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tirne di guerra, nè tampoco di mezzi estremi; voler tentare il possibile, ma purchè con probabilità o lusinga di riuscita, e senza indurre metà di popolo alle prese con l’altra metà. Si risparmiasse il sangue, se inutilmente o tra i tigli dello stesso paese dovesse versarsi; solo quest’ultimo doloroso caso voler evitare; del resto mettersi a disposizione de’ suoi compatrioti.

E in queste parole egli era sincero, ei parlava col cuore nelle mani; pronto a mettersi alla lesta del comitato generale nel gennajo dell’anno precedente, perchè unanime allora il popolo e con l’avvenire innanzi, ora tentennava ad assumere la dittatura militare perchè lo stesso popolo non era più unanime nella fiducia, ma invece stanco del passato e annichilito dalla reazione, ch’è ancor peggio della primitiva tirannia.

Il voto fu per la pace. Pertanto, non soddisfatto, Ruggero Settimo radunò sull’imbrunire, i rappresentanti della guardia nazionale, e più tardi un’altra riunione ebbe luogo in di lui casa degli uomini i più determinati. In tutte due domandò consiglio sulla via da tenere, quasi fosse pur troppo convinto, ma non ancora persuaso, che bisognava cedere.

Certo fu questa una di quelle occasioni in cui un capo di partigiani, rinomato, audace, incurante di qualunque conseguenza, avrebbe potuto salvare il paese, arrestando i pacifici, passando per le armi i nemici, servendosi di tutto: a male estremo estremi rimedi. Ma da Ruggero Settimo, più che settuagenario, di carattere sovranamente dolce, era quanto poteva chiedere la patria; e della gratitudine di essa fa prova la memoria sempre cara che invariabilmente se ne serba. Si dovette piegare il capo. Ruggero Settimo depose i poteri, ai quali abdicava, in grembo del municipio, tra le lagrime generali, anche di quelli che avevan parlato contro un’ulteriore resistenza, ma che non sapeano sopportare senza pianto il pensiero che la rivoluzione fosse così sventuratamente finita.

I non compresi nell’amnistia e quelli che a patria schiava preferivano libero esilio, imbarcaronsi in pa-