Il Parlamento del Regno d'Italia/Ruggero Settimo

Ruggero Settimo

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Urbano Rattazzi Francesco Crispi
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


Ruggiero Settimo.

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RUGGERO SETTIMO de’ principi di FITALIA SETTIMO

senatore.

presidente del senato.


Il domani della risurrezione d’un popolo a libera vita, è sacro dovere il ricordare i nomi di quelli uomini intemerati che non tentennarono a farsi campioni della patria nei giorni del pericolo ed in quelli ancor più terribili dell’abbiezione e della schiavitù.

Le lotte in Sicilia, cominciando dalle colonie che venivano da lontane regioni a stabilirvisi contro il diritto delle popolazioni che già l’occupavano, sono state sin oggi sventuratamente perenni. Le colonie, le invasioni, le guerre, gl’intrighi hanno a vicenda fatto passare da un padrone ad un altro l’isola, che per la sua fertilità meritò d’esser chiamata il granajo d’Italia.

Divenuta oggetto d’ambizione, non fu abbastanza forte per difendersi, e quindi le battaglie e le sconfitte, lo straniero e l’oppressione, le congiure e le rivolte; stato di perpetua convulsione, che oggidì, grazie al Dio della nostra nazione, sembra spento, ma che continuerebbe pur tuttavia, se il fascino del concetto unitario non avesse trionfato delle grettezze municipali.

Ma tra le lotte di cui l’istoria ci conserva la ricordanza, nessuna presentò mai tanta ostinazione ed accanitezza, quanto quella dalla quale si è usciti con l’annessione al gran regno d’Italia. Siculi, Greci, Cartaginesi, Romani, Saraceni, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi e Castigliani, tutti quanti insomma i successivi padroni della Sicilia, non han mai dato l’esempio nelle loro nimicizie con le indigene popolazioni, di longanimità d’odio reciproco, d’incompatibilità vicendevole, di estrema situazione, infine, tanto quanto se ne osservarono tra Siciliani e Napoletani in quest’ultimo secolo: in una parola, sotto i Borboni, i quali violando i privilegi degl’isolani, e facendo primi elementi di loro esistenza l’abuso ed il tradimento, resero [p. 500 modifica]esosi quelli che si presentavano come loro sostegni, e che a poco a poco, vittime d’un maneggio del governo, caddero nella rete premeditata, e vollero darsi l’aspetto di conquistatori, mentre forse realmente erano stati spinti a conculcar la Sicilia dalla semplice ignoranza.

Dopo i fatti del 1812, del 1820 e del 1848 era tale la tensione tra i popoli di Napoli e dell’Isola, tra cui correva il rapporto non di fratelli a fratelli, ma di oppressi ad oppressori, che si giudicava imminente un grande scoppio di disperazione, il quale avesse per effetto l’intiera espulsione dei borbonici, o il totale annichilamento di ogni senso civile e generoso.

Quest’atto di disperazione fu di fatto il moto del 4 di aprile, lo sbarco di Garibaldi, lo sforzo supremo di Calatafimi, di Palermo e di Milazzo. La Sicilia divenne libera.

Per l’innanzi sola cagione di mutuo livore fu la tirannide che per sete d’impero divideva; abbattuto il giogo, si ritornò fratelli, e le schiere di Garibaldi, rese più forti ancora da nuovi soldati, sbarcarono in Calabria ed a marcia trionfale liberarono il reame.

Il plebiscito proclamò l’annessione, l’Italia si fece, e sparirono l’autonomia di Napoli e i privilegî della Sicilia.

Gli sforzi supremi e le successive rivoluzioni, i conati della Sicilia contro i napoletani pel riconoscimento dell’indipendenza dell’isola e per la riscossa dall’assolutismo, tutta questa lotta di popolo a popolo e d’idea ad idea, è senza meno incarnata, immedesimata nella nobile e veneranda figura di Ruggero Settimo, il cui nome era il più popolare che mai nella Sicilia pria dello sbarco di Garibaldi, oggi solamente secondo al nome dell’eroe di Palermo.

Col delineare in un quadro la vita del vecchio ammiraglio, noi intendiamo rendere un qualsiasi omaggio a lui personalmente, e nello stesso tempo dare un ultimo saluto alla prisca monarchia, fondata dai Normanni, ed alle avite idee di Sicilia, che non è molto si sono sacrificate in offerta di olocausto all’attuazione del pensiero di tanti secoli: l’Unità Italiana. [p. 501 modifica]

Nè vi ha luogo a temere che dovendo parlare di un personaggio vivente ci lasciamo guidare dalle passioni del cuore umano, non facili a frenarsi quando il soggetto delle nostre meditazioni vive al par di noi e potrebbe da sè stesso giudicare delle lodi o dei biasimi che gli si compartiscono. Avvegnacchè Ruggero Settimo sia lungi dalla patria da 11 anni ed a noi non fu dato sinora la fortuna di conoscerlo; egli è lontano e non prende più parte agli avvenimenti politici, mentre da un altro lato le idee da lui rappresentate sono cadute per non più risorgere, sicchè van comprese soltanto nel campo delle memorie e delle tradizioni.

Che più? Dio conceda all’uomo dell’antica Sicilia ancora lunghi giorni d’esistenza; ma i suoi antichi principî sono ormai dominio del passato, ed alla storia è permesso di occuparsene. Ben è vero che spontaneamente ha egli or dato il suo voto favorevole all’annessione, plaudendo all’unità della patria; ma la sua età, pur troppo avanzata, e nello stesso tempo la mal sicura salute gl’impediscono di prender parte attiva alle presenti vicende d’Italia; è quindi forza conchiudere, che, se d’oggi in poi avrà il biografo a segnare una serie d’onori dalla nazione e dal re conferitigli, lo storiografo deve invece arrestarsi al giorno del plebiscito, quando il semplice voto di Ruggero Settimo venne deposto nell’urna ed umilmente confuso con quello di migliaia di oscuri cittadini.

Il mondo che ha veduto in lui la personificazione della perseveranza, della purità e del disinteresse, riconoscerà giusto senza dubbio l’amore che gli nutre il popolo di Sicilia, accresciuto vieppiù dal segno di rispetto che han voluto professargli ultimamente il campione d’Italia, Giuseppe Garibaldi, il ministro della nazione, il conte di Cavour, e il capo di noi tutti, re Vittorio Emanuele.

Egli nacque a Palermo il 19 maggio 1778, allorchè ancora l’aristocrazia feudale non era stata scossa dalle sue fondamenta da’ principî che germogliarono in Francia poco più di dieci anni dopo, irrorati dal sangue immenso che si versò nell’89. [p. 502 modifica]

A Palermo, capitale del regno di Sicilia, allora non fuso con le provincie del continente, sedeva il general Parlamento dell’isola, alla cui autorità doveva ben tosto allentare la mano di Ferdinando IV, cominciando quella serie di manomissioni e di tradimenti, che si sono trasmessi per eredità nazionale e per indole di famiglia sino al fanciullo Francesco II, il quale negli ultimi giorni del regno di Gaeta non si è mai stancato di promettere e giurare franchigie d’ogni sorta, come già il padre ed il bisavolo.

È necessario rammentare questa posizione politica del paese, non già per compiacerci di rancide autonomie, avvegnachè sappiamo a fondo che se in tempi andati lo stretto del Faro, per mancanza di comunicazioni, potea ben farle veci d’un oceano e separare l’isola dalla terraferma, com’è l’America dall’Europa, oggi al contrario, poichè coi vapori e colle ferrovie vennero abolite le distanze, la Sicilia è in contatto con tutti, vede al cospetto degli altri Stati la propria impercettibile picciolezza e sa benissimo che se arrivasse ad ottenere la vieta autonomia di campanile, finirebbe presto o tardi con ricevere gli ordini dalle rive della Senna, o con dover mandare i suoi rappresentanti politici alle camere di Londra.

Non è dunque con questo scopo che abbiamo voluto accennare alla posizione politica della Sicilia nei primi anni della vita di Ruggero Settimo, ma bensì l’abbiamo fatto con l’intento di delineare in quali contingenze ebbe egli a ricevere i primi insegnamenti, quali prime idee s’impressero nella sua giovine mente e quindi quale dovette essere la sua educazione, la sua cultura, il suo spirito pubblico.

All’uopo è giusto del pari dire come egli sia nato da famiglia nobilissima siciliana, il cui primogenito sedea nella camera alta; come più su dicemmo, non è gran fatto importanza che attacchiamo al rango della nascita o ai quarti d’un blasone, essendo rimasti tali anacronismi soltanto nei salotti delle dame legittimiste di Francia, ma l’è appunto una particolarità necessaria per dimostrare l’ascendente ch’andò egli acquistando sul popolo insulare, il quale pur [p. 503 modifica]troppo, non ancora avezzo a dimenticare del tutto le vecchie consuetudini feudali, tien molto al fasto signorile ed all’apparenza del nome. Di più le tendenze della Sicilia ad esser padrona di sè stessa e ad avere una costituzione inglese, quella del 1812, portavano senza meno l’impronta aristocratica; va in conseguenza da sè che dovendo tener dietro alla vita del capo di questi principî, i quali in esso potevano ragionevolmente dirsi incarnati, si osservi in qual modo, per le tradizioni di famiglia e per le idee dei tempi, insieme alle virtù ed ai meriti che lo adornano, specialmente era egli condotto a rappresentare negli annali della patria quella parte abbastanza brillante che noi abbiamo assunto l’impegno di compendiare.

Ruggero Settimo appartiene pel padre ai principi d’Italia, discendenti dei De-Settimo di Pisa, il cui nome si trova più d’una volta nell’istoria della famosa città toscana, e la madre era figliuola del principe d’Aragona, rappresentante della famiglia Naselli, che ha pure estese possessioni e che contava più voti nella camera dei Pari. Questi ragguagli non han d’uopo di commenti, e dicon molto da sè stessi, avuto riguardo all’epoca d’allora. Nato ultragenito, dovette abbracciare una carriera ecclesiastica o militare: tra la cocolla o la spada, scelse la spada.

Entrò di buon’ora a servire nella marina e successivamente vi guadagnò tutti i gradi sino a quello di retro-ammiraglio, essendosi distinto in parecchie fazioni navali a cui prese parte durante il cataclisma sociale delle guerre della repubblica francese e del primo impero napoleonico. Spettacolo gigantesco! I popoli atterravano i tiranni e riacquistavano la propria vita civile nell’ebbrezza di feroce vendetta; un uomo sorge, afferra i due secoli e doma tiranni e popoli; il grido di guerra tuona dall’uno all’altro lato d’Europa, i re d’oggi non saranno più re domani, i confini e le barriere si scancellano sotto la pesta dei corrieri di battaglia, e il vecchio mondo appare irriconoscibile; a questa lotta suprema della civiltà contro la barbarie assistè Settimo, giovine ancora da uffiziale di marina, e gliene rimase nell’anima vivissima [p. 504 modifica]impressione, appunto come impronta, fatta su lava ancor molle, dura perenne.

Oggi diffatto una ricordanza delle più belle di sua vecchiezza, e ch’egli ama sempre ripetere agl’intimi amici, è l’assedio e il blocco di Tolone, giornata che resterà memoranda nelle pagine dell’istoria moderna.

Nel grado di retro-ammiraglio non venne mai meno a sè stesso e come militare e come uomo; ne’suoi viaggi ebbe a particolar cura il liberare, riscattandoli a proprie spese, quanti più schiavi siciliani gli fu dato scoprire nelle città della costa d’Africa, ed i poveri redenti tornando ai proprî focolari dai pubblici mercati di carne umana, benedivano costantemente al generoso liberatore ed insegnavano ai loro figlioletti a pronunziarne il nome con rispetto ed amore.

Dopo aver fatto menzione della prima parte della sua vita, veniamo oramai all’uomo di Stato, del 1812, del 1820 e del 1848. Se finora abbiam dovuto scrivere per sommi capi, e diremmo quasi di volo, nei succennati tre periodi ulteriori dovremo lungamente trattare delle vicende storiche dell’isola, che in istretta maniera si collegano con la biografia del nostro illustre protagonista.

La Sicilia aveva già traversato, prima di giungere alle vicende del 1812, una lunga serie d’indicibili lotte; era da gran pezza che i Borboni cercavano con ogni sotterfugio e con ogni subdola arte di attentare un po’ alla volta alle franchigie che da tempi remoti vigevano nell’Isola, e soltanto mostravansi affettuosi e proclivi a restituire quanto avevano tolto allorchè si vedevano, appunto com’è stato sempre l’uso dei dispotici signori, ed in ispecie di quella famiglia, alle strette cogli avvenimenti e coi principî di libertà trionfanti; pertanto, esaurendo sempre prima ogni mezzo di ostinazione o di resistenza, lecito o non lecito che fosse, e stancando per forza, volere e non volere, la pazienza dei soggetti non solo, ma anche dei proprî medesimi amici.

Ci si perdonerà di sicuro se ci dilungheremo abbastanza intorno alle relative notizie storiche, ma le crediamo oltremodo necessarie a figurar di base alla [p. 505 modifica]biografia che imprendiamo a scrivere, avvegnachè verrebbe difficile al lettore non siciliano, sventuratamente l’Italia sendo stata sin oggi divisa e suddivisa così da essere del tutto estraneo il settentrione alle memorie del mezzogiorno, di comprendere e di apprezzare a tondo i nomi ed il valore di quelle istituzioni contro cui mirò sempre il potere e per la cui conservazione il popolo ebbe senza posa a sperare.

La costituzione feudale, che nei tempi di mezzo sorse a preferenza d’ogni altra forma di governo, ebbe principio in Sicilia lino dai Normanni; osservata in seguito e modificata in meglio, si ridusse sullo scorcio del secolo passato ad una rappresentanza, composta di tre camere o bracci che si voglian dire, secondo l’esatta espressione: la baronale, l’eeclesiastica e la demaniale; le prime due completamente indipendenti perchè padrone della proprietà stabile dell’isola, la terza affatto devota, anzi servile, verso la corte, da cui teneva la potenza. E in questo debbe solo ricercarsi la vera ragione del liberalismo tradizionale del clero e de’ nobili siciliani, che, per non essere spogliati di quanto loro apparteneva, si schieravano generalmente nelle file dell’opposizione, onde frapporre un argine, per quanto era possibile, all’ingordigia ed all’avarizia dei successivi governi.

Il primo aperto attentato alla costituzione conta dal 1798, allorchè il contraccolpo dello idee della rivoluzione francese faceva sentirsi anche all’estremo punto del Mediterraneo. Avendo chiesto il re straordinariamente un esorbitante nuovo sussidio, che ricusarono di accordare i bracci baronale e ecclesiastico, ed al quale solo condiscese il demaniale, emanò allora un dispotico decreto che dichiarava legge la decisione di quest’ultimo, senza punto nè poco tener conto dei voti dei due primi.

La pertinacia da un lato e lo sdegno dall’altro rendevano la situazione più difficile che mai, nè una volta tesa la corda avrebbe potuto prevedersi la fine dell’antagonismo se il general Championnet, portando la guerra nello Stato di Napoli, non avesse obbligato a fuggire e a ricoverarsi in Sicilia il re Ferdinando [p. 506 modifica]figlio di Carlo, e quindi a transigere colle pretese degl’isolani, che, nella speranza di riacquistare la perduta autonomia, credettero dover accoglier bene il profugo principe.

Nel 1802 tornava costui negli Stati di terraferma, dimenticando le promesse già fatte durante il suo soggiorno a Palermo; ma ripetutasi la fuga per la seconda volta nel 1806, ricominciarono le dissidenze. Alla sfiducia successe il malumore, e l’opposizione divenne aperta e possente nella sessione parlamentare del 1810.

Allora partiti ed intrighi scesero in campo per disputarsi il successo; sursero allora le nobili e generose figure de’ principi di Belmonte e di Castelnuovo, degni della ricordanza e della gratitudine de’ posteri loro concittadini; sin d’allora nacque nei baroni l’idea d’immolare sull’altare della patria le proprie prerogative feudali e si parlò di proporre l’abolizione de’ fedecommessi, sacrificio poi con magnanimità unica al mondo, da chi aveva maggior interesse a combatterlo, difeso e compiuto; spie della regina violarono e mossero gravi scandali nel Parlamento; le dame, e la stessa Maria Carolina d’Austria, ripetendo le scene licenziose delle passate corti francesi, arrivarono a guadagnar voti colla seduzione della bellezza, per non dir altro; allora lo sbarco dei Murattiani presso Messina ed il loro sbaragliamento; allora insomma si videro belli e nobili caratteri accanto ai più laidi e ai più pravi, la lealtà in lizza col maneggio, scene degne d’istoria precedere scene d’obbrobrio e di bassezza, la virtù filialmente petto a petto col vizio.

Ma il governo borbonico non però si ristette; che anzi, proseguendo nella via su cui già si era messo, e bisognando di nuove e pronte risorse, pubblicò tre famosi editti co’ quali manometteva le proprietà comunali, non che parte dell’ecclesiastica, ed imponeva ingenti aggravî senza che l’autorità del Parlamento fosse stata per poco tenuta in vcrun conto. Generalmente si protestò contro, ed una schietta dichiarazione venne in breve sottoscritta da’ nomi i più ragguardevoli del regno; anche i sudditi inglesi tentarono di [p. 507 modifica]non rassegnarsi alla straordinaria imposta, ma il ministero tenne duro e bisognò per allora piegare il capo, nella speranza d’un vicino intervento dell’Inghilterra, come si era parecchie volte ed in diverse occasioni richiesto.

Venuto al punto che tra popolo e re doveva ricorrersi all’armi straniere per mantenere le promesse ed impedire le infrazioni illegali, ogni possibilità di definitivo buon accordo era sparito, e oramai poteva solo sperarsi un minore o maggiore prolungamento di quello stato di convulsione per arrivare più presto o più tardi all’ultimo scioglimento della questione.

Il governo dalle violenze passò alle violenze, e volendo vendicarsi de’ cinque baroni che più si erano mostrati tenaci nel combatterlo, ed in uno divisando di spargere la paura nelle masse, ordinò si arrestassero nottetempo i principi di Belmonte, di Castelnuovo, d’Aci, di Villafranca ed il duca d’Angiò e venissero tradotti e relegati nelle varie prigioni delle piccole isole che si trovano all’intorno della Sicilia.

Due giorni dopo arrivava a Palermo lord Guglielmo Bentinck, ministro brittanico incaricato dal gabinetto di Londra di esaminare la posizione degli affari di Sicilia; trovò la verità maggiore della fama che n’era corsa, e si provò a intavolar trattative col governo locale affine di rimediarvi; ma accorgendosi dell’inutilità di qualunque negoziato, partì tacitamente e quasi all’improvviso alla volta della Gran Brettagna. Maria Carolina ed il suo ministero ne furono inquieti, non sapendo a qual cosa attribuire quella repentina partenza, e il loro timore dovette essere tanto più grande in quanto che appunto non conoscevano di che avevano a temere.

Durante l’assenza del Bentinck fu dagl’Inglesi ventilata a Messina una cospirazione, di cui si vuol complice l’istessa regina, per favorire lo scoppio di un movimento a pro de’ Francesi e permettere loro il passaggio dalla Calabria nell’Isola. Ritornò allora il ministro della Gran Brettagna, parlò con la regina a carte scoperte, e dopo diverse trattative nelle quali da principio il governo borbonico si mostrò pervicace ed [p. 508 modifica]ostinato, e lo stesso Bentinck rinunziò alla pretensione della solenne abdicazione del re in favore del figlio Francesco, pervenne ad ottenere il vicariato del principe erediario con l’alter ego, l’allontanamento dei napoletani, il cambiamento del gabinetto e la revocazione dell’ultima tassa, causa di tanti turbamenti; ed infine per sè il comando militare generale. Qui comincia a figurare per la prima volta il nome di Roggero Settimo nelle faccende amministrative dello Stato. Avvegnachè, essendosi lord Bentinck incaricato della composizione del nuovo ministero, prevalesse sulle prime il progetto di nominare il principe di Cassero solo segretario di Stato e di eleggere poi quattro direttori per cooperare nei diversi dipartimenti, e tra costoro si vedea quasi con certezza sarebbe stato chiamato per la marina l’illustre ufficiale di cui scriviamo la vita.

Ma insorte altre difficoltà, si abbandonò tale pensiero, rimettendosi la composizione dopo l’arrivo de’ cinque baroni prigionieri, che erano stati richiamati dal nuovo governo, e il cui ingresso a Palermo potè dirsi un trionfo per calca di popolo e per espansione di affetti e di plauso.

Più giorni trascorsero invano, e per le suscettibilità di alcuno e l’ambizione di altri il gabinetto non potè esser formato prima degli ultimi giorni del marzo. Alla fine così venne composto: affari esteri il principe di Belmonte; grazia e giustizia il principe di Cassero; finanze il principe di Castelnuovo; e per la guerra e marina il principe d’Aci, il quale ultimo ebbe la sagacia di scegliersi un buono ed intelligente compagno, nominando Ruggero Settimo a suo direttore.

Così era entrato l’anno 1812, in cui dovea fiaccarsi tutta l’arroganza ed albagia di Ferdinando, di sua moglie e dei perfidi consiglieri d’entrambi.

Così il popolo respirava una volta, e nella coscienza della nullità d’un piccolo Stato, ringraziava con grandi dimostrazioni l’onnipotente proiettore che in un batter d’occhio aveva cambiato del tutto la scena. Così finalmente inauguravasi il nuovo liberale ministero, dal quale in quelle emergenze si aspettava molto e pur molto. [p. 509 modifica]

Tempo immenso si sprecò per la riforma dello Statuto, ciò che alla fin fine sarebbe stato perdonato se invece di produrre uno sconcio si fosse riusciti nel disegno della nuova costituzione. Ma pel concorso di varie nemiche circostanze toccava sventuratamente avverarsi l’aulico apologo della montagna partoriente, ed il Parlamento fu in preda a tale e tanta anarchia, ed il progetto di riforma divenne siffattamente inestricabile caos, che sinanche i buoni cittadini cominciarono a stancarsene, e tra gli altri il principe di Belmonte, il quale, cedendo ad un moto di noja e di dispetto, s’allontanò dal Parlmamento, nè più volle intervenirvi.

Il principe di Castelnuovo proseguì i suoi lavori nel dipartimento delle finanze; ma non andò molto che un litigio corse tra lui ed il segretario di Stato per la guerra e marina, principe d’Aci, che pretendea per le spese dell’armi sussidi maggiori del solito. Lord Bentinck non seppe in principio a chi de’ due contendenti render ragione, ma finì col dare il torto ad Aci, contro cui nutriva da gran tempo una celala diffidenza. E questa diffidenza a tale proposito si accrebbe, avvegnachè il ministro inglese avesse di che sospettare connivenza di mire tra i principi d’Aci e di Cassero, allo scopo di rovesciare dal ministero, mercè la suddetta questione, il Castelnuovo che con la propria fermezza e lealtà li adombrava.

Venuto in uggia a lord Bentinck, Aci potè restar poco al potere, e non essendo riuscito a scavalcare il suo collega dal ministero, si vide dalla forza delle cose obbligato lui medesimo ad abbandonarlo. Ruggero Settimo, dietro la proposta e le speciali raccomandazioni del principe di Castelnuovo, venne chiamato a succedergli nel dipartimento della guerra e della marina; e la nomina di lui contentò lord Bentinck e la intera popolazione, siciliani ed inglesi, tenendolo fermamente per uomo prudente, assennato e nello stesso tempo pieno d’alto valore e di distintissimi meriti.

Il vicario del regno cadde intanto ammalato, ed il vecchio re, scaltramente profittandone, si recò dalla Ficuzza alla Favorita, sue ville di delizie, e da quest’ultima a Palermo, dove tentò un colpo di mano col [p. 510 modifica]procurarsi per mezzo di denaro plausi ed ovazioni, e col dichiarare ai ministri che intendeva riprendere le redini del governo.

Tentò Bentinck dissuadernelo, ma benanche le minacce non ebbero effetto. Allora Castelnuovo e Belmonte inviarono al re le loro rinunzie, insistendo con tenacità per averle accettate.

L’esempio loro fu seguito dal Settimo, il quale appena seppe ciò che avevano fatto i suoi due nobili compagni, e tosto venne in pensiero imitarli. Si recò quindi immantinente alla villa la Favorita, dove il Borbone avea fatto ritorno, ed in persona gli rassegnò la propria dimissione, adducendo le stesse cause, che mossero i due colleghi che avevan già voluto dimettersi, cioè il timore delle serie conseguenze della rottura col governo d’Inghilterra.

Il re si rifiutò ostinatamente e, come Ruggero Settimo con pari fermezza ripetea la domanda, gli disse sorridente ed amichevole le seguenti parole, che qui trascriviamo dalle cronache del tempo:

«Non dubitare, non v’è nulla da temere; tutto si accomoderà. Non saranno punto disturbate, interrotte la pace e la buona intelligenza tra me e la Gran Brettagna.»

Ruggero Settimo, che conosceva bene la posizione ed apprezzava gli uomini e le cose per quanto realmente valevano, rispose ossequiosamente, come per mala sorte del paese le dissidenze col governo inglese fossero inevitabili, e i tristi effetti che ne sarebbero venuti, tali da non poter dissimularsi, avendo egli stesso parlato con lord Bentinck ed essendo venuto quindi in conoscenza delle precise intenzioni di lui.

Parlò così e si ritrasse; ma nè allora, nè in seguito, in quella circostanza potè venire a capo di aver accettata la propria dimissione che il re si ostinò a rifiutargli.

Quest’atto accrebbe a mille doppî la popolarità già molta del giovine patriota, che col non lasciare soli nel ritirarsi i due ministri degli esteri e delle finanze diè prova di esemplare abnegazione, rinunciando al potere per protestare contro la politica del re. [p. 511 modifica]

E invero la rinuncia dei tre uomini di Stato tanto simpatici all’universale, dovette far piegare la bilancia nelle decisioni del sovrano. Perocchè questi, sino allora imperterrito alle minacce del rappresentante britanno, che stimava non avessero punto ad attuarsi e dettate soltanto dal proposito di spaurirlo, non potè senza meno vedere con indifferenza di essere palesemente biasimato dalli stessi personaggi che sin là servito lo avevano e che godevano la considerazione di tutto il popolo di Sicilia. E il ritiro di Settimo ebbe a pesargli sull’animo, se non più, certo non meno di quello degli altri; il ministro della guerra e della marina, vale a dire, il supremo reggitore della forza tanto di terra quanto di mare dello Stato, dichiarava a viso scoperto al monarca che non volea servirlo nelle sue ingiuste mire, e che rifuggiva dal rimanere in una carica ove sarebbe stato obbligato a mancare o a’ suoi doveri di cittadino, stando principal puntello della violenza, ovvero a quelli di ministro, non ritirandosi dal servizio d’un padrone a cui più non avrebbe voluto obbedire.

Difatto da lì a qualche giorno Ferdinando, scorgendo da un lato di esser rimasto soltanto con quelli che la pubblica fiducia non aveano nè potevano avere, e dall’altra vedendo attraverso le invetriate le evoluzioni delle truppe inglesi che cingevano dappresso quasi in assedio la sua dimora, cedè; rinunciò al progetto di assumere il governo del regno; consentì all’allontanamento della regina dall’Isola ed a’ poteri illimitati da conferirsi al vicario. Avrebbe potuto ceder prima e farsi in merito della propria debolezza, mentre invece piegando agli ultimi momenti e sotto l’incubo di gran pericolo, quando, insomma non potea non piegare, si buscò le fischiate, o dal meno la pubblica compassione, e divenne la favola del popolo e dei nemici. A questo giova il voler farla da Sacripante e il dare a divedere di voler aprire il cielo con un pugno, allorchè ogni benchè piccolo soffio del settentrione può mettervi giù, o sovrani in sessantaquattresime, o miniature di re!

Tranquillate in questo modo le faccende, s’impiegò molto tempo per la sanzione degli atti del Parlamento, [p. 512 modifica]e tra questi quello che destò maggior controversia fu l’abolizione de’ fedecommessi che in parte vennero annullati. Intanto la regina Maria Carolina sendo già partita alla volta di Vienna, Bentinck reputò la questione siciliana del tutto rassodata, in guisa che sullo scorcio del maggio credette superflua la sua presenza nell’Isola, e lasciando a fare le proprie veci lord Montgomery, s’imbarcò con le truppe anglo-sicule per la Catalogna, dove pensava opporsi alla marcia dei francesi.

Allora si scombujò la cosa pubblica e quanto si era fatto in lunga pezza stette lì lì per perdersi in un attimo. Doveva riaprirsi il Parlamento e si aveva cura dei nuovi deputati: gli uomini che stavano al potere erano di animo abbastanza ben noto per non giovarsi punto della loro posizione e delle loro risorse affine di avere rappresentanti favorevoli.

Solo un circolo elettorale si formò, ed in esso si contava Ruggero Settimo; ma successo non ottenne, sì perchè loro precipuo intento consisteva nell’escludere solo i partigiani del fedecommesso, sì perchè fidarono in un avvocato catanese che a nome loro ardì proporre ai collegi vuoti persone tali sul cui capo avrebbe dovuto riversarsi lo sdegno generale.

E la camera dei comuni risultò, per opera di maneggi e d’intrighi, contraria al ministero. Lo stesso sentimento filtrò negli altri bracci o fosse versatilità d’indole o per amore del nuovo, o meglio per effetto di raggiri e di mene personali che seppero mettere in uso con iscaltrezza e con profitto quei tali che invidiavano il Castelnuovo o che non amavano l’intero ministero per insofferenza di mortificazioni ricevutene: insomma, per uno di quei fenomeni dell’opinione che sovente ci convincono col fatto della loro realtà, ma che non possono spiegarsi.

Nè i ministri, per quanto fosser puri di animo, si tenner sempre prudenti; avvegnachè alcune destituzioni slanciate su parecchi gentiluomini e lo stabilimento di una commissione militare per punire quelli che avean preso parte a certi disturbi avvenuti in occasione delle feste di santa Rosalia, guadagnassero loro l’avversione di molti. Destituiti e condannati col [p. 513 modifica]codazzo de’ loro famigliari ed amici erano tanti che predicavano la croce addosso ai capi dell’amministrazione: e il malcontento è contagioso.

Si ricorse a tutti i modi possibili per indurre i Comuni a decretare i sussidî che da tempo si eran richiesti: fu inutile; all’insistenza della domanda rispondeano coll’ostinazione dell’ambiguità e del prorogamento; nè intanto potea durar lunga pezza la mancanza di mezzi pecuniari.

Il principe di Castelnuovo, ministro delle finanze, era più de’ suoi colleghi bersaglio agli attacchi dell’opposizione; vedendo mancarsi i piè nel cammino col rifiuto dei sussidî, sentendosi infine impossibilitato a proseguire più innanzi, decise dimettersi, ma pregò gli altri ministri di rimanere. Non consentirono eglino, dicendo, tutti o niuno dover ritirarsi; quindi, nonostante il dispiacere di lord Mongonmery, cessero tosto il luogo ad un nuovo ministero da essi medesimi progettato a S. A. Reale e nella cui scelta Belmonte opinava di chiamar uomini della contraria fazione affine di logorarli nella stima pubblica; ma Ruggero Settimo particolarmente, con l’accordo di Castelnuovo, fe’ prevalere il partito di nominare persone conciliative e inoltre non isgradite alla legazione inglese.

Così cadde nel 1813 il ministero liberale, che un anno prima era stato tanto anelato ed in cui si erano allora riposte speranze e fiducia immense.

Pertanto è da ricordarsi ad onore del vicario del Regno e degli amici di Ruggero Settimo, che a questi, in mezzo alle controversie di una caduta ed alla confusione di affari ed interessi, venne conferito da S. A. Reale il grado di brigadiere a segno di stima e di ringraziamento.

Con la caduta non finirono le ire. In Parlamento si arrivò a intavolare vivissime questioni intorno un dispaccio del Settimo, col quale costui, mentre era segretario di Stato per la guerra, aveva ingiunto al tribunale del R. Patrimonio di non curarsi dell’eredità del duca di Caccamo, morto nel 1813, dopo lo stabilimento della Costituzione, e quindi dopo l’annullamento dei feudi e della loro riversione in favore del fisco e dell’erario. [p. 514 modifica]

In seguito andaron le cose vieppiù sempre a capo giù; e quindi cattivo umore contro gl’inglesi, prorogamento intempestivo delle camere e pertinacia nell’avversare il gabinetto.

Ritornò Bentinck, il Parlamento continuò a tener fermo nel rifiutare i sussidî, venne prorogato da capo e finalmente formossi un terzo ministero.

Dopo molte conferenze all’uopo tenute presso lord Bentinck, nelle quali Castelnuovo rifiutò ricisamente di salire al potere senza Belmonte, vennero chiamati ad amministrare gli affari Gaetano Bonanno per le finanze, il principe di Carini all’interno, il principe di Villafranca agli esteri e Ruggero Settimo per la guerra; di quest’ultimo, ch’era stato costantemente richiesto di consigli dal plenipotenziario britannico, il nome non soffrì dubbio, tanto per l’intelligenza quanto per la reputazione ch’egli godeva da pareggiare quella di Castelnuovo e di Belmonte.

Il primo atto di questo ministero fu di sciogliere il Parlamento, con cattivi auspicî inaugurato e deplorabilmente chiuso. Il paese ne fu commosso ed il governo influì grandemente a non calmare le destate apprensioni, perchè commise irregolarità sopra irregolarità, contro il parere sempre dell’eccellente Ruggero Settimo e dei due consiglieri di Stato, principi di Castelnuovo e di Fitalia. I quali tutti e tre disgustati del procedere dei loro rispettivi colleghi, si ritrassero in disparte e non assisterono più alle sedute di particolari consigli, e solo al ritorno del Bentinck, che frattanto era andato a Livorno, si permisero d’istruirlo minuziosamente del vero stato delle cose.

Come fanciullo di pochi anni cade a terra appena fatti pochi passi, se la balia nol sorregge, così il regime costituzionale inglese inciampava e pericolava ogni qual volta lord Bentinck non era lì pronto a tirar le redini e la briglia.

Si tentò un’amalgamazione, e Ruggero Settimo fu scelto dai partiti come quello che poteva raggiustar meglio le discordie. All’uopo varie conferenze ebbero luogo, ed in una di esse il Belmonte sorse all’improvviso e propose di dirigersi al re, invitandolo di [p. 515 modifica]provarsi a calmare le ire intestine. Tacquero tutti consenzienti, o senza il coraggio di dissentire, e disvollero così ciò che avevano prima voluto. Solo Ruggero Settimo si levò, insinuando che, dovendosi fare delle proposizioni al re, passar queste dovessero pel canale del principe vicario.

Infatti si conchiuse dover operare in questo modo, ed il principe disse al proposito a Ruggero Settimo, credendo suo padre del tutto indifferente all’ambizione di regger lo Stato, le seguenti parole: «S. M. di certo non vorrà intender nulla, ed il peggio sarà che non s’indurrà mai a rispondere definitivamente».

Proprio al contrario, Ferdinando rispose subito che accettava la proposta e riprenderebbe il governo; e detto fatto, si recò tosto alla Favorita passando per Palermo, e là congedò i quattro ministri, chiamò a succedervi persone reazionarie e diè ordini interamente contradditorî a quanto aveva operato il vicario figlio.

Qui finì la parte che Ruggero Settimo prese agli avvenimenti del 1812 e degli anni successivi. Dopo alcuni mesi, passati al solito in iscompigli di corte ed in disordini parlamentari, il re sciolse le Camere, chiudendo l’adito a qualunque barlume di speranza; poi parti per Messina, d’onde il 31 maggio del 1815 s’imbarcò alla volta di Napoli che aveva riacquistata. Senza meno, quando mise il piede nella reggia di quella città il vecchio Ferdinando dovette pensare sogghignando alla verità del proverbio «Chi la dura la vince», mercè il quale egli si era fatto giuoco dei baroni, del popolo, dell’Inghilterra, della Francia.

Fortuna per noi che i suoi eredi hanno continuato nello stesso sistema dell’ostinatezza, e che invece, alla resa dei conti, i proverbî non sono poi veri in tutti i tempi.

In questo primo periodo della vita politica Ruggero Settimo si mostrò amico piuttosto e partigiano delle opinioni del principe di Castelnuovo, per eccellenza liberale, anzichè di quelle del principe di Belmonte, anch’egli contrario al dispotismo e alle violenze di casa Borbone, ma meno spinto dell’altro e meno adescato [p. 516 modifica]dalle nuove dottrine che la Francia dell’89 ha l’onore d’aver proclamato all’Europa.

Non intendiamo con ciò di far credere che il Settimo avrebbe potuto pareggiare con qualcuno de’ membri del celebre consiglio della Comune, avvegnachè la moderazione sia una delle principali sue virtù; ma fa d’uopo riportarsi a’ tempi ed al luogo in cui egli figurava e si vedrà di leggieri che, per moderato che fosse, ei poteva dire di appartenere ai pochi che maggiormente i principî del nuovo secolo professavano in Sicilia, dove la feudalità e l’aristocrazia avevan gettate radici profonde, nè per altro, per esser davvero liberale e nelle idee dell’89, bisognava a forza rivaleggiare con gli eroi della famosa Convenzione, per quanto questa, come istituzione e indipendentemente dalle convulsioni e dalle ire del momento, fosse tal fatto da illustrare un secolo.

Tale è il nostro giudizio intorno al Ruggero Settimo: qual’è, diciamolo di volo, quello dell’istoria sulla condotta dell’Inghilterra? È doloroso il parlarne, ma pure è così: quel governo, i cui fasti sono spesso interfogliati d’inganni e di tradimenti diplomatici, ed il cui ministro degli esteri scrivea convenire alla Gran Brettagna più i re assoluti che i popoli liberi, quel governo ha coperto di un velo le sue pratiche con Ferdinando, da cui nulla traspare, se non se raramente qualche mira di proprio interesse e mire d’ambizione sul dominio dell’isola o maneggi a favore dell’amico assolutismo.

La condotta di Bentinck non è sempre chiara ed aperta, quella di A’Court costantemente celata.

La storia de’ cinque anni che seguirono, non ispetta a noi di raccontarla, tanto perchè estranea al soggetto del libro, quanto perchè sarebbe scrivere la cronaca di Napoli; per altro si sa di leggeri quali vicende potremmo registrare, vicende di sangue, di torture, di violenze, d’inganni.

Veniamo quindi direttamente al 1820, allorchè l’improvvisa notizia della rivolta di Cadice e della costituzione giurata da Ferdinando VII di Spagna commosse tanto i popoli del napoletano ch’essi levaronsi [p. 517 modifica]a tumulto e talmente ringalluzzirono della vigliaccheria del governo, che il vecchio re non solo dovette accordare lo Statuto, ma benanco si fe’ carbonaro, divenendo il più sovversivo reazionario che mai si fosse nel suo regno. Mal colse al paese che vi prestò fede disgraziatamente.

Dovendosi comporre il nuovo ministero costituzionale, il re nominò ministro della marina il siciliano Ruggero Settimo. Questi ben memore degli avvenimenti passati, in cui Ferdinando si era dato a divedere pel più fino dissimulatore e pel più franco spergiuro, non volle, fedele ai suoi inveterati principî dell’indipendenza di Sicilia, recarsi alla sede di Napoli, avvegnacchè per sola capitale del regno riconoscesse Palermo e non altra città.

Intanto era nel continente, non gioja, ma piuttosto orgia di libertà, abbandonando i carbonari nel baccano e nell’ebbrezza del trionfo la consueta circospezione e la prudenza pur troppo necessaria. Nè il re vi si prestava di mal animo, chè anzi prontavasi a rappresentare qualunque parte gli venia richiesta, con una ciera benevola, sulla quale era impossibile di rintracciare il benchè menomo segno di doppiezza, ispirata segretamente, andando per le lunghe, dalla speranza dell’avvenire.

Incalzava intanto la nuova della rivoluzione della Sicilia, nella quale dobbiam notare due fatti dolorosi: la dissidenza nell’interno e la malvolenza al di fuori.

Nell’isola, parte per gli interessi diversi de’ paesi e delle classi, parte per istigazione de’ governanti, non si era punto concordi nello spirito e nello scopo della rivoluzione; mentre le grandi città dissentivano tra loro per l’indipendenza da Napoli o la dipendenza da Palermo, in una stessa sola città si differiva d’opinioni sulla costituzione da adottare, se quella di Spagna, o se quella del 1812.

Dove non esiste l’unione e la concordia, manca la forza. La Sicilia divisa in due campi, non potè allora vincere, come ai nostri giorni vinse. Nei primi momenti della rivoluzione, quando ancora si trattava soltanto di riforme, quando insomma lo Statuto di [p. 518 modifica]Spagna si elevava a cielo agli orecchi del popolo ed a quelli della nobiltà, la inglese si rammentava del maligno luogotenente del re, il generale Naselli; questi creò una giunta di governo e spinto dal movimento popolare fe’ le finte di proclamare la costituzione spagnuola.

Ruggero Settimo, di leggeri si comprende, faceva parte della giunta sopraddetta e i suoi consigli furono di grandissima utilità al bene del paese, massimamente in quei giorni di furore e di confusione indicibili.

Senonchè la moderazione non pervenne a scongiurare gli avvenimenti che preparava la mala fede del luogotenente borbonico, il quale, accorgendosi come fosser falliti i tentativi della contro-rivoluzione, e non volendo più altro simulare condiscendenza qualsiasi alle voglie del popolo, ordinò le truppe e l’artiglieria occupassero militarmente le vie della città.

Nulla è più terribile dell’ira d’un paese, quando questo ha il coraggio di mostrarla. Si venne, alle mani; si versò sangue cittadino, ne seguirono terribili fatti, ma i borboniani furono sbaragliati ed il Naselli obbligato coi suoi generali a fuggire e ad imbarcarsi per Napoli. Rimasta Palermo padrona di sè, ed essendone venuto a conoscenza il duca Francesco di Calabria, allora vicario del regno, il ministero napoletano emanò alcuni editti coi quali, tra le altre cose che ingiungevansi, dichiarava riconoscere la giunta provvisoria e nominava nell’istesso tempo l’illustre Ruggero Settimo a luogotenente generale del re nell’isola; tale nomina, non fa d’uopo dirlo, mirava ad illudere la parte liberale e in una a screditare presso di essa la purissima reputazione del patriota siciliano.

Bisogna por mente a questa particolarità che più tardi vedremo ripetersi. Essa fa onore al Settimo, perchè chiaramente si rileva che il governo a lui avrebbe voluto appoggiarsi, stimando la popolarità di Ini maggiore alla propria impopolarità. Ed è tutto dire!

Ma Ruggero Settimo ricisamente rifiutò, firmando invece la risposta della giunta, nella quale, col citare soltanto la storia degli ultimi anni, si facevano semplicemente alla famiglia Borbone i più acerbi rimproveri. [p. 519 modifica]

A questo punto si domandò l’autonomia della Sicilia la divisione delle due Sicilie dal congresso di Vienna riunite. Rispondeva il vicario per ciò rimettersi alla maggioranza dell’isola, che ne sarebbe richiesta, ma contemporaneamente spediva contro un esercito comandato dal generale Florestano Pepe, fratello a Guglielmo; e di più nominava luogotenente, invece di Settimo, il principe di Scaletta, il quale essendo nato e dimorante a Messina, serviva ad aizzare vieppiù le ire municipali in quel frattempo accanitissime fra Messina e Palermo.

I napoletani, sempre amanti della libertà e prodighi all’Italia di vittime e di martiri, mal soffrivano che Sicilia possedesse ciò ch’essi avevano sempre desiderato. E il progetto del governo borbonico di render deboli i napoletani e i siciliani, rivolgendo gli uni contro gli altri, ebbe il successo che dal tiranno si voleva.

Difatti dieci mila continentali guidati dal Pepe erano sbarcati a Milazzo e dopo lungo viaggio erano già entrati nella provincia di Palermo, mentre metà dell’isola lottava contro l’altra metà e mentre nella capitale la plebe teneva il broncio alla borghesia.

La giunta provvisoria, dove il Ruggero Settimo sedeva a vice-presidente, seppe allora dai proprî inviati che ritornavano da Napoli, il generale Florestano Pepe avere istruzioni moderate, e l’autonomia insulare venire riconosciuta ogni qual volta la maggioranza lo volesse. Ed il generale avendo confermata la sua missione nel medesimo tenore, il governo di Palermo condiscese a venire a trattative, ed all’uopo si stabilì tregua, ed il principe di Villafranca fu spedito a Cefalù per abboccarsi col comandante in capo l’esercito napoletano.

O per isbaglio, o per tradimento, questo più probabile di quello, la flottiglia borbonica batteva intanto nel mare di Solanto otto barche cannoniere che accompagnavano il Villafranca. La qual novella arrivando a Palermo vi risvegliava rumore indicibile, non che ogni sorta di dubbi, giustificati per altro dal passato, sicchè il popolo ammutinandosi ad un tratto e sospettando, nella foga della diffidenza, anche della [p. 520 modifica]borghesia e della nobiltà palermitana, irreflessivamente si scagliò sulla guardia civica, la disarmò, la disfece.

Non giunta, non consoli di corporazioni, governo non vi era di nessun modo, ma tumulto, sangue, incendi, cadaveri. Potea dirsi la vertigine della disperazione o la bestemmia ultima del vinto.

Pepe si avvicinò a grandi giornate a Palermo, e non fidandosi delle sue milizie per prender d’assalto la città, la cinse d’assedio. Ma non andò lungo tempo che si venne a capitolazione, lasciandosi la plebe infinocchiare, per dir così, dalle scimmiotterie del principe di Paternò, che facendola ridere alle spalle dei napoletani, la ridusse debole ed abbattuta. Il trattato era onorevole per gli assediati, perchè aveva sempre per base il voto della maggioranza, ma, come al solito, non doveva, con insigne sfrontatezza, essere osservato dalla parte contraria.

Bisogna pertanto rendere giustizia al generale Florestano Pepe, che operò invariabilmente di buona fede, e dovette soffrire più delli stessi siciliani, com’è da presumersi in uomo d’onore, allorchè il governo, nel cui nome sottoscrisse, non rispettò la sua firma. Il parlamento di Napoli dichiarò ribelli gl’isolani ed incompetenti a patteggiare; annullò quindi la capitolazione, benchè sottoscritta sur una nave inglese ed alla presenza del console austriaco.

Intanto, per compensare il generale Pepe dell’affronto ricevuto, il re gli dava la croce dell’ordine di san Ferdinando. Ma il fratello di Guglielmo Pepe, già indignato per la fellonia usatagli, rimandò al re la borbonica decorazione rifiutando di mettersela sul petto. E scriveva al proposito: «Questo è il solo omaggio che posso rendere alla generosità con cui mi hanno giudicato i Siciliani.» Ammirevoli sensi che gli valsero la stima dei buoni e l’amicizia intima dell’ottimo Ruggero Settimo.

Quest’uomo esemplare, ministro riverito da tutti a trentaquattro anni, e che a quarantadue, per esser fermo e fedele nel bene del proprio paese, rifiutò portafogli e luogotenenza generale, quest’uomo trovò nel carattere del Pepe una vera uniformità di principî [p. 521 modifica]politicamente e moralmente e volle stringer con lui legami di franca amicizia.

Il Colletta succedeva al Pepe nel comando di Sicilia, e rompendo ogni condizione per l’innante statuita, ristabiliva il giogo dell’assolutismo. Così ebbero fine i moti del 1820.

Le sorti che subì Napoli son da lutti conosciute. Laybach, donde il vecchio Ferdinando scriveva alle camere la bravura de’ proprî cani nelle cacce di quel soggiorno, senza nulla dire delle vicende politiche, è nome troppo celebre nelle istorie d’Italia: e molto più l’invasione tedesca; il giglio e l’aquila grifagna scancellarono i colori nazionali.

Allora il Settimo si ritraeva a vita interamente ritirata e pacifica, al quale uopo gli bastava il discreto suo patrimonio, che possedeva per eredità di censo. Sua precipua cura fu l’occuparsi minuziosamente e con somma coscienza dell’incarico che per testamento gli affidò l’egregio suo amico e sviscerato patriota principe di Castelnuovo, suo compagno nel ministero del 1812; il quale morendo istituì con parte del suo patrimonio il famoso istituto agrario de’ Colli, tanto utile all’istituzione agricola di quelle contrade, e pregava in oltre Settimo ad esservi suo rappresentante, sostituendolo in lutto, per l’acuratezza e la bontà di cui lo sapea dotato.

Così visse ventotto anni lungi dai rimorsi del mondo politico, ma sperando sempre in un avvenire più fortunato, tendendo le orecchie al minimo grido di libertà e spesso dolorosamente ritornando alla disillusione. Lo teneva in sospetto il governo, ma doveva rispettarlo, come avviene sovente per questi uomini venerandi che in sè compendiano le memorie e le speranze d’un popolo; da quest’ultimo poi era sempre grandemente apprezzato, diremmo quasi adorato. Ventotto lunghissimi anni trascorsero di quella vita privata ed oscura. Spesso balenavano raggi di speranza; sempre succedeva il disinganno; ma finalmente spuntò il memorando mille ottocento quarantotto.

La parte principale della vita di Ruggero Settimo è quella che si svolse durante i due anni di [p. 522 modifica]rivoluzione nel 1848 e nel 1849 ed al cui racconto siamo ora appunto pervenuti.

Era la terza grande insurrezione che avveniva in Sicilia nella prima metà del secolo presente ed era la terza volta che il Settimo pigliava parte precipua a favore delle aspirazioni del popolo. Le tre date, pur troppo famose, del 1812, 1820, 1848, se segnano nei registri della storia tre gloriose epoche per quell’isola, additano del pari i tre periodi della pubblica vita dell’illustre cittadino. Potrebbe dirsi che la patria ed il patriota hanno comune l’istoria; e così è, poichè i fatti parziali del 1837, al proposito delle stragi del colera, dal popolo credute opera del governo, e le congiure del 40 e degli anni successivi, non che il sollevamento di Messina nel settembre del 1847 non possono chiamarsi col nome di rivoluzioni, essendo state spente sul nascere; ma solo debbono considerarsi come sintomi della incompatibilità dei Borboni al regno, e quali forieri altresì dello scoppio del 12 gennaio 1848, pel quale il paese riunì e mise in opera tutte le sue forze vitali.

In nessun altro periodo rivoluzionario la Sicilia ebbe più di questa volta completa indipendenza e tempo per apparecchiarsi alla difesa. È imitile sollevar qui la discussione sui vantaggi della perfetta unificazione delle Due Sicilie; noi non iscriviamo la storia dell’isola, e quindi ci tocca soltanto di accennare alle vicende che risguardano dappresso il nostro soggetto. Crediamo nondimeno che ad un popolo martoriato in mille maniere e che vedeva i napoletani spacciarsi per conquistatori e non per fratelli, mentre conservava ancora la memoria del tempo in cui fu padrone di sè medesimo, per Dio! non si debba dire col linguaggio di un ragioniere che l’utilità dell’unificazione fosse da preferirsi alla passione dell’amor proprio. Il plebiscito del 1860, messo a confronto con la smania autonomica del passato, è la più bella smentita per coloro che accusano la Sicilia d’imperdonabile cecità nell’aver voluto separarsi da Napoli.

A settant’anni, vecchio venerando, Ruggero Settimo, fu uno dei primi che gl’insorti del gennaio 1848 [p. 523 modifica]videro accorrere in loro ajuto. Il 12 di quel mese era scoppiata la ribellione, e dopo due giorni di attacchi parziali, ma sempre sfavorevoli alle truppe, vennero istituiti quattro comitati, per l’annona, la guerra, la finanza e la direzione della pubblicità, del quale ultimo fu presidente Ruggero Settimo.

Quando i Siciliani ebbero acquistata maggior forza e rifiutarono nettamente d’accettare le sterili proposte del governo, resi ormai consapevoli delle solite mene e della mancanza di fede dei Borboni, un comitato generale si creò nello scopo di dirigere con maggiore unità gli affari della pubblica amministrazione, e Ruggero Settimo, lasciando il comitato che prima dirigeva, ne assunse la presidenza. Da quel giorno, 24 gennajo, data il suo potere senza limiti durante la rivoluzione.

Frattanto continuava la lotta, si rigettavano le trattative e si fugava finalmente la colonna del generale De Sauget, che con rinforzi era venuto da Napoli, e che, o scoraggiato, o per servire la causa della libertà, smarrì gran parte de’ suoi nelle campagne che circondano Palermo, e s’imbarcava l’ultimo del mese; lo stesso giorno che il Comitato generale, reso più forte dalla nuova vittoria, assumeva i poteri di governo provvisorio, alla cui testa veniva il Settimo riconfermato con Mariano Stabile per vice-presidente.

Nè la rivoluzione si arrestava alle porte di Palermo, chè anzi come vasto incendio propagavasi bentosto a tutti i tre angoli dell’isola, ed il vessillo tricolore era innalzato a Girgenti, Catania, Messina, Caltanisetta, Trapani e Siracusa, che i regî abbandonavano, una alla volta, rinchiudendosi entro i formidabili baluardi della cittadella di Messina. Era loro progetto, sicuri di esserne difficilmente sloggiati dalle sole forze rivoluzionarie, di tenersi fermi finchè la stanchezza e l’anarchia avrebbero resa molto meno scabrosa la via della riconquista. E fu così pur troppo.

Seguivano il rifiuto di alcune altre equivoche e sparute concessioni di Ferdinando II e la resa di Castellamare a Palermo e del castello di Milazzo, sicchè lo stemma borbonico restava inalberato soltanto sullo Stretto. Si pensò allora a convocare il Parlamento nello scopo [p. 524 modifica]di rendere il governo l’espressione del voto del paese, benchè nei giorni supremi di una rivoluzione valga sempre la volontà di un solo meglio delle discussioni di molti, come i fatti ebbero per isventura a darne prova. Una commissione presentò il progetto relativo al comitato generale, secondo cui proponeasi la costituzione del 1812 per base fondamentale, riserbando alle camere di modificarne gli articoli con altri più compatibili ai tempi, ad eccezione della legge elettorale, che sin d’allora rendevasi, ispirandola ai principi della libertà, di gran lunga più larga. In conseguenza convocaronsi i collegî per l’elezione dei deputati e si preparava la generale apertura, mentre il comitato ed una commissione appositamente creata per trattare con lord Minto, da Ferdinando incaricato della mediazione per gli affari di Sicilia, rifiutavano di accettare le concessioni che il re gettava come elemosina e con l’intento di riprenderle l’indomani.

In Napoli intanto, essendo il 6 marzo cambiato di nuovo il ministero, il gabinetto che prendeva le redini del governo inviava a lord Minto parecchi decreti del Borbone, firmati nello stesso giorno, nel quale egli, impaurito per la rivoluzione di Parigi, adottava l’atto di pubblicazione del Parlamento, istituiva presso di sè un ministero per l’amministrazione della Sicilia, chiamava ministri alla sua immediazione i presidenti dei quattro comitati subalterni e nominava altresì luogotenente generale del re nell’isola l’ammiraglio Ruggero Settimo con incarico di aprire il 27 di marzo le due Camere legislative. Queste concessioni, senz’altro e senza guarentigia, cos’erano se non questioni di nome, se non se astuzie per guadagnarsi, o almeno discreditare quegli uomini in cui il popolo grandemente fidava?

I presidenti dei quattro comitati subalterni si rilegarono ricisamente a disuggellare i plichi a loro diretti; lo stesso voleva fare il Settimo, ma costretto da lord Minto, il quale sulla sopraccarta aveva scritto di proprio pugno «il dispaccio diretto a Ruggero Settimo luogotenente del re doversi intendere diretto a Ruggero Settimo presidente del comitato generale:» [p. 525 modifica]lo aperse alla presenza dei membri del comitato; letti i decreti, vennero rigettati come contrarî alla costituzione del 1812. La quale ostinazione sarebbe stata inopportuna con altra dinastia, ma allora fu previdente diffidenza, dal passato e dal seguito giustificata, sicchè non è da menarne grandissima accusa ai capi della rivoluzione.

Pel Settimo, inoltre, era questione personale: egli diede prova del più gran disinteresse, ed è da notarsi il fatto curioso che nella di lui biografia hanno grandissima parte la serie dei rifiuti coi quali egli più volte non volle accettare le cariche e gli onori che gli conferiva malignamente il governo di Napoli. Si fecero dalla Sicilia alcune controproposizioni, forse di soverchio esorbitanti, e Ferdinando le rigettava, vedi derisione! in nome della causa italiana.

Intanto il 27 del marzo si apriva il Parlamento siciliano tra le voci di gioja per l’annunzio del movimento di Vienna. Ruggero Settimo, già eletto deputato di Palermo, alla testa de’ suoi compagni del comitato generale passò per le due strade principali della città per recarsi alla chiesa di San Domenico ove stavano aspettandolo i deputati, i pari e tutti gli alti funzionarî, non che le autorità ch’erano state invitate alla solenne apertura. La guardia nazionale e la municipale, non che gli uomini delle guerriglie stavano schierati in due ali nelle vie per dove passava il corteggio; dovunque, nelle muraglie e nei balconi nelle finestre e nei terrazzi festoni, bandiere, drappi, arazzi istoriati, tappeti e nastri; folla di popolo che non è dato immaginare; applausi da render sordi, ghirlande, e fiori da tappezzare il lastrico intero, giubilo generale ed immenso: un vero trionfo, in una parola, un trionfo di quelli che si sanno fare soltanto in Sicilia. Quando poi il comitato giunse a San Domenico le grida di entusiasmo del popolo furono tali e tante che sole bastarono a coprirle le musiche concertate delle bande, lo stormo delle campane e il rombo del cannone.

Ruggero Settimo, dopo il canto Veni Creator Spiritus salì alla tribuna e lesse il discorso di apertura, e in seguito al quadro di quanto fino allora il comitato aveva fatto, continuava con le seguenti parole: [p. 526 modifica]

«La suprema ragione della salute pubblica e la sovrana volontà del popolo han reso legittima, al par di qualunque altro governo che fosse al mondo, questa dittatura che il comitato esercitava per tutto il corso della rivoluzione e che or viene a deporre nelle mani del Parlamento. Il comitato innanzi che si sciolga eserciterà un ultimo atto di quel potere esecutivo che la costituzione del 1812 riconosce nello Stato e che qui non è rappresentato da niuno per parte dei successori di Ferdinando, ch’era terzo di tal nome in Sicilia al tempo che cessò il Parlamento nel 1815. Il comitato, non tenendo alcun conto della protesta di Ferdinando II, data in Napoli il 22 di questo mese, perchè la riconosce contraria al paragrafo 17 del capitolo della costituzione sulla successione al trono, dichiara aperto legalmente a Palermo nella chiesa di San Domenico, oggi 27 marzo 1848, il generale Parlamento di Sicilia, secondo i diritti imprescrittibili del paese, e richiede voi, signori pari e rappresentanti de’ comuni, che, passando ai luoghi destinati alle vostre ordinarie adunanze, vogliate con la conveniente speditezza votare una legge sull’esercizio del potere esecutivo nel caso presente.»

E infine conchiudeva con questi nobili e generosi sentimenti:

«Che benedica Iddio ed ispiri i voti del Parlamento; ch’ei riguardi benigno la terra di Sicilia e la congiunga ai grandi destini della nazione italiana, libera, indipendente ed unita!»

Non era allora generale il concetto delle annessioni e dell’unità monarchica, ma l’unione si volea da tutti, benchè sotto la viziosa forma federale, come la sola áncora di salute e l’unico modo per esser forti a petto dell’Austria, e conservare completa indipendenza.

La folla aveva ascoltate le parole del Settimo con silenziosa devozione; ma quando egli ebbe pronunciata l’ultima sillaba, gli applausi frenetici e le grida d’entusiasmo furono tali che la penna non sa come esprimerli. La città intera rispose al discorso del presidente del comitato con immense dimostrazioni di consenso e di gioja, che dovettero essere per quell’uomo insigne [p. 527 modifica]a cui furono dirette un perpetuo ricordo pieno d’ineffabili dolcezze nei giorni dell’esiglio.

Le camere, verificati i poteri, occuparonsi anzitutto del governo da doversi stabilire. I pari votavano vi sarebbe un reggente, Ruggero Settimo, che avrebbe esercitate tutte le prerogative della corona giusta i patti della costituzione del 1812. Intanto i comuni decretarono, e immediatamente approvarono i pari all’unanimità, che il potere esecutivo verrebbe confidato ad un presidente del governo del regno ed i ministri sarebbero responsabili de’ loro atti; le facoltà del potere esecutivo sarebbero tutte quelle che stabiliva la costituzione del 1812, meno la sanzione dei decreti del Parlamento, la prerogativa di sciogliere ed aggiornare o prorogare le camere, l’intimazione di guerra e la conchiusione della pace; avrebbe infine il diritto di grazia per tutti i reati non d’interesse pubblico; Ruggero Settimo il presidente del governo.

Quest’atto di fiducia parla da sè stesso e val quanto un’intera biografia: dice tutto il passato dell’uomo eletto ad unanimità dalla nazione. Può pertanto vedersi quanto sien false le asserzioni di coloro che, scrivendo la storia come vien già loro dalla fantasia senza darsi la pena di constatare i fatti, scrivono il Ruggero Settimo aver avute tutte le prerogative d’un sovrano, e fra le altre quelle appunto annoverano che il Parlamento espressamente si riserbò. Ben è vero che re costituzionale potè dirsi Ruggero Settimo durante quel periodo rivoluzionario, ma perchè il popolo aveva in lui meritata fidanza, e non per decreto delle camere, secondo asseriscono quasi tutti gli autori francesi che hanno scritto de’ nostri nazionali rivolgimenti. Modesto, quanto illustre, il presidente del governo del regno volle addebitare la sua nomina, anzichè ai propri meriti, piuttosto ad un sentimento di gratitudine che sentivano i rappresentanti del paese per gli uomini de’ primi giorni, per coloro che guidarono la somma delle cose nei momenti supremi delle barricate. E quindi per non restar solo egli del bel numer uno e per corrispondere a quello ch’ei supponeva fosse voto della nazione, mentre era effetto della propria modestia, chiamò al [p. 528 modifica]ministero quei tali che gli erano già stati compagni nei comitati.

Sin da qui han principio le pagine dolorose dell’istoria di quel tempo, più dolorose forse di quelle della reazione, perchè questa non combattuta, ma venne bensì affrettata dalle discussioni e dagl’intrighi delle camere, che per ambizioni o per scissure personali si divisero e passarono circa un anno in fanciullaggini e crisi di gabinetto senza far nulla per la salute del paese; all’ora della battaglia mancarono le munizioni, mancarono le armi, mancarono gli uomini!

La rivoluzione del 1848 ha fatti che onorano la terra dov’ebber luogo e mostrano a lettere infinite quanto un popolo possa allorchè vuole; ma del pari ha fatti su cui pesa la sentenza d’Iddio e guai per essi se venissero pesati sulla bilancia dell’eterna giustizia. Il resoconto delle Camere è là: tra questi latti sovracennati, condannati dalla dura esperienza, va incluso senza meno il Parlamento con la sua opposizione, con le sue coalizioni, con le sue frazioni, co’ suoi decreti, col suo famoso Statuto modello. Audace dottrinario che di gran lunga superava in temerità le grandi assemblee, le supreme convenzioni di cui intendeva a divenire lo scimiottatore.

E noi non terremo dietro alla serie degli inutili dibattimenti, delle dimissioni e ricomposizioni successive del ministero, degli attacchi e delle proteste pacifiche o armate. Ci limiteremo a notare, tenendoci stretti all’assunto nostro, come in tanto guazzabuglio di eroismo e di animosità meschine, Ruggero Settimo restò sempre eguale a sè stesso, e nessuno mai, nonostante la libertà naturalmente sfrenata d’un paese che viene dal più duro dispotismo e si leva padrone di sè stesso per la virtù delle armi, nessun giornale osò mai attaccarlo. E se ora gli si fa rimprovero di troppa debolezza, come diremo più in là, sono i posteri che lo asseriscono, mentre i contemporanei del 1848, all’opposto di quanto suole spesso avvenire, non osarono dirglielo ad alta voce.

Soventi volte bastò la sua parola, un suo proclama per sedare ammutinamenti e commozioni: n’è prova il suo manifesto al proposito delle interpellanze Carnazza [p. 529 modifica]al ministro della guerra che misero il fuoco alle polveri e provocarono un tafferuglio che non è da dire.

Per altro Ruggero Settimo era già stato dichiarato inviolabile; la Camera dei deputati emise questo decreto sulla proposizione del Gregorio Ugdulena, e poi quella dei pari approvò, in seguito al pericolo corso di una crisi ministeriale, onde poter per l’avvenire combattere i ministri senza paura di far anche cadere il presidente del governo, idea che avrebbe fatto titubar molti nel farla da oppositori, perchè sarebbe senza meno stata cagione di gravi conturbamenti nello Stato.

«La persona di Ruggero Settimo è dichiarata inviolabile» dice il decreto. Epperò fa d’uopo osservare, come più sopra dicemmo, che nemmeno prima egli era stato mai combattuto da qualsiasi giornale, ciò che prova la inviolabilità di lui, prima che dal Parlamento, essere stata decretata dalla pubblica opinione e dal rispetto popolare. La vera inviolabilità è quella che si merita, come il Settimo allora, come oggi il Re galantuomo: monarchi di Francia e d’Inghilterra, anch’essi inviolabili, non finirono la vita, perchè contrarî al popolo, sul patibolo, o nell’esilio? Ed oggi i tirannotti che dividevano l’Italia? Ecco a che giova l’inviolabilità per legge, quando non è accompagnata dal merito e dall’amore.

Ruggero Settimo si recò quindi alle Camere per ringraziarle del loro voto, come già aveva fatto quando venne eletto a presidente del Governo, e similmente che allora, venne accolto con plausi e segni della più viva gioja.

Intanto sin dal 13 di aprile le Camere avevan votato, sulla proposta del deputato Paolo Paternostro, il decreto della decadenza, così formulato:

parlamento generale di sicilia.

«Il Parlamento dichiara:

«Ferdinando di Borbone e la sua dinastia sono per sempre decaduti dal trono di Sicilia.

«La Sicilia si reggerà a monarchia costituzionale [p. 530 modifica]e chiamerà al trono un principe italiano, dopo che avrà riformato lo Statuto.

«Fatto e deliberato all’unanimità delle due Camere, il dì 13 aprile 1848.»

Il Presidente della Camera dei comuni
Marchese di Torrearsa.
Il Presidente della Camera dei pari
duca di Serradifalco.

Poco dopo si spedivano commissari diplomatici siciliani presso i governi amici del continente; ed oltre al padre Gioachino Ventura e Carlo Gemelli, già inviati il primo alla Corte Pontificia, ed il secondo a quella del Granduca, partirono i tre deputati Emerico Amari, barone Casimiro Pisani e Giuseppe Lafarina con la missione di trattare il riconoscimento per parte della Santa Sede, della Toscana e del Piemonte, non che il progetto d’una lega o federazione italiana; Giuseppe Lamasa, con una schiera di crociati, partiva per la Lombardia; il principe di Granatelli e Luigi Scalia sbarcavano a Genova per recarsi a Londra. E dovunque il cannone di papa Mastai, di casa Lorena e di re Carlo Alberto, salutò la nuova bandiera siciliana.

Si credette che l’Inghilterra e la Francia avrebbero riconosciuta la rivoluzione dell’isola appena fatta la elezione del nuovo sovrano. Affine di farne l’attuazione, si diè mano alla riforma della costituzione, nella qual opera si perdè preziosissimo tempo, non compensato da forti armamenti, perchè la politica di Mariano Stabile, in cui personificavasi il ministero, consisteva nel fidare interamente sull’Inghilterra anzichè nelle proprie risorse.

Formulato lo Statuto che doveva essere la legge fondamentale dello Stato, la Camera dei comuni e quella dei pari, divenuta, per le riforme, Camera dei Senatori non più ereditari ma a vita, vennero chiamate alla solenne elezione del nuovo sovrano di famiglia italiana, giusta la seconda parte del decreto del 15 aprile.

I due candidati che avevano maggiori probabilità [p. 531 modifica]Ferdinando Maria Alberto Amedeo, duca di Genova, a cui favore militavano la protezione della Gran Bretagna e la popolarità di suo padre Carlo Alberto di Sardegna; ed il figlio del granduca di Toscana che veniva appoggiato dalla Francia. Una proposta partì da Londra per Luigi Napoleone Bonaparte ed un’altra da Parigi per Ruggero Settimo, ma a nessuna di queste due toccò il successo; non alla prima, perchè non volea darsi la corona ad un principe sconosciuto e senza alleanze che avrebbero potuto giovare al paese; non alla seconda, perchè lo stesso Ruggero Settimo, con modestia senza pari, non volle che vi si facesse la menoma attenzione, e considerandola quale una stranezza, sinceramente ne rise. Anzi la sera dell’elezione del re, egli si presentò alla Camera dei comuni per dare il suo voto d’adesione alla nomina di quegli che avrebbe dovuto prendere il posto di lui, giustificando così la generale fiducia nella sua cavalleresca onestà, scevra di qualunque concetto ambizioso o egoista. La sua presenza colmò d’ammirazione e d’entusiasmo i rappresentanti del paese, che lo accolsero con salva di fragorosi applausi e poscia lo elessero ad acclamazione senatore del regno ai diritto, con gli onori di presidente a vita della Camera del Senato, non che tenente generale dell’esercito siciliano, accordandogli in pari tempo, come altra volta fecero gli Stati-Uniti d’America al loro fondatore, la franchigia dei diritti postali pel suo particolare carteggio.

A mezzanotte cominciò la votazione per appello nominale: alle due ore del mattino il duca di Genova, col nome di Alberto Amedeo I veniva proclamato re de’ Siciliani per la costituzione del regno, e il venerabile presidente del governo provvisorio apponeva il domani la sua firma sotto i manifesti che promulgavano la seguita elezione.

Mentre una deputazione, imbarcata sul Descartes, partiva alla volta di Genova per offrire la corona e lo statuto al figlio di Carlo Alberto, tristi notizie arrivavano dal continente. A Napoli si soffocava il principio costituzionale nel sangue del 15 di maggio; insorgeva la Calabria e una colonna di circa 900 siciliani sotto il [p. 532 modifica]comando del generale Ribotti e dei colonnelli Longo e Dellifranci, traditi ed abbandonati, venivano fatti prigionieri da forti colonne borboniche, nulla di bene facendo in Calabria, e lasciando invece sguarnita la Sicilia di quasi tutti i suoi più bravi militari; volgeva al tramonto la stella dell’esercito piemontese in Lombardia; le armi del maresciallo Radetzky pigliavano il sopravvento; ed in conseguenza, per colmo di sventura, il duca di Genova reso timido pei recenti rovesci ed anche non molto abbagliato dalla prospettiva dello statuto modello di Sicilia, aggiornava indefinitamente l’accettazione, mostrando piuttosto di parteggiare pel rifiuto, ma tuttavia tenendo a bada la deputazione e lasciando nella più completa indecisione il paese che inviata l’avea.

Intanto all’interno cadeva il ministero, ma troppo tardi: non si era più in tempo di armare definitivamente lasciando in disparte l’amicizia britanna, perchè a Napoli la spedizione era già pronta. Torrearsa fu ministro degli affari esteri e con lui Paternò di Spedalotto, Filippo Cordova, Giuseppe Lafarina e più tardi il barone Vito D’Ondes Reggio.

I rappresentanti della Francia e dell’Inghilterra, Rayneval e Napier si affaticarono presso il re di Napoli, affinchè non si effettuasse la spedizione contro la Sicilia. Ferdinando II non rispose se non se facendo partire immediatamente il generale Filangeri di Saldano alla testa delle truppe che dovevano riconquistargli l’isola ribelle. Il primo fatto d’arme ha luogo a Messina; il Parlamento offre la dittatura al ministero e questo mal consigliato la rigetta. Il popolo continua a battersi eroicamente, titanicamente; i Napoletani sbarcano; la città è bombardata, le case saccheggiate e poi date in preda alle fiamme, la popolazione trucemente esterminata; chi potè pervenire a salvarsi colla fuga arrivò a Palermo scalzo, macilente, affamato, e intanto Messina ardeva incendiata per tre lunghi giorni, trascorsi i quali, il generale Filangeri telegrafava a Napoli «Gl’incendî sono cessati.»

Fu questo il primo dei fatti calamitosi della guerra, i quali resero poi la restaurazione inevitabile. [p. 533 modifica]

Fra una serie continua d’interpellanze parlamentari e di crisi ministeriali passò moltissimo tempo ancora.

Intanto Milazzo venne abbandonata, il campo generale fu traslocato, ogni giorno sempre retrocedendo, ed i borbonici arrivavano ad occupare Barcellona, sinchè finalmente per la mediazione degli ammiragli francese ed inglese venne stabilito un armistizio indefinito la cui rottura doveva essere annunziata almeno dieci giorni innanzi la ripresa delle ostilità.

Il generale Garibaldi partiva intanto alla volta della Sicilia per assumere il comando in capo delle forze rivoluzionarie dell’isola, ma a Livorno, o perchè non ancora deciso o per cambiamento di progetto, soffermavasi in Toscana. Lo suppliva il generale Antonini, e più in là arrivava del pari il generale Luigi Mieroslawski, polacco; quello fu nominato maresciallo di campo, ispettore generale dell’esercito, l’altro brigadiere e capo dello stato maggiore generale. La gelosia nacque tra loro, e benchè colmata sulle prime, ebbe in ultimo per conseguenza la demissione del generale Antonini. Gli successe il generale francese de Trobriand, ma nuove rivalità si produssero ancora tra quest’ultimo e il Mieroslawski, sicchè si dovette affidare al francese il comando attivo della campagna, e il polacco venne lasciato all’immediazione del ministro della guerra.

Si pensò allora al reclutamento nell’interno, in Francia e in Isvizzera. Intanto le trattative diplomatiche continuavano sempre inutilmente con le potenze straniere, ed alla Repubblica francese invano si propose di adottare in Sicilia la stessa sua forma di governo; progetto inopportuno che morì proprio nel nascere. Finalmente furono dal principe di Satriano Filangeri trasmesse ai signori Temple e de Rayneval le seguenti proposizioni di pace che voleva venissero comunicate al governo di Palermo: Costituzione ed amministrazione separate con vice-re proprio; stato discusso separato; pagamento per parte della Sicilia di una porzione delle spese di guerra; guarnigione napoletana a Messina, Milazzo, Siracusa, Trapani e [p. 534 modifica]Palermo; amnistia generale, ad eccezione di 44 persone e tra queste il primo Ruggero Settimo.

Se non fosse stato per gli ultimi due patti le condizioni erano forse accettabili; ma dopo l’eccidio di Messina, si doveva tutto o nulla ottenere, anzichè cedere vergognosamente appena si proponea di trattare la capitolazione della patria libertà.

La Sicilia rispose con la leva in massa, e se la sorte dell’armi le fu in seguito contraria, per una od altra ragione, la sua coscienza dovette contentarsi a compiere il sacro dovere a cui si sentiva chiamato. Giungeva l’annunzio della cessazione dell’armistizio, e la febbre de’ provvedimenti guerreschi, ahi troppo tardi manifestatasi, faceva fede dell’unanimità del popolo nell’odio verso i Borboni. Si richiamarono i congedati, si formò la giovine guardia, s’istituì la legione universitaria e provvigioni e fossati e barricate.

Ruggero Settimo ebbe per decreto del Parlamento la denominazione di Padre della patria, datogli in quei momenti per dimostrare che la fiducia nelle proprie forze non era punto diminuita. Ecco il discorso che il Settimo pronunziò in quella circostanza in mezzo alla general commozione:

«Non ho parole rispondenti all’emozione del mio cuore per manifestarvi la mia riconoscenza. Voi mi avete dato il nome di padre della patria: che ho io fatto per meritarlo? È opera vostra e non mia la recuperata libertà; ed io ho fede che alla saviezza delle vostre leggi, alle armi della guardia nazionale e del nostro giovine esercito, coll’entusiasmo del popolo, coll’ajuto d’Iddio, otterremo quel trionfo che merita la santità della nostra causa, e vedremo assicurata la libertà non che l’indipendenza della Sicilia».

Il generale Mieroslawski ebbe il comando dell’esercito nella provincia di Messina. Egli, molto fornito di teoriche militari profonde, sembra destinato ad essere sventurato nelle battaglie e la campagna siciliana non è la sola a provarlo: o per falli o per disgrazie, egli fu sempre perditore a fronte del generale Filangeri di Satriano, ed aveva soldati che si son battuti e son rimasti morti sul campo. [p. 535 modifica]

Non tocca a noi a far l’istoria di quei fatti militari. Cadde Taormina, cadde Catania; si resero Siracusa ed Augusta; la parola di tradimento fu mormorata, ma detta in momenti di terrore e di disordine, è stata posta in oblio dalla storia imparziale. Mieroslawski, per le avverse prove, per la perduta fiducia, e per una ferita ch’ebbe in sorte, si ritirò dal comando; infine il governo venne autorizzato dalle Camere ad accettare buoni offici di mediazione offerti dall’ammiraglio Baudin.

Il Ministero dette la dimissione e furono chiamati a surrogarlo uomini non certo spartani in fatto di annegazione per la guerra patria. Il Parlamento, quasi sentisse rimorso dalla pace in massima accettata, non si riunì più sin dal 17 aprile del 1849; e il presidente dei governo provvisorio convocò al ministero degli affari esteri una numerosa adunanza per chiedere che consiglio dovesse adottarsi, ove convennero le persone più influenti e più stimate del paese, che poi si divisero senza aver preso alcun partito.

I più pavidi cominciarono a lasciare Palermo. Il domani altra riunione ebbe luogo in casa di Ruggero Settimo e v’intervennero, tra gli altri, Michele Amari, lo storico, il barone Casimiro Pisani, Matteo Raeli, il barone Giuseppe Natoli, Paolo Paternostro, Francesco Crispi, Giuseppe Lafarina, Francesco Paolo Caccio, Giacinto Carini e Rosolino Pilo Gioeni, nomi che abbiamo qui notati perchè tutti oggidì conosciuti nella politica dell’Italia unita. Ma a nessuna decisione si venne: meno pochi, quasi tutti avevano perduta ogni sorte di speranza; e lo scoraggiamento che genera nella vittima il successo del traditore si era aperto il varco nel loro animo.

Ruggero Settimo, colle lagrime agli occhi e col più profondo dolore, diceva esser pronto a fare qualsiasi cosa si fosse creduta utile alla patria e correr di nuovo, al bisogno, i pericoli delle prime giornate del 1848, a cimentarsi anche pazzamente per sè stesso, ad affrontare ogni specie di rischi e di sacrificî; soggiungeva veder nondimeno che gran numero di cittadini, intimiditi o disperanti, non volevano più [p. 536 modifica]sentirne di guerra, nè tampoco di mezzi estremi; voler tentare il possibile, ma purchè con probabilità o lusinga di riuscita, e senza indurre metà di popolo alle prese con l’altra metà. Si risparmiasse il sangue, se inutilmente o tra i figli dello stesso paese dovesse versarsi; solo quest’ultimo doloroso caso voler evitare; del resto mettersi a disposizione de’ suoi compatrioti.

E in queste parole egli era sincero, ei parlava col cuore nelle mani; pronto a mettersi alla lesta del comitato generale nel gennajo dell’anno precedente, perchè unanime allora il popolo e con l’avvenire innanzi, ora tentennava ad assumere la dittatura militare perchè lo stesso popolo non era più unanime nella fiducia, ma invece stanco del passato e annichilito dalla reazione, ch’è ancor peggio della primitiva tirannia.

Il voto fu per la pace. Pertanto, non soddisfatto, Ruggero Settimo radunò sull’imbrunire, i rappresentanti della guardia nazionale, e più tardi un’altra riunione ebbe luogo in di lui casa degli uomini i più determinati. In tutte due domandò consiglio sulla via da tenere, quasi fosse pur troppo convinto, ma non ancora persuaso, che bisognava cedere.

Certo fu questa una di quelle occasioni in cui un capo di partigiani, rinomato, audace, incurante di qualunque conseguenza, avrebbe potuto salvare il paese, arrestando i pacifici, passando per le armi i nemici, servendosi di tutto: a male estremo estremi rimedi. Ma da Ruggero Settimo, più che settuagenario, di carattere sovranamente dolce, era quanto poteva chiedere la patria; e della gratitudine di essa fa prova la memoria sempre cara che invariabilmente se ne serba. Si dovette piegare il capo. Ruggero Settimo depose i poteri, ai quali abdicava, in grembo del municipio, tra le lagrime generali, anche di quelli che avevan parlato contro un’ulteriore resistenza, ma che non sapeano sopportare senza pianto il pensiero che la rivoluzione fosse così sventuratamente finita.

I non compresi nell’amnistia e quelli che a patria schiava preferivano libero esilio, imbarcaronsi in [p. 537 modifica]parecchi battelli, lasciando l’onore di abbandonare l’ultimo la terra di Sicilia al venerando Ruggero Settimo, che si allontanò da Palermo soltanto il 25 aprile del 1849, accompagnato dal dolore e dall’affetto dell’intera popolazione; la quale, affollatasi sulla riva del mare, lo salutò con la voce, coi cappelli, colle pezzuole, finchè il vapore, sul quale, egli partiva, non divenne un punto nero appena percettibile al confine dell’orizzonte, e poi disparve.

Addio, gran patriota, grande italiano! ma asciuga le tue lagrime, avvegnachè ti abbia Dio riservata l’ineffabile gioja di sapere un giorno la tua patria divenuta libera e chiamata a’ nobili destini ai quali ha sempre agognato.

La deputazione incaricata delle trattative partiva da Palermo alla volta del campo borbonico il 23 aprile, giorno anniversario della decadenza di Ferdinando II decretata dal Parlamento. In seguito la storia ha solo registrato alcuni estremi conati parziali d’individui che non volean sottoporsi di nuovo alla tirannia borbonica, ed infine il trionfo della crudeltà e degli orrori della reazione.

Durante l’intero periodo della rivoluzione del 1848, Ruggero Settimo avrebbe potuto dirsi, nell’esercizio delle facoltà accordategli dal Parlamento, un vero re costituzionale, perchè non ebbe mai a render conto dei suoi atti e fu dall’universale e senza restrizione rispettato. Dobbiamo pertanto aggiungere che la sua popolarità non ne scemò menomamente, e se oggi nuovi nomi e nuovi eroi sonosi impressi nella calda fantasia di quella popolazione, pure Ruggero Settimo conserva sempre la medesima aureola.

Nell’anno ch’egli esercitò i poteri di presidente del governo provvisorio del regno, si mostrò continuamente assiduo, operoso, instancabile; ne’ giorni dei comitati e delle barricate, il suo nome influì più che non sia dato pensarlo ad infonder coraggio nel popolo, a dar credito alla causa della rivolta. Nella sua condotta politica del 1848 un errore gli si può addebitare ed è, diciamolo pure, la troppa debolezza a riguardo di Mariano Stabile. Non che questo insigne [p. 538 modifica]cittadino abbia mai demeritato scientemente del suo paese (sarebbe calunnia l’asserirlo), ma la sua politica non era quella di cui avea d’uopo la Sicilia, e l’esser troppo lungo tempo rimasto al potere ne accrebbe forse le avverse conseguenze. Sarebbe anche da dire sul conto del Settimo com’egli abbia talora chiamato a far parte del gabinetto, alla caduta di alcuni ministri, quei tali che con la loro opposizione gli avevan balzati di seggio; partito di transazione è vero, ma sempre nocivo in ogni epoca e in ogni caso, al quale un governo non deve assolutamente ricorrere, ammenochè poi non voglia cambiar del tutto e da cima a fondo il sistema, ciò che invero non si fece punto in Sicilia.

L’isola di Malta fu la terra d’esilio che raccolse l’illustre emigrato; quivi egli è rimasto per quasi dodici anni circondato dall’amore de’ suoi compatrioti del pari esuli, e confortato dalla ferma fiducia, che in lui non è mai fallita, della definitiva liberazione della patria terra. Quantunque travagliato dai malori della vecchiaja, ogni grido di libertà, ogni sussulto del popolo siciliano, che di quando in quando i telegrafi ed i giornali annunziavano al mondo, lo han fatto trasalire ed hanno accresciuto nel suo cuore l’antica speranza. Un giorno gli si disse che Palermo aveva dato il segnale di nuova insurrezione. Sarà vero? Sarà possibile?

— Garibaldi è sbarcato a Marsala. Fu la risposta ch’ei ricevette. Calatafimi, Palermo, Milazzo convertirono la speranza in deliziosa realtà. In un istante di ebbrezza ei volle correre e partire alla volta di Sicilia; ma il pondo degli anni ed una malattia che da qualche tempo il travagliava l’obbligarono a protrarre il dì del ritorno.

Nella solitudine del suo ritiro, non più esilio oggidì, sono venuti a trovarlo gli onori compartitigli dalla patria risorta. Gli pervenne prima una lettera di Garibaldi, nella quale l’eroe lo invitava a rimpatriare, aggiungendo con isquisitezza di sentimento che la Sicilia libera sentiva ancora un vuoto per l’assenza del proprio Padre; ebbe in seguito una lettera del conte di Cavour, che del pari lo invitava a recarsi in Italia, [p. 539 modifica]ed all’uopo un legno della marina reale veniva messo ai suoi ordini; infine, da parte del re, il collare dell’Annunziata, la nomina a senatore del regno, e l’alto incarico di presidente della Camera del Senato. Onori tutti di cui Sicilia superbì, come se a lei fossero resi. Ruggero Settimo è grande di statura, quantunque ora abbattuto dagli anni; la sua fronte è ampia, dolce e benevolo lo sguardo, bianca la capigliatura; tutto nella sua figura concorre a quella maestà che gli hanno acquistata le sue alte virtù morali.

Ha fatto sempre mostra di coraggio civile nelle difficili occasioni; pieno di una lealtà pari ad ogni elogio, tranquillo nella cattiva e nella buona fortuna, senza ombra di ambizione e solo amante del bene della patria; affabile con tutti e dignitoso, egli è cinto dell’aureola delle antiche virtù in lui rinnovate, e così passerà la sua immagine a traverso la riconoscenza e la memoria del secolo avvenire1.



Note

  1. Andiamo debitori di questa importante biografia alla gentilezza del signor marchese Colonna di Fiumedinisi.