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parte prima | 169 |
credere permanente ciò che è fugace ed efimero; a dare, in somma, al mondo una realtà che non ha.1
Terminerò il presente capitolo col riportare il passo che segue, tolto da un’opera buddhica, tradotta dal Birmano: passo che epiloga quello che siamo andati fino ad ora esponendo.
«Si legge nelle scritture, che un Brahmano andò a consultare Gâutama su alcuni punti della scienza, intorno a’ quali la sua mente era in grande perplessità, e gli disse: Io sono agitato da molti dubbi intorno al passato, al presente e al futuro; e domando a me stesso: Ho io vissuto in altre generazioni? E se ciò avvenne, qual fu la mia condizione durante quelle esistenze? La risposta che mi do è, che io non so nulla di nulla. Qual fu la mia condizione, prima ch’io venissi a questo mondo? Io non lo so. Ed ora è egli proprio vero ch’io esista? o è la mia esistenza nient’altro che un sogno? Dovrò io ancora rinascere, o no? Che sono questi esseri che mi vedo d’attorno? Sono essi solamente illusioni, che m’ingannano colla loro apparenza di realtà? Io non so niente, affatto niente. Il futuro anch’egli è pieno per me della più crudele incertezza. Qual sarà la mia condizione durante le esistenze che verranno? Un denso velo nasconde a’ miei occhi tutto quel che mi si prepara in avvenire. Come potrò io portare un po’ di luce in mezzo a tanta tenebra? — «E il Buddha disse: Considera in primo luogo questo punto fondamentale: che cioè, quel che noi siamo usi di chiamare la nostra persona, il nostro Io, non è altro che Nome e Forma; vale a dire, non è che un composto de’ quattro elementi, che soggiacciono a una perpetua trasformazione, sotto la forza