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il sor Domenico e a sinistra il posto restava vuoto; don Pio avrebbe voluto che quella seggiola fosse occupata dal Caruso per parlare con lui, ma non ebbe il coraggio di chiamarlo. Lo conosceva appena, già era debitore a quell’uomo di una idea che non gli sarebbe mai nata e non voleva che vincoli maggiori di gratitudine si stabilissero fra lui e quello sconosciuto. In quel momento penetrava a stento fra la folla l’onorevole Serminelli, deputato di un collegio d’Abruzzo, e don Pio Urbani fecegli cenno di andare accanto a lui.

Erano già state servite le fettuccine nei vassoi ricolmi, e tutti si erano empiti il piatto tirandone giù un mucchio e lasciandone cadere sulle tovaglie, che erano in più punti imbrattate di sugo. Soltanto nella vicinanza del principe la gente mangiava poco e la tovaglia era ancora bianca. Il sor Domenico stesso, messo in soggezione, non aveva il suo bell’appetito di tutti i giorni, e la sora Lalla, che non perdeva d’occhio nessuno e dirigeva il servizio, si accostava ogni tanto al principe, al marito o a Fabio Rosati, col quale aveva maggior confidenza, e invitava or l’uno or l’altro a mangiare e sopratutto a bere.