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lici nei taschini della sottoveste con un fare di grasso beato.

Tutti erano contenti, tutti, anche il sor Domenico, il quale andava ripetendo fra i suoni stanchi della musica che l’elezione era assicurata, tutti, meno Fabio Rosati, il quale provava pel Caruso un senso di repulsione e nella sua onestà si meravigliava che il principe tacesse, che il principe tollerasse quello che a lui pareva un insulto.

Ma come avviene spesso, invece di togliere a don Pio la grande stima che gli tributava da lungo tempo, da quando si era mostrato verso di lui affabile e cortese e lo aveva trattato molto diversamente da quel che non sogliano i signori del patriziato romano con i cittadini, nei quali credono di veder sempre dei clienti, Fabio se la prendeva con Caruso e sentiva accrescere immensamente la repulsione che quell’uomo già inspiravagli. Con un colpo d’occhio capiva l’influenza che quell’intruso dall’aspetto volgare avrebbe presa sul principe e gli doleva che per essere eletto dovesse sottoporsi a quel giogo.

Le voci avvinazzate formavano un frastuono tremendo nella sala bassa e sotto il pergolato; un odore nauseabondo di vino versato, di pietanze, di cattivi sigari, di gente sudi-