Il Buddha, Confucio e Lao-Tse/Parte Prima/Capitolo V

V - Metafisica buddhica

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Capitolo V.


Metafisica Buddhica.


§ 1. L’Universo. — §. 2. La Trasmigrazione. — § 3. Origine e natura degli Esseri.


§ I. L’Universo. — Il Buddhismo non conosce creazione; e non pertanto differisce da ogni altro sistema, che, negando com’esso l’esistenza d’un Dio, spiega in qualsiasi altra guisa l’origine e la formazione del mondo e degli esseri viventi. L’infinita intelligenza, la potenza creatrice, l’energia plastica, l’anima universale, la natura, l’ordine, la simmetria, l’amore, il caso, e mille altre parole colle quali si è voluto distinguere, nei vari sistemi, la causa ordinatrice e formatrice del mondo, non potrebbero servire al Buddhismo, il cui sistema cosmologico non ha nulla di comune con quelli.1

«In principio era il Caos» dice Esiodo; e Mosè: «In principio Dio creò il cielo e la terra». Il [p. 138 modifica]Buddhismo ci insegna che non v’è principio. «Quando tu sarai compreso dalla vera scienza, terrai il mondo come senza cominciamento».2 — «Gli esseri», dice Vasumitra, patriarca Buddhico, specie di padre della Chiesa, «non furono creati; nè da Dio (Içvara), nè dallo Spirito (Purusha), nè dalla Materia (Pradhâna). Se Dio, o un altro principio come lo Spirito o la Materia, fosse stato la sola causa che produsse il mondo, farebbe d’uopo, per il solo fatto della esistenza di questa causa, che l’universo fosse stato creato nella sua totalità in una sola volta; imperocchè, non può ammettersi l’esistenza di una causa, senza il relativo suo effetto. Ma noi vediamo invece gli esseri nascere l’uno dall’altro; venire chi da una matrice, chi da un seme o da un germe; donde è forza concludere, che v’è una serie consecutiva di cause, e che Dio non è la causa sola ed unica. Ma, si dirà, questa serie svariata di cause è la conseguenza del volere di Dio; il quale stabilì che un Essere debba oggi prodursi per mezzo d’un altro: in tal modo si spiega questa consecutiva serie di esseri, è si conosce come Dio sia in realtà la causa di quella. A ciò è da rispondere, che bisogna allora di necessità ammettere in Dio tanti atti volitivi, quanti a lui piacciono; e questi atti della divina volontà essendo altrettante cause, ne consegue una moltiplicità di cause, che contraddice la prima supposizione d’una causa unica. Di più, questa moltiplicità di cause non può essere apparsa che solo per una volta, perchè Dio, come sorgente d’una stabilita attività volitiva, è uno e indivisibile. Qui si solleverebbe ancora la sopra [p. 139 modifica]menzionata obiezione, che si dovrebbe cioè ammettere che il mondo fosse stato una volta creato. Ma il figlio di Çâkya (il Buddha) tiene fermamente questo principio, che le vicissitudini cosmiche, e la vita mondiale, non hanno avuto giammai cominciamento».3

Un passo decisivo contro l’ipotesi d’un creatore, dice Max Müller, è uno tolto dal Brahma jâla sûtra, il primo nel Dîrgha nikâya, che è a sua volta la prima opera del Sûtra pitaka, o della collezione dei Sûtra.4 In esso libro il Buddha parla intorno a diciotto differenti sètte; fra le quali una è descritta come credente nell’esistenza d’un creatore; ed è contro la fede di quella che egli porta i suoi argomenti. «Verrà un tempo, o Bikshu, egli dice, che dopo un lunghissimo corso di secoli, questo mondo sarà distrutto. — Dopo la distruzione del mondo, voi sapete che molti esseri ottengono l’esistenza nell’Abhâsvara brahmalôka, che è il sesto nella serie (dei Brahmalôka), e nel quale la vita si continua per otto kalpa. Quivi sono esseri spirituali, con corpi puri, incontaminati da cattive passioni; essi hanno piaceri intellettuali, risplendono di per sè stessi, traversano l’aria senza impedimento, e rimangono per molto tempo immersi nella felicità. Passato un altro gran numero di secoli anche questo mondo, detto Abhâsvara, si riproduce, e ne esce fuori il mondo chiamato Brahma-vimâna (il 3.° Brahmalôka).5 — Ora, in un tempo remoto, quando il nuovo mondo [p. 140 modifica]Brahma-vimâna si era appena formato, un Essere, sia perchè il termine della sua esistenza nell’Abhâsvara fosse arrivato, o perchè, venutigli meno i meriti, non gli fosse concesso di compiervi il corso della sua esistenza, fatto sta che cessò di vivere nel Abhâsvara, e rinacque nel Brahma-vimâna, che era tuttavia inabitato. Quivi esisteva come un ente spirituale: i suoi piaceri erano intellettuali: era risplendente, si librava nell’aria, e, per molto tempo, gioì d’una continuata felicità. Dopo molti e molti anni, che egli aveva vissuto così in solitudine, gli prese forte desiderio d’avere un compagno, e disse: Vorrei che un’altra creatura abitasse pure essa in questo mondo. — Il caso fece che un Essere terminasse la sua esistenza nel Abhâsvara, e andasse appunto ad abitare nel Brahma-vimâna, in vicinanza del primo. Tutti e due erano spirituali, aveano piaceri intellettivi, si libravano nell’aria, e godevano felicità. Quando i seguenti pensieri nacquero nella mente di colui che fu il primo ad abitare il Brahmalôka: Io sono Brahman, si disse egli, il gran Brahman, il supremo, l’invincibile, l’onnisciente, il governatore di tutte le cose, il signore di tutto. Io sono il fattore, il creatore del mondo, io sono il capo, l’ordinatore, il regolatore, il padre dell’universo. Quest’Essere che qui venne è stato fatto da me. Ecco ch’io dissi: vorrei che un’altra creatura venisse in questo luogo; e col solo atto della mia volontà essa è venuta. D’altra parte, l’Essere nuovo venuto, e gli altri che vennero poi, pensavano fra se stessi: Questi è Brahman, il gran Brahman, il supremo, l’invincibile, l’onnisciente, il regolatore, il creatore di tutto. Egli è il capo, l’ordinatore di tutte le cose, il padre dell’universo. Noi siamo creati da lui, perchè egli qui fu il [p. 141 modifica]primo, e noi ottenemmo dopo di lui l’esistenza. Di più, questi, che fu il primo ad esistere, vive da gran tempo, ed è superiore a noi in bellezza e in possanza; mentre noi che lo seguimmo, siamo di breve vita, inferiori in bellezza, e di piccola possanza. — Ora avvenne, che uno di questi enti cessò d’esistere nel Brahma-vimâna, e nacque in questo mondo. Egli si ritirò dalla società, e diventò un religioso: un sant’uomo, che domava le passioni, ed esercitava la virtù; tuttavia ripeteva, che Brahman è il grande, il supremo, l’invincibile, l’onnisciente, il regolatore, il signore, il fattore, il creatore di tutto. Che egli, Brahman, dal quale noi veniamo e siamo creati, è eterno, immutabile; ma noi creati da quest’almo Brahman, da questo sapiente Brahman, siamo mutabili, mortali, effimeri».6

Non è questo il solo luogo delle Scritture, dove si cerca di spogliare d’ogni potere la suprema divinità brahmanica. — Gâutama nella disputa che ebbe con gli altri filosofi, combattè sempre il concetto d’un Essere supremo, propugnando una dottrina assolutamente ateistica.7 — Un sûtra, il quale, benchè appartenente alla scuola del Mahâyâna, riflette assai bene le idee del buddhismo antico, è quasi tutto destinato a persuadere lo stesso Brahman, che lui, nè altri, può esser creatore del [p. 142 modifica]mondo. Questa scrittura è di quelle di cui s’è perduto l’originale sanscrito; e che si conserva solamente nella traduzione tibetana, fra i libri del Kangyur. — Porta il titolo di Loto candido della gran compassione, e fu esaminata dallo Csoma Kőrösi,8 e tradotta in gran parte dal Feer.9 — L’autore del sûtra ha finto di riportare l’ultimo discorso di Çâkyamuni; e il fatto procede a questo modo. — Il Buddha è per entrar nel nirvâna. Una specie di languore generale sembra regnare per tutta la terra; l’energia vitale pare assopita, assopiti i dolori degli uomini. Questo languore e quest’assopimento penetra per tutte le parti dell’universo, fino al più alto de’ cieli. Brahman si maraviglia dello strano fenomeno, e si domanda, se non fosse più, per caso, il reggitore del mondo. Viene a sapere allora che un saggio è per entrare nel nirvâna, e gli vien vaghezza di recarsi a lui. Ci va, e si mette a conversar lungamente col Buddha. Questi comincia a dirigere a Brahman un gran numero d’interrogazioni. Gli nomina i cieli, gli astri, la terra, le piante, gli animali, gli Esseri d’ogni specie, le azioni e le passioni degli uomini, i mali, i beni, le virtù, i vizi; e via via gli domanda se egli si crede davvero, il creatore, l’ordinatore, il rettore di tutte quelle cose. Brahman, non so perchè, e il sûtra non lo dice, forse preso così all’impensata, risponde sempre di no; come un fanciullo che ha paura di confessare qualche cattiveria. Allora il Buddha gli espone le cose come veramente stanno; cioè gli spiega come egli creda che nascano l’infinito numero di forme, di figure, di fenomeni che compongono questa eterna fantasmagoria che è il [p. 143 modifica]mondo. Il discorso che fa, e che si potrà leggere nella citata traduzione francese, non è forse privo, per noi, d’una certa oscurità; ma basta, e questo è quel che conta, a persuadere interamente Brahman; il quale rinunzia da sè stesso al grado di creatore, e di Essere supremo. Il Buddha allora per rimunerarlo di quella sua squisita compiacenza, e per compensarlo in certo modo della perduta dignità, gli affida l’incarico, sempre onorevole, di sorvegliare che il mondo vada esattamente a seconda di quelle leggi, che egli, Buddha, aveva fissate. Se il sûtra non fosse scritto con quella gravità e serietà di stile, che si addice a un trattato religioso, ci sarebbe da prenderlo per una satira, abbastanza curiosa, lanciata alla divinità massima dei brâhmani.

Abbiamo visto in altro luogo, in che gran numero di sètte si fosse andata suddividendo la religione buddhica; e quanta fosse la libertà che avevano di elaborare le loro dottrine, senza che un’autorità ecclesiastica lo impedisse. Le abbiamo enumerate, secondo che si distinguevano più specialmente per la differenza della disciplina e della morale; e ora dovremmo considerarle nella varietà de’ loro insegnamenti filosofici. Ma oltre che quest’esame ci occuperebbe troppo, dovendo in altro luogo tornare a parlare di tale oggetto, noi qui non ne diremo che brevissime parole. L’intero sistema speculativo dei buddhisti, si comprende in quattro scuole principali, Svâbhâvika, Aiçvarika, Yâtnika e Kârmika, che pigliano il nome dalle opinioni che vi prevalgono, e si suddividono poi in molte altre scuole secondarie. — L’aver preso come credenza de’ buddhisti in generale, alcune dottrine particolari all’una o all’altra di queste scuole, ha indotto a molte erronee conseguenze intorno all’indole della religione di Çâkyamuni. Fra queste sètte, come diremo [p. 144 modifica]fra poco, ve ne sono di quelle che affermano cose diametralmente opposte alla dottrina primitiva, almeno per quel che tocca alla filosofia, e non possono, perciò esser tenute come la espressioue genuina dell’antica legge di Gâutama.

La Svâbhâvika è la più antica scuola filosofica uscita dal Buddhismo. Riguarda la materia come la sola cosa esistente; e crede che l’universo si regoli di per sè stesso, in virtù di certe leggi, che governano le forze inerenti alla materia stessa. Le scuole Kârmika e Yâtnika ammettono invece che l’universo sia retto, secondo la prima, da Karma o agente morale, secondo l’altra da Yâtna, o agente intellettuale; e in fondo non differiscono dalla Svâbhâvika se non nel nome che danno alle leggi che regolano la vita della materia in tutte le sue forme; essendo la metafisica quasi uguale in tutte e tre queste sètte. La scuola che porta il nome ai Aiçvarika, s’è allontanata assai più da’ primi insegnamenti; e ammette, contrariamente alle credenze di tutte le altre scuole filosofiche, un’essenza immateriale e una divinità suprema, infinita ed esistente di per sè stessa, che è chiamata Içvara o Adi-Buddha. — D’alcune dottrine speciali a queste scuole ne parleremo nel capitolo seguente; quel che ora m’importa esporre è la filosofia buddhica, che più generalmente rappresenta l’antico pensiero de’ primi discepoli di Çâkyamuni. Ma per giudicar meglio il sistema che stiamo esaminando, non è inutile, innanzi, spendere poche parole intorno a due de’ principali sistemi di filosofia indiana, il Vêdânta cioè e il Sânkhya.

Secondo la filosofia Vêdânta, Brahman o Atman (anima) o Paranâtman (anima primordiale) è uno, eterno, increato, esistente di per sè stesso. Egli è incorporeo e si manifesta in ciò che è corporeo; egli è privo di forma [p. 145 modifica]e appare in tutte le forme. Da lui provengono i due corpi, quello formato di materia sottile, e l’altro di materia rozza; i quali corpi, al dire del sistema nominato, rivestono lo spirito.10 Le anime degli individui, dèi, uomini, demoni, bestie, sono increate; non formano che un essere con Brahman, e non sono che una parte dell’anima cosmica, dalla quale provengono, come la luce proviene dal sole. La miscela degli elementi, le immagini naturali, le forme degli esseri di questo mondo, si compongono e si disfanno, appaiono e scompaiono, come le onde sulla superficie di un mare agitato; a dimostrare quanto tutto sia vano e passeggiero. Brahman solo è l’essere uno, vero, invariabile; il mondo non è che un’illusione. Al di fuori di Brahman nulla è reale.11

In quanto alla filosofia Sânkhya, di cui Kapila, che può essere considerato come il precursore del Buddha,12 fu il fondatore, ecco in poche parole quali ne sono i principii. — Due sono i fattori ammessi da questa filosofia, la Natura o la Materia (Prakriti, Pradhâna ecc.), e l’Anima (Purusha): entrambi eterni e increati. La Natura creatrice genera l’intelligenza (Manat o Buddhi), da questa proviene l’Essere conscio, [p. 146 modifica]o l’individualità (Ahankâra). L’individualità si fa manifesta, tanto pei cinque elementi primitivi (Tanmâtra) cioè udito, gusto, tatto, vista e odorato; quanto per gli undici organi, cinque dei quali detti organi della percezione, e sono l’occhio, il naso, l’orecchio, la lingua, e la cute, cinque organi dell’azione, e sono l’apparecchio vocale, le mani, i piedi, gli organi, digestivi e gli organi della generazione, e finalmente l’organo interno, (Manas), che è l’organo del pensiero e dell’azione. Dai cinque Tanmâtra, o elementi primitivi, provengono i cinque elementi rozzi etere, aria, fuoco, acqua, terra. Tutti questi elementi, che vengono chiamati principii della natura, sono dai due fattori suddetti, in guise diversissime, modificati e composti. L’anima cosmica, l’anima universale, non è riconosciuta nè ammessa dal Sânkhya. Ma questo sistema ammette invece una infinità di anime individuali, le quali, sin dal principio della creazione furono sparse per la natura, e a quella unite. Il loro primo inviluppo è il corpo primitivo (Linga o Linga-Çarîra), che si compone della Buddhi, di Ahankâra, di Manas, dei dieci organi e dei cinque elementi primitivi; il secondo è il corpo materiale, ed è costituito dei cinque elementi rozzi. Il primo accompagna l’anima sin dal principio, per l’intiero circolo della trasmigrazione; l’altro vien rivestito degli individui a ogni loro rinascimento, ed è generato dal padre e dalla madre.13 Torniamo ora alla filosofia buddhica.

Secondo essa la materia non ebbe principio; esiste dall’eternità; e la sua organizzazione, e tutti i cangiamenti a cui va soggetta sono regolati da alcune leggi (l’assieme delle quali è detto Dharma) coesistenti colla [p. 147 modifica]materia stessa.14 Materia e Dharma esistono di per sè stessi; sono increati, e indipendenti dall’azione e dalla direzione; di qualsivoglia Essere superiore o divino.15 Appena per l’effetto di queste leggi della natura si va formando un mondo, un’altra potenza, che è chiamata Karma, prende a regolarlo e dirigerlo, tanto fisicamente quanto moralmente.16 Questa potenza che abbiamo nominato Karma, con parola che vuol dire propriamente azione, è la espressione delle leggi della natura, che si manifesta nella operazione creatrice; è ciò che regola l’evoluzione o il destino degli Esseri, che stabilisce qual forma deve rivestire l’individuo: se cioè deve egli nascer verme, insetto, pesce, uccello, belva, uomo, demonio, dêva, o brahmano. E se egli nasce uomo, è parimente Karma che destina se debba esser maschio o femmina, monarca o suddito, bello o brutto, ricco o povero.17 Ma nessuno, nemmeno il Buddha, può dirci in qual modo e per quali [p. 148 modifica]vie, il Karma procede nelle sue operazioni, o come la serie delle esistenze sia incominciata. Per un buddhista è tanto assurdo il domandare in qual parte dell’albero esiste il frutto prima che il fiore lo abbia prodotto, quanta il domandare dove trovasi il Karma innanzi che abbia incominciato a esercitare la sua potenza.18 Il Buddhismo, conclude lo Spence Hardy, stimando Karma come supremo regolatore dell’universo, è un sistema ateistico; egli ignora l’esistenza d’una divinità intelligente e personale.19 Quando fra poco parleremo della metempsicosi, vedendo infatti l’efficacia che Karma ha nella vita degli esseri, conosceremo meglio la verità di questa asserzione.

Tutto ciò che esiste si comprende in due parti; quel che è destinato a trasformarsi obbedendo al principio della mutabilità, come la materia, le sue modificazioni e tutti gli esseri i quali hanno una causa; e quel che è eterno, immutabile, come la Legge e il Nirvâna. I quali non hanno causa, sono esistenti di per sè stessi, eterni, e capaci di condurre al di fuori di ciò ch’è cagione di mutabilità.20

Rinunziando i Buddhisti all’idea d’un creatore, e, come abbiam visto, d’una causa qualunque, che abbia dato principio alle cose; essi non hanno Genesi, mancano di Cosmogonia. La loro scienza del mondo non si riduce pertanto che ad una descrizione dell’universo, ad una [p. 149 modifica]semplice Cosmologia; secondo la quale esso è concepito nel modo che ora siamo per esporre.

Quattro cose, dicono i Buddhisti, sono incommensurabili, la sapienza del Buddha, lo spazio, la quantità degli esseri viventi e il numero dei mondi. — Il numero dei corpi che popolano lo spazio è incalcolabile. Supponete, ci dicono alcuni libri canonici, che una estensione di cielo, la quale potesse contenere mille milioni di pianeti e di stelle, fosse circondata da un’immensa muraglia, e che così fatto mostruoso granaio venisse ripieno di granelli di senape; il numero di quei granellini non equivarrebbe al numero dei mondi che esistono.21 — I corpi celesti, secondo questa cosmologia, sono aggruppati in sistemi, ciascuno dei quali ha il suo sole, la sua terra, la sua luna. Il numero di questi sistemi è pure incalcolabile. La porzione di spazio celeste che può essere illuminata da ciascun sole, si chiama Cakravâla, e abbraccia tutte le parti di un universo o mondo Buddhico. Queste regioni del cielo, Cakravâla, sono pur esse incalcolabili, perchè incalcolabile è il numero dei soli, destinati a irradiare della loro luce altrettanti sistemi cosmici.22 Lo spazio è conseguentemente infinito, essendo destinato a contenere infinito numero di mondi e infinito numero di Cakravâla, riunioni di mondi.23

L’universo è diviso in Cielo, Inferno, Terra e Nirvâna.24 E gli esseri sono sparsi o pel Cielo, o sulla Terra, o nell’Inferno; trasmigrando a vicenda dall’uno all’altro luogo, a seconda delle loro azioni. Il Nirvâna è [p. 150 modifica]destinato a coloro, i quali avendo percorso il cammino indicato dalla legge del Buddha, si sono resi degni della suprema felicità, che consiste nell’uscire dall’oceano della vita. Il Cielo, la Terra, l’Inferno, rappresentano i luoghi, dove questa vita si manifesta sotto tutti gli aspetti, sotto tutte le forme; dove animali, uomini, demonii, dèi, lanciati nel vortice della trasmigrazione, sono trascinati di forma in forma, d’esistenza in esistenza, di mondo in mondo, con un avvicendarsi eterno, con un eterno divenire. Il Nirvâna è l’opposto dell’essere, l’opposto del divenire, l’opposto del trasmutare. Donde la divisione, che abbiamo poco sopra accennata; la quale consiste in distinguere tutto quel che esiste in due parti: ciò che è destinato ad obbedire al principio della mutabilità, come il Cielo, la Terra, l’Inferno, e gli esseri; e quello che è eternamente immutabile come il Dharma e il Nirvâna. Il Dharma, nel tempo stesso che è la natura propria dell’Essere, o quello che fa che una cosa sia ciò che è in realtà, è anche la via che può condurre al Nirvâna, ossia fuori di ciò che obbedisce al principio della mutabilità. Imperocchè il Dharma è stato rivelato agli uomini dal Buddha per mezzo delle Quattro verità, che formano il fondamento della dottrina di lui; le quali, studiate e comprese, conducono alla conoscenza della vera e reale natura dell’universo: scienza che ha per premio d’esser tolti per sempre da quel mondo, di cui siamo giunti a conoscere la vanità.

Ecco come è disposto un universo Buddhico. Alla base di ciascun Cakravâla, è uno spazio vacuo. Al disopra di quello è il mondo acqueo, e sopra questo, la terra. La terra è composta di due strati, uno formato di rocce, e l’altro di creta molle. Sotto la superficie della terra, v’ è una sostanza nutritiva simile al miele vergine. Nel [p. 151 modifica]mezzo della terra si innalza un gran monte, chiamato Mahâ-mêru o Sumêru; e tra questo monte e le rocce che segnano i limiti della superficie terrestre, vi sono otto circoli concentrici di scogli, come otto catene di montagne, i quali contengono i mari. La profondità di questi mari è diversa; e decresce dal monte Meru all’ultimo di que’ gironi, dove il mare non ha che un pollice di profondità.25 Il sole, la luna e le stelle si aggirano in circoli paralleli intorno al monte Meru, alla vetta del quale v’è il cielo detto Tushîta.26 L’inferno è al centro della terra.27

Il Cielo, composto del Dêva-lôka e Brahma-lêka, Terra e l’Inferno, sono suddivisi in altri mondi o regioni, che sono altrettante sedi di varie specie di esseri, o meglio di varie specie di esistenze. Cominciamo dallo Inferno, che è il più basso in questa immensa scala di mondi. Egli è composto di quattro regioni. La 1.a e la più profonda, si chiama Nyâya, o inferno propriamente detto; è posta nel centro del nostro pianeta, ed è divisa in otto Naraka o luoghi di pena, che sono: Sanjiva, Kâlasûtra, Samghâta, Râurava, Mahâ-râurava, Tapana, Pratâpana e Avîci.28 La 2.a regione è quella del dominio degli animali: la 3.a è il dominio di certi mostri o fantasmi chiamati Prêta; la 4.a quello di certe altre creature fantastiche dette Asura. E queste quattro regioni sono abitate dagli esseri che subiscono il gastigo delle cattive azioni, che fecero nella vita passata. — Dopo l’Inferno viene la Terra; essa è il dominio dell’uomo. I viventi [p. 152 modifica]che la occupano sono dotati di libertà d’azione; essi possono acquistarsi meriti o demeriti, darsi alla virtù o al vizio. È per gli abitanti della terra, è per l’uomo che il Buddha ha rivelato la sua Legge; appunto per la libertà che l’uomo ha di riconoscere e comprendere la verità, e di operare virtuosamente. Gli abitanti del Cielo; o dell’Inferno non sono che enti passivi, che soffrono o godono, a cagion delle opere che fecero quando erano uomini sulla Terra. Essi cesseranno d’essere abitatori del Cielo o dell’Inferno, arrivato che sarà il termine delle loro ricompense e delle loro pene, per rinascere di nuovo sulla Terra, in questo luogo di prova, fino a che, passando d’espiazione in espiazione, si sieno resi degni del Nirvâna.

Il Cielo, o per dir meglio i Cieli, sono detti Dêvalôka, abitazione degli Dei. Sono sei, e si chiamano: 1. Catur-mahârâja-kâyika, 2. Trayastrimça, 3. Yâma, 4. Tushita, che è alla sommità del monte Meru, 5. Nirmânarati, 6. Paranirmita-vaçavartin. — Al disopra di tutto questo sistema v’è un altro mondo, detto Brahmalôka, o il mondo della sapienza; il quale si divide in Rûpa Brahma-lôka, e Brahma-lôka.29 Sono mondi ai quali l’uomo non può giungere se non con la mente, per via della meditazione e della contemplazione. Ivi i piaceri sono tutti intellettuali. Solo lo spirito, come rapito in una continua estasi, è capace di assaporare le gioie che vi si godono: il corpo è dimenticato, e negletto; reso inutile, perchè nulla in quel mondo è atto a destare godimenti sensuali. Il Rûpa Brahma-lôka si divide in quattro regioni, alle quali gli esseri possono [p. 153 modifica]innalzarsi per via dei quattro Dhyâna o gradi di contemplazione.30 L’Arûpa Brahma-lôka si divide in altre quattro regioni; gli esseri dell’ultima di queste sono in uno stato, che non gli rende nè completamente consci di loro stessi, nè affatto inconsci. È l’ultimo dei mondi spirituali, o meglio degli stati della mente, ed è il più prossimo al Nirvâna.31 — Non è ha credere che questi mondi siano abitati dalle nude anime degli uomini, imperocchè, come vedremo fra poco trattando della natura degli esseri, l’anima umana non può vivere separata dal corpo; ma piuttosto rappresentano, come dicemmo, quello stato di estasi, nel quale si trova colui che dopo lunghe meditazioni e lungo studio, è giunto a dimenticare il proprio corpo materiale, uccidendo i bisogni e i piaceri sensuali, e vivendo della pura vita della mente e dello spirito.

Tutto questo sistema cosmico non è eterno. Noi lo abbiamo già detto, niente è eterno nel mondo se non il Dharma e il Nirvâna. La Terra, i Dêva-lôka e l’Inferno, tutto l’intiero Cakravâla insomma, vien alternativamente [p. 154 modifica]distrutto e di nuovo formato, per una serie continua, di rivoluzioni, il principio e il termine delle quali non è dato scoprire: così fu, e così sarà per sempre. Vi sono tre modi di distruzione. I Cakravâla sono distrutti otto volte per mezzo dell’acqua, e sei volte per mezzo del fuoco. Ogni sessantesimaquarta distruzione accade per mezzo del vento. — Quando la distruzione si opera per mezzo del fuoco, dal tempo in cui il fuoco comincia, fino al tempo della distruzione totale, scorrono 20 Antara kalpa. Questo periodo è chiamato Sanvartta asankhya kalpa. — Dal tempo nel quale il fuoco ha cessato, al cadere della gran pioggia, per mezzo della quale, come vedremo, è formato il nuovo mondo, scorrono altri 20 Antara kalpa. E questo periodo è chiamato Sanvarttastâyi asankhya kalpa. — Dal primo cadere di questa pioggia generatrice, alla perfetta formazione del mondo, è necessario un tempo di altri 20 Antara kalpa; i quali fanno il periodo detto Vivartta asankhya Kalpa.32 La distruzione e la rinnovazione dell’universo, non si fa dunque per cataclismi; ma l’opera distruggitrice procede lenta per milioni e milioni di anni; e milioni e milioni di secoli vi vogliono poi alla formazione del nuovo universo, e alla organizzazione di nuovi esseri. — Ecco come avviene la formazione del mondo. Una pioggia incessante cade con straordinaria veemenza nello spazio, dove era l’universo distrutto dal fuoco. Nello stesso tempo un forte vento spira violentemente nella direzione opposta alla pioggia cadente, accumulando l’acqua e definendone i limiti, fino a che l’intero spazio sia ripieno. Le prime ad apparire sono le regioni inferiori del Brahma-lôka, e il Dêva-lôka, che occupano il luogo di quelle che già furono; e sono le [p. 155 modifica]prime ad essere abitate. Gli esseri delle regioni superiori del Brahma-lôka, che hanno terminato la loro esistenza in quei mondi, discendono, come si allude nel brano riportato in principio di questo capitolo, nel nuovo Brahmalôka formatosi, mentre altri vanno ad abitare il Dêvalôka. Intanto le acque cominciano a depositare un sedimento; il quale va crescendo per la evaporazione, a cagion del vento, che non cessa di soffiare, se non quando la materia depositata dall’acqua ha preso la forma del nostro pianeta. Allora gli esseri cominciano a discendere dal Brahma-lôka, per rinascere sulla Terra, che vien così successivamente a popolarsi. La terra riposa sull’acqua, l’acqua sull’aria, e l’aria sul vuoto.33

§ II. Trasmigrazione. — La metempsicosi, o meglio trasmigrazione, è uno dei dommi fondamentali del Buddhismo. Molte delle dottrine di questo sistema, e molti passi delle scritture Buddhiche non sarebbero intelligibili, senza avere sempre presente alla mente questa credenza. Ella è comune coi Brahmani, e ne troviamo esposta la teoria nelle leggi di Manu.34 Una differenza notevole è però da osservarsi tra la metempsicosi, come la intende la Vecchia religione indiana, e la metempsicosi Buddhica, alla quale meglio converrebbe il nome di metamorfosi. Pei Brahmani, l’anima dell’Essere, la quale non è che una parte dell’anima universale, riveste corpi diversi per varie esistenze; fino a che, purgata per le sue innumerevoli trasmigrazioni per tutte le forme del creato, è ricondotta alla essenza suprema, dalla quale fu tolta. In quella, l’Essere si confonde come una goccia d’acqua che cade nell’oceano, perde la sua individualità, e forma [p. 156 modifica]un tutto con la divina sostanza di Brahman. — Anche Pitagora pensava che lo spirito, dopo la morte del corpo ne occupasse e ne animasse un altro.35 — La metempsicosi buddhica non è pertanto la trasmigrazione dell’anima o dello spirito per diversi corpi, come credevano i Brahmani e i Pitagorici. Il Buddhismo al contrario afferma, che alla morte, lo spirito perisce col corpo; ma dalla completa dissoluzione dell’individuo nasce un altro Essere, che sarà animale, uomo o dêva, secondo i meriti o i demeriti ch’egli ha, cioè secondo le azioni che ha fatte nella vita passata. Al dire dei Buddhisti, la trasmigrazione è dunque cagionata e regolata dalla efficacia dei meriti o dei demeriti, la quale ha nome Karma; ma questa efficacia è di tal natura, che un Essere, il quale è arrivato al termine, del suo vivere, non trasmette nulla della sua entità all’individuo immediatamente riprodotto per cagion sua. Quest’ultimo è un Essere distinto, indipendente dal primo; creato, è vero, dall’influenza dei meriti o demeriti dell’ultimo, ma non avente nulla di comune con lui. Il Karma, o l’influenza dei meriti e dei demeriti, produce le creature, in quella guisa appunto che i frutti, i quali possono essere buoni o cattivi, producono alberi totalmente distinti gli uni dagli altri.36 Il Buddha spiega la dottrina della trasmigrazione per mezzo d’una similitudine, e dice: «Una lampada può essere accesa per mezzo, di un’altra; entrambe accese, appariranno distinte, ma la seconda ha la sua luce dalla prima, e senza quella non si sarebbe potuta accendere. L’albero produce il frutto, e dal frutto nasce un altro albero, e così via. L’ultimo albero non è pertanto lo [p. 157 modifica]stesso albero, ma una conseguenza del primo; cosicchè se il primo non fosse stato, nemmen l’ultimo potrebbe essere. L’uomo è l’albero; le sue azioni sono il frutto; e la forza vitale del frutto è il desiderio. Le buone e cattive opere danno la qualità al frutto; per modo che l’esistenza, che da queste opere ne vien fuori, sarà felice o infelice; imperocchè le qualità del frutto hanno azione sulla pianta, che nasce da quello». — Così, secondo questa teoria, le anime de’ viventi non ebbero già una esistenza in altre forme organizzate: ma sibbene, un primo Essere, sotto il dominio della passione e del desiderio, fece buone o cattive azioni, in conseguenza delle quali, dopo la morte di quello, si produsse un nuovo corpo e una nuova anima.37 Ciò che trasmigra non è, in somma, lo spirito, l’anima, l’Io, ma sibbene la condotta e il carattere dell’uomo. L’universo vivente è perciò creato dalle opere dei suoi abitatori; esso ne è l’effetto.

Questa differenza che si riscontra fra la trasmigrazione Buddhica e la Brahmanica, è una conseguenza della diversa dottrina intorno agli esseri e al mondo, che è propria a’ due sistemi. Lo spirito o l’anima non è pei Buddhisti qualcosa di indipendente dal corpo, che possa, al dissolversi di quello, andare a suscitare la vita in altro corpo mortale. L’anima, lo spirito, la mente non è che un sesto senso, Manas, che sta nel cuore; e le operazioni di esso si fanno come quelle di qualunque altro organo dei sensi: è un resultato, una conseguenza dell’organismo animale; e deve sparire coll’organismo stesso. Solamente, quando la materia, in virtù del Karma, si riorganizza in un’altra creatura, l’anima riappare con tutte le operazioni che le sono proprie: donde la [p. 158 modifica]differenza fra la Metempsicosi propriamente detta, quale la intendono i Brahmani e i Pitagorici, e la trasmigrazione buddhica. Il modo col quale termina la serie infinita delle incarnazioni o dei rinascimenti, è esso pure diverso, perchè diversissime sono le idee teologiche e cosmologiche delie due sopra dette religioni. I Brahmani, che riguardano l’universo come un’emanazione di Brahman, cessato il trasmigrare dell’anima, riconducono questa a Brahman, da dove si partì; ed ogni Essere assorbito in Brahman, perde la sua individualità, il suo Io. Il Buddhismo che non ammette questa divina sostanza, quest’anima cosmica, che non conosce un Dio eterno, creatore del mondo, e che per di più considera ogni Specie di vita, quella pur degli Dei, come infelice; non può ricondurre il vivente (dopo che miriadi di rinascimenti consecutivi lo resero degno d’uscire dal circolo della trasmigrazione) nel seno di un’anima universale dal quale venne come distaccato: nè può dargli una esistenza individuale, eterna, divina. L’anima, o quella parte dell’individuo che percepisce, pensa e ragiona, essendo secondo la metafisica buddhica, intimamente legata all’organismo, non è capace dopo la morte, d’avere esistenza propria, nè di rivestire un corpo incorruttibile atto a godere o soffrire in eterno. Essa si perde col disfarsi del corpo; e l’unica suprema felicità del seguace di Çâkyamuni, è quella che dalla distruzione del suo Essere non ne nasca un altro, ma che si termini in lui la sequela delle trasmigrazioni. L’individualità, l’Io del Buddhista si perde nel Nirvâna, che è l’opposto d’ogni specie di esistenza, ossia nel Nulla assoluto; come l’Io del Brahmano si perde in Brahman.38 [p. 159 modifica]

Quale è la causa della trasmigrazione? Per qual ragione soggiacciono gli esseri a questa legge ineluttabile, alla quale sono dannati? — Perchè gli esseri sono impuri e ripieni di peccato, rispondono le scritture Buddhiche. — E da dove è venuto in essi il peccato? — L’uomo, dicono esse scritture, da che apparve su questa terra, lasciossi guidar dai suoi desiderii, e corse dietro al piacere; così che accese in sè stesso le cattive passioni, la concupiscenza, l’odio, l’avarizia, e cadde in ogni specie di sensualità, e fece il male. — Ma come fu egli possibile? Come potevano gli uomini immergersi nella sensualità e nel peccato, senza che essi non vi fossero proclivi? — Tutte le creature hanno una tale inclinazione, rispondono i buddhisti, la quale viene dal peccato che hanno in sè stesse, non ancora estinto, e che portano seco nel mondo dove elle nascono. Il peccato, nel mondo presente, è la conseguenza, la continuazione del peccato che viene da un mondo anteriore, e così via all’infinito.39 Non domandiamo però da dove venne il primo peccato, e qual fu. Le scritture buddhiche non ne dicono assolutamente nulla. Esse trasportano questo peccato originale, sempre respingendolo nel più remoto passato, nel più lontano dei mondi che precedettero il mondo presente; ma dove e perchè fu commesso, tacciono. E se anche avessero risposto, a modo d’esempio, che l’uomo è condannato alla trasmigrazione, perchè al principiare dei secoli disubbidì a un comando di Dio, sarebbe sempre rimasto a sapersi per qual ragione disubbidì.

Un’altra domanda ci verrà fatto di dirigere ai Buddhisti. L’uomo condannato a questa serie di rinascimenti, sa egli, alla sua morte, il destino che lo attende? Può [p. 160 modifica]arguire dalle opere che egli, ha fatte nella vita presente, se la sua esistenza futura sarà più felice o più infelice della passata? No, il Buddhista è incerto del suo destino. Nessuno può dire a quale stato o a qual modo di Essere lo serbi, nel suo prossimo rinascimento, il Karma che egli ha in sè, o la forza dei meriti e dei demeriti che lo domina. Quantunque la sua vita possa essere stata quella d’un uomo virtuoso, egli può avere molti peccati e molti delitti, commessi in una esistenza passata e non ancora espiati, e che dovrà conseguentemente espiare nella sua esistenza futura. Evvi una ricompensa finale pei buoni, ma dopo lunghe e continuate esistenze. Le azioni malvage, simili a certi mali fisici, sono ereditarie, si continuano per molte generazioni di viventi, nessuno dei quali può avere la certezza di esserne compiutamente liberato. Il Buddhista deve perciò morire senza speranza.40 Ma se egli muore senza speranza, muore ancora senza il timore di eterni tormenti, se anche le sue malvage opere lo facessero nascere fra i dannati all’Inferno. Imperocchè alla legge del continuo alternarsi della vita e della morte, della distruzione e del rinascimento non sfugge nè il Cielo nè l’Inferno. Niente è eterno se non il Nulla, e le leggi che governano la materia; ma ogni mondo, ogni essere, pianta, animale, uomo o Dio, soggiace al principio della mutabilità. Il Cielo, co’ suoi dèi, l’Inferno co’ suoi demonii, dovrà perire come la terra, come la terra trasformarsi. Non v’è eternità di ricompense nè di pene. La stabilità non esiste se non fuori del circolo delle esistenze, nel Nirvâna.

§ III. Origine e natura degli Esseri. — L’ignoranza è il primo termine nella genesi degli esseri; essa [p. 161 modifica]è l’origine della vita e della trasmigrazione.41 Perciò i filosofi buddhici, come rimedio a questo primo male, causa di tutti gli altri, origine di quella infelicità, della quale Çâkyamuni ha trovato pieno il mondo vivente, proclamano altamente, che il più importante oggetto della meditazione del saggio deve essere lo studio d’ogni Essere in generale, e quello dell’uomo in particolare. Questa conoscenza dell’uomo è la più eminente e nobile parte della scienza; e fa diventare perfetto colui che l’acquista, e meritevole del Nirvâna. La Scienza o la conoscenza del bene e del male, che fu secondo la narrazione biblica l’origine della morte e della infelicità, è qui il solo mezzo per liberarsi dalla morte e dai dolori che travagliano la vita umana: ella è germe d’ogni bene.

Il filosofo buddhista procede a questo modo nell’analisi degli esseri, oggetto della sua meditazione.

Tutti i viventi dei tre mondi. Cielo, Terra e Inferno, non hanno in sè stessi che due cose, Rûpa e Nâma. Per Rûpa s’intende la forma e la materia dell’Essere; cioè a dire tutto quello che è capace di esser distrutto, per intervento d’una causa secondaria. Nâma è la cosa, la cui natura si fa conoscere alla mente, per mezzo di Manas, o del principio intellettivo.42

L’uomo si forma di cinque parti, che si chiamano i cinque Skandha.43 Essi sono: 1.° il corpo o la materia organizzata, cioè il Rûpa; 2.° la sensazione, Vêdanâ; 3.° la percezione, Samjňâ; 4.° l’immaginazione, [p. 162 modifica]Samskâra; 5.° la conoscenza, Vijňana.44 Egli è evidente, che i quattro ultimi Skandha sono il resultato del primo, o meglio le sue proprietà; e se v’è qualcosa equivalente a ciò che noi chiamiamo Spirito, deve cercarsi nel primo Skandha.45 Quattro elementi, terra, acqua, fuoco, aria, entrano poi nella composizione di tutte le parti del corpo, e formano il Rûpa skandha.46 Molte sono queste parti del corpo, che credo inutile enumerare. Secondo alcuni il Rûpa, corpo organizzato, si divide in 28 parti,47 secondo altri in 32; ciascuna delle quali è, a sua volta, suddivisa in altre quarantaquattro.48 L’ufficio della vita e della vitalità, è quello di tener collegate e di preservare queste parti costituenti il corpo. Il fine che la filosofia Buddhica si propone con siffatta suddivisione del corpo umano, è di mostrare, per l’analisi minuta di ciascuna di queste parti, che, in ultimo, non vi troviamo altro che i primitivi elementi (terra, acqua, fuoco e aria), i quali sono chiamati la base di tutto ciò che esiste.49

Il secondo Skandha, ossia il Vêdanâ, è formato da sei sensi, cioè la vista, l’udito, il gusto, l’odorato, il tatto, e il Manas, che è la conoscenza e la mente. Quest’ultimo è chiamato pure senso intimo, come lo dicono anche i seguaci della filosofia Sânkhya, e risiede nel cuore. Le sensazioni sono prodotte per la comunione o pel contatto degli oggetti che ci circondano, ossia di quel che può esserci piacevole, disaggradevole o indifferente. La facoltà insita a ciascuno dei sensi, per mezzo della quale [p. 163 modifica]si rendono possibili gli effetti che le cose producono sugli organi corporali, si chiama vita dei sensi. — Se, per esempio, un oggetto si presenta all’organo della vista, ne resulta, come necessaria conseguenza, la percezione o idea di quella tal cosa. Le operazioni della mente seguono anche lo stesso procedimento di quelle degli altri sensi; e nascono per l’azione delle idee, le quali, a lor volta, derivano dai sensi: precisamente come la vista è prodotta dall’azione della cosa esterna sull’organo visivo. La mente è inoltre la principal causa del movimento muscolare.50 Gli altri Skandha poi non sono che un resultato delle idee, nate dal contatto degli oggetti esterni con gli organi dei sensi, o delle diverse operazioni del Manas o senso interno.

Queste parti (skandha), le quali colla loro unione e armonia formano quel che si chiama un Essere senziente, cessano di produrre i loro effetti, quando cessano le relazioni armoniche che sono fra l’una e l’altra. La morte è conseguenza della dissoluzione delle parti che compongono il corpo, cioè del disfacimento dei cinque Skandha.

Le idee, che sono il prodotto dei sensi, e le operazioni della mente, nominate nei tre ultimi Skandha, sono insieme designate coll’appellativo di Arûpa dharma, o cose senza forma; in opposizione al Rûpa, che comprende gli organi, o gli strumenti delle idee. L’Arûpa dharma comprende le idee, e il resultato delle idee. Le idee si dividono: 1.° in idee che sono proprie agli esseri, che soggiacciono totalmente alla influenza delle passioni; 2.° idee proprie degli esseri, che non sono ancora giunti a liberarsi dalla sensualità; 3.° idee di coloro che si sono affatto separati da tutto ciò che è mondano, e si deliziano nella [p. 164 modifica]contemplazione della verità astratta, e nelle cose più pure che la mente possa immaginare. — Le idee della prima serie appartengono a tutti gli esseri che abitano nelle quattro regioni dell’Inferno, a coloro che abitano la Terra e a coloro che risiedono nelle sei regioni dei Dêva (Dêva-lôka): ossia nelle undici regioni del dominio delle passioni. Le idee della seconda serie sono proprie agli esseri delle diciotto sedi di Brahman (Brahma-lôka) e di coloro che, essendo già entrati nel cammino della perfezione, percorrono una delle quattro strade che conducono al Nirvâna. Le idee della terza serie appartengono a quegli enti superiori, che si sono innalzati nelle regioni della contemplazione più pura, e che sdegnano tutto quel che concerne questo mondo, tale quale i volgari lo considerano.51

L’uomo, anco pei Buddhisti, ha una intelligenza che lo rende superiore a tutti i viventi, eccetto a’ Dêva; egli è capace di pensare, riflettere e ragionare. Ciò non ostante è tenuto come un essere affatto materiale, prodotto per l’effetto di cause materiali anch’esse. La sua esistenza è soltanto il resultato dell’unione di quelle cinque parti, di cui s’è parlato di sopra, le quali operano di conserva, in certe date circostanze: rotta quella unione, l’uomo cessa d’essere uomo; come la nuvola cessa d’esser tale, quando si decompone in pioggia; come un carro sfasciato non è più un carro, ma legna da ardere. Per aver la luce, seguitano a dire i nostri filosofi buddhisti, c’è bisogno della lampada, del lucignolo, dell’olio, della fiamma; per aver l’uomo, c’è bisogno del corpo e degli altri quattro skandha. Quando la fiamma si spenge, la luce non è più; quando i cinque skandha si sciolgono dalla loro unione, [p. 165 modifica]l’uomo pure sparisce. — Da tutto ciò si intende, come fra le parti che costituiscono l’uomo secondo il Buddha, non si possa noi trovare nulla, che rassomigli allo spirito o all’anima, nel senso, nel quale noi la intendiamo: l’anima, lo spirito, l’intelligenza, non è che il Manas, non è che un sesto senso, che essi filosofi hanno aggiunto agli altri cinque.52

Abbiamo detto, al cominciare di questo paragrafo, che lo studio degli Esseri e dell’uomo in particolare è il dovere d’ogni Saggio, che desidera arrivare alla perfezione e alla felicità. Abbiamo, secondo le vedute buddhiche, analizzato brevemente gli esseri e l’uomo; ora dobbiamo giungere al fine, al quale tende lo studio suddetto, cioè alla investigazione della cagione di tutte le modificazioni del Rûpa e del Nâma: le due parti principali, di cui si compongono i viventi.

«Gli esseri che abitano i Tre mondi, dice un autore Buddhico, devono avere avuto una causa. Il dire che essi esistono di per sè stessi, senza una causa che li produsse, è assurdità.53 E la gran differenza che poi osserviamo tra loro, indica che il loro modo d’esistenza risulta da varie cagioni. Noi però non possiamo andare d’accordo coi nostri avversarii, i Brahmani, i quali ammettono che Brahman sia la sola causa di tutto ciò che esiste. Quest’essere, cioè Brahman, non è nemmeno lui fuori del dominio del Rûpa e del Nâma: egli stesso è un composto di Rûpa e Nâma, cioè a dire effetto e non causa».54 Che cosa è dunque quel che è [p. 166 modifica]considerato come la cagione del Rûpa e del Nâma? — «Noi vediamo» séguita l’autore citato, «che il corpo umano ha il suo principio nell’utero materno, e vegeta e si sviluppa in quell’angusta prigione, in mezzo a vene, nervi, muscoli, sangue; alla guisa del verme e dell’insetto, che si formano nelle sostanze putride, o nelle putride acque stagnanti. Ma ciò non è da tenersi come la cagione reale di corpi viventi».55 — L’origine degli esseri viventi sta in una serie continuata di cause e di effetti, che i Buddhisti chiamano Nidâna, e che stiamo ora per esaminare. La dottrina delle dodici cause o Nidâna è antichissima; e appartiene forse alla prima età del Buddhismo. Essa forma la base della Ontologia e della Metafisica buddhica; come le Quattro grandi verità formano la base, su cui riposa tutto il sistema della morale. Non è probabile che Çâkyamuni, nella sua predicazione, la quale fu semplice e tale da poter esser intesa anche dal volgo, abbia egli stesso formulato, questa dottrina, nella maniera in cui la conosciamo oggi; ma è più verisimile che, trovatisene i germi sparsi qua e là, nelle sue istruzioni, i suoi immediati discepoli abbiano immaginata questa teoria; la quale infatti presenta i caratteri d’un sistema elaborato in una scuola filosofica.

Dodici condizioni, effetti e cause a lor volta le une dell’altre, operano vicendevolmente per produrre la vita. Tutti gli esseri, così ragiona la filosofia buddhica, sono condannati a deperire, invecchiare e morire; la vecchiezza e la morte (Jarâmarana) è dunque il fine, la meta della vita. Ma se l’uomo non fosse nato, egli non invecchierebbe, nè perirebbe, dunque la vecchiezza e la morte (Jarâmarana) non è che un effetto, di cui la causa [p. 167 modifica]è Jâti, la nascita. La quale può effettuarsi in quattro modi: per mezzo dell’umidità, per mezzo d’un uovo, per mezzo d’una matrice, o per mezzo della metamorfosi. — Ma la nascita è essa pure un effetto, perchè essa non sarebbe se non vi fosse l’esistenza, Bhava; o quella condizione, che è creata in virtù del karma, cioè per l’efficacia delle antecedenti azioni, buone o cattive. L’esistenza ha per cagione l’inclinazione verso le cose, che è detta Upâdâna; parola, con la quale s’indica lo stato, in cui il desiderio, volgendosi e fissandosi a qualche cosa, diventa attivo: o meglio, secondo lo Spence Hardy,56 con la quale si vuol significare il desiderio, non di produrre la vita, ma di goderla. L’inclinazione verso qualche cosa non si opera, se non per l’effetto della concupiscenza della passione, Trishnâ, che spinge al possedimento della cosa desiderata. Il desiderio ha per causa la sensazione, Vêdanâ; perchè se la sensazione non esistesse, gli oggetti esterni non sarebbero percepiti, nè produrrebbero desiderii. La sensazione, cagione del desiderio, ha a sua volta per causa il contatto, Sparça: poichè è necessario che gli oggetti feriscano i nostri sensi, onde nasca la sensazione medesima. Ma il contatto rimarrebbe senza effetto, se non vi fossero i sei sensi, Shadâyatana, i quali, pel contatto stesso, nel percepire le qualità delle cose, non producessero la sensazione; questa il desiderio; il desiderio l’accoppiamento con la cosa desiderata; d’onde l’esistenza, la nascita, la morte.57 [p. 168 modifica]Nâmarûpa, il nome e la forma, è la nona causa. Senza il nome e la forma, gli oggetti sarebbero indistinti, e non produrrebbero sui sensi, Shadâyadana, nessuna impressione. — Essi oggetti entrano, in principio, in contatto con noi per mezzo della forma materiale che rivestono, Rûpa; e in seguito per mezzo del Nâma, che gli rammenta al Manas, o allo spirito. — Il nome e la forma si confondono qui in una sola nozione, in un sol vocabolo, col quale si vuole esprimere ciò che rende gli oggetti percettibili. — Nâmarûpa è dunque la causa dei sensi, ma è a sua volta l’effetto del decimo tra i 12 Nidâna, il quale è Vijñâna, o il discernimento, che distingue gli oggetti gli uni dagli altri, gli attributi di ciascuno, i nomi che gli rappresentano e le qualità che son loro proprie. Esso è l’effetto del Samskâra o della immaginazione, la quale piglia le vanità per cose reali; considera questo mondo come sostanziale, mentre non è che una sua fittizia creazione; e guarda alle forme, che passano, come fantasmi, per tutte le fasi della vita, traverso le illusioni che di esse si è formata. L’immaginazione ha finalmente per causa l’ignoranza, Avidyâ, che consiste a stimar durevole ciò che è passeggiero, a [p. 169 modifica]credere permanente ciò che è fugace ed efimero; a dare, in somma, al mondo una realtà che non ha.58

Terminerò il presente capitolo col riportare il passo che segue, tolto da un’opera buddhica, tradotta dal Birmano: passo che epiloga quello che siamo andati fino ad ora esponendo.

«Si legge nelle scritture, che un Brahmano andò a consultare Gâutama su alcuni punti della scienza, intorno a’ quali la sua mente era in grande perplessità, e gli disse: Io sono agitato da molti dubbi intorno al passato, al presente e al futuro; e domando a me stesso: Ho io vissuto in altre generazioni? E se ciò avvenne, qual fu la mia condizione durante quelle esistenze? La risposta che mi do è, che io non so nulla di nulla. Qual fu la mia condizione, prima ch’io venissi a questo mondo? Io non lo so. Ed ora è egli proprio vero ch’io esista? o è la mia esistenza nient’altro che un sogno? Dovrò io ancora rinascere, o no? Che sono questi esseri che mi vedo d’attorno? Sono essi solamente illusioni, che m’ingannano colla loro apparenza di realtà? Io non so niente, affatto niente. Il futuro anch’egli è pieno per me della più crudele incertezza. Qual sarà la mia condizione durante le esistenze che verranno? Un denso velo nasconde a’ miei occhi tutto quel che mi si prepara in avvenire. Come potrò io portare un po’ di luce in mezzo a tanta tenebra? — «E il Buddha disse: Considera in primo luogo questo punto fondamentale: che cioè, quel che noi siamo usi di chiamare la nostra persona, il nostro Io, non è altro che Nome e Forma; vale a dire, non è che un composto de’ quattro elementi, che soggiacciono a una perpetua trasformazione, sotto la forza [p. 170 modifica]e l’influenza del Karma. Persuaso di questa verità, ti rimane a conoscere la cagione che produce il nome e la forma. Appena che tu volga il pensiero a quel che ti dico, t’anderà via ogni dubbio dall’animo. Che differenza tra i seguaci d’altre dottrine, i quali non si pigliano la pena d’indagare la natura degli Esseri, nè la cagione della loro esistenza! Essi sono tenaci nelle loro credenze; e muoiono dicendo, che quel che l’ignorante dominato dall’illusione suol chiamare un animale, un re, un suddito, un piede, una mano ecc., sono realmente animali, re, sudditi, piedi, mani. Questi cotali sono veramente ripieni d’errore; ond’egli avviene che seguono varie strade; e noi contiamo, fra loro, più di sessanta scuole, tutte differenti, ma tutte unite, con uguale ostinatezza, a rigettare la vera dottrina del Buddha. — Costoro sono dannati a vagare incessantemente nel circolo delle infinite esistenze. — Quanto è diversa la condizione de’ veri credenti, nostri seguaci! Essi sanno che gli esseri viventi, che abitano il mondo, hanno una causa; ma comprendono la follia d’andarne a ricercarne l’origine e la causa prima: la qual cosa è al di sopra della capacità delle più nobili intelligenze. Gli è evidente, per esempio, che i semi di un’erba o d’un albero contengono in se stessi il principio della riproduzione; ma qual sia questo principio nessuno presume saperlo. I nostri discepoli sanno bene che quello che i volgari chiamano uomo, donna, cavallo, insetto, non sono che distinzioni illusorie, che svaniscono innanzi agli occhi del saggio; il quale non vede altro in tutto quel che lo circonda, se non che nome e forma, ossia ciò che è prodotto da Karma e da Avidyâ. I quali non sono nè l’uomo, nè la donna; ma ne sono le cause efficienti. Quel che io dico rispetto all’uomo e alla donna può dirsi di tutti gli altri esseri. Essi tutti sono il [p. 171 modifica]resultato di Karma e di Avidyâ; e sono tanto distinti da questi due agenti, quanto l’effetto dalla causa. I nostri discepoli sanno, che i cinque skanda, i quali compongono il corpo umano, passano di generazione in generazione, per tutta la serie de’ rinascimenti, a cui quello è condannato; ma passano per tal modo, che la seconda generazione non tien memoria degli skanda della prima. Solo le cagioni che li producono, cioè Karma e Avidyâ, non cambiano mai».59

Possiamo epilogare quel che abbiamo detto intorno alla origine e natura degli esseri, ne’ seguenti capi:

1.° La causa immediata di tutti i diversi modi di essere, che si manifestano nell’universo, è, oggettivamente considerata, Avidyâ, soggettivamente, Karma. Ossia, per intendersi meglio, se è possibile in questa astrusa materia: Avidyâ, che è l’ignoranza, fa nascere nella mente d’alcuno una quantità d’illusioni; le quali egli tiene come forme reali, che scorge negli esseri che popolano il mondo. Così hanno origine, per lui, le cose che lo circondano; la vera natura delle quali gli sarà poi rivelata dalla scienza del Buddha. D’altra parte, se vuol sapere da dove egli stesso procede, deve cercarne l’origine nel Karma, o nelle azioni proprie fatte in altra esistenza; e avrà così la ragione della condizione e del modo della sua esistenza presente.

2.° Tutti gli esseri non sono che un composto de’ quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco. — Le operazioni intellettuali sono prodotte per mezzo del cuore, dove è il manas, nella stessa maniera che la visione si fa per mezzo dell’occhio. [p. 172 modifica]3.° Ciascuna esistenza è indotta a trasformarsi di continuo, per l’azione di Karma.

4.° Le parti che, per via della trasmigrazione, vanno a comporre un nuovo essere, non hanno nessuna relazione con quelle dell’essere che fu.

Per tal modo, alla morte dell’uomo, si disfà e si decompone la materia che ne formava il corpo (rûpa), e si distruggono in pari tempo la mente (manas) e tutte le facoltà dello spirito (vêdanâ, samjnâ, samskâra e vijñâna). Di lui non rimangono che le azioni, il complesso delle quali è detto Karma. Questo retaggio d’azioni, questo Karma, ha la strana potenza di dare origine a una nuova combinazione di cinque skanda, che non hanno nulla che fare co’ primi. E da siffatta combinazione si forma l’Essere, destinato a pigliarsi il peso di quella importuna eredità, e ad espiarne le male opere. Così si continua per innumerevoli rinascimenti, fino a che questo Karma non siasi ridotto che un complesso d’azioni purissime, prive di qualsiasi male, degno così d’essere totalmente distrutto e annullato, come si distrugge e si annulla, alla morte dell’uomo, ogni facoltà della mente.


Note

  1. Hardy, M. B. p. 398.
  2. Sâutrântica: Tamulische Bibliothek nella Zeit. der deut. morg. Gesel. t. viii, p. 724. — Koeppen, p. 228.
  3. Abidharma Kôça vyakhya di Vasumitra, commentato da Yaçômitra, — Burnouf, i, p. 572. — Koeppen, p. 228-230).
  4. Il Brahma jâla sûtra, nell’Indice del Kan gyur pubblicato da Schmidt (Pietroburgo 1845), è la 350.a opera, e la 256.a della collezione dei Sûtra.
  5. Per questi diversi mondi vedi più innanzi a p. 152-153.
  6. Max Müller, Dhammapada, p. xxxii-xxxvi. — «Die Bücher, die gleich dem Mulamuli der Laos von einier Schöpfung reden, sind in Uebereinstimmung mit dem Kamphi Sayasatr (den brahmanischen Shastras) abgefasst, und widersprechen der Auffassung des orthodoxen Buddhismus, der das Bestehen aller Dinge von dem einwohnenden Gesetze herleitet». (Bastian: Reisen in Siam p. 347).
  7. Bigandet, p. 2 in nota.
  8. Asiat. Resear. xx, p. 433-435.
  9. Mémoires du Congrès international des Orientalistes, i, p. 475-496.
  10. Il Vêdânta, distingue generalmente tre forme di corpi: il primitivo, quello cioè composto di materia sottile, e quello composto di elementi rozzi. Gli elementi rozzi sono quelli che il corpo riceve per mezzo del padre e della madre; il corpo elementare, o primitivo, e la materia sottile invece, che spesso non formano che un sol tutto, accompagnano l’anima traverso le sue peregrinazioni, fino a che essa non è liberata dalla Metempsicosi pei meriti che si andò acquistando.
  11. Koeppen, p. 58.
  12. Sânkhya, che vuol dire propriamente numero, significa qui, come principio della conoscenza, calcolo, considerazione, giudicio, ragionamento.
  13. Koeppen, p. 64-65.
  14. «Die Welt ging aus dem Gesetze hervor und das Gesetze «bestand durch sich selbst». (Bastian, Reisen in Siam, p. 346).
  15. Dharma, in Pali Dhamma, è parola difficile a definirsi, per quanto il suo significato sia chiaro. Essa significa Legge: la legge, per la quale tutte le cose vengono formate e sono, e che cosa sono, e a quali condizioni sottoposte; cioè a dire Legge nel più ampio senso della parola, tanto fisico, quanto morale. Il Burnouf (Int. a l’Hist. du Buddh. p. 41) dice «je traduis ordinairement ce terme par condition, d’autres foi par lois, mais aucune de ces traductions n’est pas parfaitement complète; il faut entendre pour «dharma» ce qui fait qu’une chose est ce qu’elle est, ce qui constitue sa nature propre, comme l’a bien montré Lassen, à l’occasion de la célèbre formule: «Ye dharma hetuprabhava». Fausböll interpreta questa parola: «Naturæ a mente principium ducunt». Il Weber deriva Dharma dalla radice dhar (tenere). — Max Müller, Dhammapada, p. lv, nota 1.
  16. Bigandet, p. 22, nota.
  17. Hardy, p. 391.
  18. Hardy, p. 392.
  19. Ibidem, p. 399.
  20. Bigandet, p. 433. — Parlando di causa, non si creda che si faccia qui allusione a una causa prima, in contradizione a quanto si è detto di sopra; vedremo fra poco in che consista questa causa, quando parleremo di quella serie di cause e di effetti, che è conosciuta nel Buddhismo col nome di Nidana.
  21. Koeppen, p. 231-232.
  22. Hardy, p. 2.
  23. Ibidem, p. 8.
  24. Dhammapada, versetto 126.
  25. Hardy, p. 3.
  26. Koeppen, p. 235.
  27. Hardy, p. 26.
  28. Avîci, parola formata dalla particella privativa a e della parola vîici, «rifugio» indica un luogo privo di scampo o di salvezza.
  29. Vedi più innanzi, dove si tratta della natura degli esseri, del Rûpa e Arûpa.
  30. Secondo altri il Rûpa Brahma Lôka si divide in cinque regioni o Dhyâna, con le loro suddivisioni, che sono le seguenti: I. Dhyana o Contemplazione. 1. Brahma-pavishiadya. 2. Brahma-purohita. 3. Mahâbrahma. — II. Dhyana. 4. Parîttâbha. 5. Apramânâbha. 6. Abhâsvara. — III. Dhyana. 7. Parîttaçubha. 8. Apramânâçubha. 9. Çubhakritsna. — IV. Dhyana. 10. Anabhraka. 11. Punya-prasava. 12. Vrihat-phala. 13. Arangisattvas, Asangisatvas o Asanyasatya. — V. Dhyana. 14. Avriha. 15. Atapa. 16. Sudrisa. 17. Sudarçana. 18. Akanishtha.
  31. Burnouf, i, 599, ii, 811. — Hardy, M. B. p. 25. — Bigandet, p. 449 e 23. — Max Müller, Dhammapada, p. xxxiii. — Le quattro regioni dell’Arûpa Brahma Lôka sono: 1. Akâçânatyâyatanam. 2. Vijňânânantyâyatanam. 3. Akiňcanyâyatanam. 4. Naivasaňjnânâsajňnâyatanam.
  32. Hardy, p. 5.
  33. Bigandet, p. 23 in nota; Hardy, p. 28-29.
  34. Lib. xii. Sloka 30 e seg.
  35. Vedi anche Aristotele, Trattato dell’anima, cap. iii, § 23.
  36. Bigandet, p. 21 in nota.
  37. Koeppen, p. 302.
  38. Bigandet, p. 21.
  39. Koeppen, p. 289.
  40. Hardy, p. 396.
  41. Vedi il cap. i, e più sotto, in questo medesimo capitolo, la dottrina dei dodici Nidana o cause.
  42. Bigandet, p. 454.
  43. Skandha, Pali Khande. In Tibetano Phung-po, «heap, pile, cluster, mass.». (Csoma: A Dictionary Tibetan and English p. 85. — Jaeschke: Tib. and Engl. Dict., p. 99).
  44. Burnouf, i, 589, 634, ii, 355; Hardy, 388, 399; Bigandet, 454.
  45. Hardy, p. 389.
  46. Bigandet, p. 456.
  47. Hardy, p. 399.
  48. Bigandet, p. 456.
  49. Ibidem.
  50. Bigandet, p. 455; Hardy, p. 390 e 403.
  51. Bigandet, p. 457.
  52. Bigandet, p. 434, nota; Hardy, Leg. and. Theor. of Bud., p. 163.
  53. Vedi nota a p. 148.
  54. Bigandet, p. 461.
  55. Bigandet, p. 462.
  56. Leg. and Theor. of Bud., p. 168.
  57. Questa genesi è differente secondo le diverse scuole filosofiche. Il sistema Kârmika procede a questo modo: Dall’unione di Upâya e Prajňâ nacque il Manas; dal Manas, Avidyâ; da Avidyâ, Samskâra (illusione); da Samskâra, Vijňâna (la conoscenza); da Vijňâna, Nâmarûpa; da Nâmarûpa, Shadâyatana (i sei sensi); da questo, Vêdanâ (la sensazione); da Vêdanâ, Trishnâ (il desiderio); da Trishnâ, Upâdâna (l’attaccamento); da Upâdâna, Bhava; da questo, Jâti (la nascita fisica); da cui nacque Jarâmarana (le varie specie di esseri). Secondo alcuna scuola teistica, l’Esistente di per sè stesso (Içvara), o la prima essenza intelligente (Adi-Buddha), produsse Yâtna, per mezzo di Prajňâ, e con Yâtna produsse i cinque Jñâna, da’ quali vennero i cinque Buddha, i quali crearono i Devatâ; mentre Brahman creò i tre lôka (Cielo, Terra e Inferno) e tutte le cose animate e inanimate. Hodgson, nel Phœnix, t. ii, 1871, n.° 15, p. 46 e 47.
  58. Bigandet, p. 85-86.
  59. Bigandet, p. 465-467.