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dinanzi a una porta grigia tutta coperta di dorature, e bussò leggermente. Il cameriere di fiducia del principe, un francese sbarbato, con gli occhiali che davano alla sua fisonomia l’aspetto di prete, comparve sull’uscio, e vedendo Fabio, che conosceva, lo pregò di entrare in un salottino precedente la camera del principe.
Don Pio, appena udita la voce di Fabio, gli andò incontro e gli strinse cordialmente la mano.
— Grazie di essermi venuto a prendere, — disse al Rosati. — Mi annoiava di giunger solo in mezzo a tutta quella gente.
— Non vengo per questo, — rispose Fabio guardando in terra e non sapendo come riferire al principe le parole del sor Domenico. Dacchè era entrato nel palazzo sentiva maggiormente tutta la stranezza della proposta che doveva fare, e non aveva il coraggio di esprimerla.
— Occorrono altre somme per le spese elettorali? — domandò il principe. — Me lo dica francamente; so quanto bevono gli elettori romani, e nulla mi stupisce.
— No, no; ho ancora qualche migliaio di lire, — disse il Rosati sorridendo. — Si tratta di una cosa molto più difficile a dirsi.