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varsi a calmare le ire intestine. Tacquero tutti consenzienti, o senza il coraggio di dissentire, e disvollero così ciò che avevano prima voluto. Solo Ruggero Settimo si levò, insinuando che, dovendosi fare delle proposizioni al re, passar queste dovessero pel canale del principe vicario.

Infatti si conchiuse dover operare in questo modo, ed il principe disse al proposito a Ruggero Settimo, credendo suo padre del tutto indifferente all’ambizione di regger lo Stato, le seguenti parole: «S. M. di certo non vorrà intender nulla, ed il peggio sarà che non s’indurrà mai a rispondere definitivamente».

Proprio al contrario, Ferdinando rispose subito che accettava la proposta e riprenderebbe il governo; e dello fatto, si recò tosto alla Favorita passando per Palermo, e là congedò i quattro ministri, chiamò a succedervi persone reazionarie e diè ordini interamente contradditori a quanto aveva operato il vicario figlio.

Qui finì la parte che Ruggero Settimo prese agli avvenimenti del 1812 e degli anni successivi. Dopo alcuni mesi, passati al solito in iscompigli di corte ed in disordini parlamentari, il re sciolse le Camere, chiudendo l’adito a qualunque barlume di speranza; poi parti per Messina, d’onde il 51 maggio del 1815 s’imbarcò alla volta di Napoli che aveva riacquistata.

Senza meno, quando mise il piede nella reggia di quella città il vecchio Ferdinando dovette pensare sogghignando alla verità del proverbio «la dura la vince», mercè il quale egli si era fatto giuoco dei baroni, del popolo, dell’Inghilterra, della Francia.

Fortuna per noi che i suoi eredi hanno continuato nello stesso sistema dell’ostinatezza, e che invece, alla resa dei conti, i proverbi non sono poi veri in tutti i tempi.

In questo primo periodo della vita politica Ruggero Settimo si mostrò amico piuttosto e partigiano delle opinioni del principe di Castelnuovo, per eccellenza liberale, anzichè di quelle del principe di Belmonte, anch’egli contrario al dispotismo e alle violenze di casa Borbone, ma meno spinto dell’altro e meno adescato