a percorrere lentamente il Corso, deserto in quell’ora tarda. Egli aveva sognato di adoprarsi tanto e poi tanto per la elezione del principe di Marsiliana da meritare la gratitudine di lui, da diventare per l’avvenire l’ad latus del principe, la persona indispensabile, e quando si vedeva dischiusa già la casa Urbani, ecco che un altro, un intruso, entrava con un salto nella posizione da lui faticosamente conquistata, e la faceva sua.