Il Buddha, Confucio e Lao-Tse/Parte Prima/Capitolo IV

IV - Continuazione del medesimo soggetto

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IV - Continuazione del medesimo soggetto
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Capitolo IV.


Continuazione del medesimo soggetto.


Il Buddhismo, dice il Wassiljew, fu dominato fin da principio da un pensiero, che può essere espresso a questo modo; «Tutto quel che è d’accordo col buon senso, e che cade bene in taglio nelle diverse occasioni della vita, è parimente d’accordo con la verità».1 Se a questo concetto, che offre di per sè stesso vasto campo a uno svolgimento futuro, si aggiunge la gran tolleranza che esso Buddhismo ha sempre dimostrata verso ogni credenza religiosa e filosofica, e la mancanza di un codice, il quale vantando autorità infallibile e divina, decidesse le controversie; si capirà facilmente come si siano andate formando nel suo seno un gran numero di sètte, mano mano che esso si allontanava dal luogo e dal tempo del suo nascimento. Le varie scuole a cui questa religione diede origine, salvo poche verità riconosciute e ammesse da tutte, in ogni altra cosa, e specialmente nel campo metafisico, si trovarono affatto padrone di sè stesse e senza guida. Le idee nuove che si producevano dal trasformarsi delle antiche, o che nascevano dalle varie credenze colle quali la dottrina di Çâkyamuni si trovò in contatto; le riforme rese necessarie dalle stesse condizioni fisiche dei paesi, ai quali essa si estese, o che erano richieste dagli usi e dalle costumanze di quelle diverse contrade; tennero il Buddhismo in un continuo rinnovamento, in una continua vita, che non cessò se non quando la religione [p. 114 modifica]cessò di espandersi. Ma il fatto di avere conservato, ciascuna di quelle scuole, le verità fondamentali della primitiva legge del Buddha, permise ad esse di riconoscersi più tardi come sorelle, di unirsi insieme, e da’ loro differenti insegnamenti formare un nuovo sistema, un nuovo Buddhismo. «La dottrina di Gâutama, dice Vasumitra «nel suo trattato intorno alle sètte, è contenuta in tutte le opere delle diverse scuole, che si sono separate dall’unico stipite. La dottrina delle Quattro Verità (Aryaçâtiya), che è tutto quel che Câkyamuni ha insegnato, si ritrova in tutti i libri buddhici, come l’oro nella sabbia; e vi si ritrova appunto, perchè doveva servire come di sorgente e di principio alla riconciliazione».2

Ma l’unità in tante e sì disparate opinioni non poteva riuscire intera; laonde tutte le diverse sètte buddhiche furono comprese in quattro principali scuole, le quali poi si distinsero ne’ due sistemi, l’Hînayâna e il Mahâyâna. Il primo, o l’Hînayâna, si componeva delle due scuole Vaibhâshika e Sâutrântika; e il Mahâyâna dell’altre due, designate co’ nomi di Madhyamika e Yôgacârya. La parola yâna,3 che è parte dei nomi co’ quali si chiamano i due sistemi, vuol dire propriamente veicolo; perchè in essi sistemi, secondo i buddhisti, si trova il mezzo di condurre l’uomo, dal mondo e dalla vita, al di fuori del circolo della trasmigrazione; da ciò che è mutabile e passeggiero, a ciò che è eterno e costante. La dottrina [p. 115 modifica]l’Hînayâna, cioè a dire il Piccolo veicolo, fu chiamata così perchè si disse contenere insegnamenti meno elevati, o inferiori a quelli del Mahâyâna, o Gran veicolo. L’Hînayâna e il Mahâyâna rappresentano pertanto due forme differenti di Buddhismo, uscite da uno stipite comune, e succedentisi l’una all’altra. L’Hînayâna è la forma più antica, e contiene le idee fondamentali della dottrina di Çâkyamuni ad uno stato di svolgimento meno avanzato; mentre il Mahâyâna presenta un incremento maggiore nella evoluzione delle idee buddhiche, e un sistema più moderno.

Come e quando nacquero e si estesero le varie sètte, dalla unione delle quali si formò l’odierno Buddhismo, è cosa che non si può con precisione stabilire, per la incertezza della cronologia buddhica e bràhmanica, e per le molte contradizioni che in essa si trovano. Tuttavia cercherò di esporre brevemente con un certo ordine cronologico approssimativo, la storia dello svolgimento di questo vasto e intricato sistema, che domina oggi nella maggior parte dell’Asia.

La storia dello svolgimento delle dottrine buddhiche si può dividere in quattro periodi ben distinti. Nel primo noi vediamo la società fondata da Çâkyamuni, seguire scrupolosamente ì precetti del maestro, propagarsi in pace e senza contrasto: anzi trovare presso gli abitanti dell’India accoglienza benevola e cordiale. Siddhârta non ebbe nemmeno a lottare contro le altre sètte religiose e filosofiche de’ suoi tempi. I Brâhmani e gli Yôgi non si curarono dapprincipio di lui nè della sua nuova dottrina; e soltanto i seguaci della scuola Tîrthakara furongli avversi; la qual cosa farebbe supporre una certa parentela fra le dottrine di quella e le sue. Questo primo periodo, a cominciare dalla morte del Buddha, non [p. 116 modifica]comprende che un secolo. Alcune tradizioni annoverano, come abbiam visto nel capitolo precedente, una serie di sette Primati, ai quali poi se ne fece succedere altri fino al numero di ventotto, e ci presentano il Buddhismo, nei suoi primordii, sotto la forma di patriarcato.

Col procedere degli anni l’unità e la concordia, che regnavano nelle comunità religiose dei Bhikshu, andarono a poco a poco diminuendo. Veramente la tradizione ci fa conoscere, che fin da’ tempi di Gâutama, nell’assemblea de’ monaci v’ebbero dissidii e anche scismi; ma le più profonde divisioni nella Chiesa, son tutti d’accordo a dire che avvenissero dopo il primo secolo dell’èra buddhica. Nelle molte contrade, dove queste società si erano stabilite, sorsero dapprima alcuni dissensi a cagione dei regolamenti disciplinari; poi incominciarono delle contradizioni intorno al modo di interpretare le dottrine del Buddha, o intorno alle dottrine stesse; d’onde nacquero controversie e discordie; formandosi così diverse scuole, ciascuna delle quali prese a combattere in difesa delle proprie opinioni. Affine di mettere un termine a queste lotte che agitavano la nuova chiesa, furono adunati que’ concilii, de’ quali s’è parlato in altro luogo, tentando per tal modo di ricondurre, la religione alla primitiva unità. Ma così non avvenne; chè anzi ogni concilio, oltre a dare origine a nuove sètte, faceva anche più profonde le divisioni che separavano le antiche: e davan loro maggior vigore le nuove lotte che sostenevano.

Fu appunto nel terzo di que’ quattro periodi a’ quali s’è accennato di sopra, che queste scuole, in numero di diciotto, vivendo di vita propria e indipendente, elaborarono le loro dottrine. E solo dopo questa elaborazione, si riunirono finalmente, almeno per quel che concerne la parte filosofica, nelle due scuole Vaibhâshika e [p. 117 modifica]Sâutrântika. Il quarto periodo poi è quello che comprende la formazione di un nuovo Buddhismo, il Mahâyâna; il quale, trasmutando a poco a poco gl’insegnamenti del vecchio sistema, finì per dominare in tutti i paesi, dove la religione di Çâkyamuni aveva fatto proseliti. I primi tre periodi abbracciano dunque la storia dell’Hînayâna, comprendendone tutte le fasi dalla sua forma più semplice fino alla sua trasformazione in Mahâyâna; mentre il quarto abbraccia la storia di quest’ultimo sistema, che è l’espressione finale delle dottrine buddhiche.

Il tempo compreso tra i due Açôka, cioè tra il 453 e il 283 av. C, può esser paragonato, dice il Kœppen, a quel periodo di evoluzione del Cristianesimo, che principia dal secondo secolo e va fino all’epoca del cosidetto concilio ecumenico.4 In quel tempo incominciò a corrompersi lo stato patriarcale della chiesa buddhica; e la sua unità si perse in mezzo alle dispute dommatiche, metafìsiche e disciplinari. Le sètte si succedettero le une alle altre; e ciascuna aveva qualche domma, qualche dottrina, qualche precetto nuovo, o qualche nuova interpretazione da dare alle parole del Buddha.

Anche ne’ primi anni che seguirono la morte di Gâutama, i monaci s’ebbero a radunare alcuna volta per condannare le teorie di qualche eterodosso. Ma quando veramente cominciarono a manifestarsi grandi discordie fra i buddhisti, fu molto tempo di poi, per opera, dicono, di Mahâdêva. Era questi del regno di Maruta, e figliuolo di un mercante; e la leggenda dice, che andasse nel Kaçimîra a farsi monaco, perchè la sua coscienza era tormentata da gravi rimorsi per le male opere che aveva fatte. Il pentimento non tardò a entrargli nel cuore; si diè tutto alla [p. 118 modifica]religione, e in breve, per la sua non comune intelligenza, si rese peritissimo negli insegnamenti della legge di Gâutama. Quando egli ritornò nel paese natale, fu tenuta per un Arhat; e con un séguito di molti Bhikshu si recò nel Çarâvatt vihâra, nel tempo che i monaci recitavano il Pratimôksha Sûtra. Prese anch’egli parte alla cerimonia; e quando venne la sua volta di recitare le parole di quel libro, egli terminò con queste proposizioni: Tutti gli Dei sono ingannati e delusi dalla propria ignoranza: il cammino (della verità e della salute) procede dal torrente della voce, cioè dall’insegnamento: i dubbiosi sono guidati dagli altri: questa è la dottrina del Buddha.5 Cominciossi allora a dire che quelle parole non si trovavano nel Sûtra; ne seguì una disputa, e una gran parte dei giovani Bhikshu si unirono a Mahâdêva. Questo fatto diede origine alle due scuole Mahâsâmghika e Sthavira.6 I seguaci della prima erano i partigiani della dottrina di Mahâdêva; gli Sthavira erano gli ortodossi, quelli cioè che lo avevano combattuto. Dopo che Mahâdêva fu morto, Bhadra divenne il continuatore delle sue massime; e stabilì cinque proposizioni, che divennero il fondamento della nuova scuola. Esse sono: 1.° l’uomo si può lasciar trascinare o guidare dagli altri; 2.° esso è dominato dall’ignoranza; 3.° travagliato dal dubbio; 4.° ed opera imitando altrui; 5.° finalmente, la via della salute sta nella parola. Dopo la sua morte, Nâga si fece il sostenitore di queste cinque proposizioni:7 la discussione diede origine ad altre due [p. 119 modifica]scuole, le quali, sotto Sthiramati, successore di Nâga, s’accrebbero in diciotto.8

È impossibile dire qui con precisione, quali fossero le cagioni della suddivisione delle scuole Mahâsâmghika e Sthavira in diciotto altre sètte. Gli autori buddhici, che ce ne hanno lasciata memoria,9 sono quasi tutti del parere che esse nascessero cento anni dopo la morte di Çâkyamuni, e si succedessero pei due secoli che vennero appresso: ossia nel tempo compreso fra il secondo concilio, tenuto sotto Açôka I (Kâlâçôka), e il terzo, adunato per opera di Açôka II (Dharmâçôkâ). E quantunque questa pretesa unità della Chiesa durante il primo secolo, ci sembri cosa da mettersi in dubbio, seguiremo anche noi l’opinione generale degli scrittori buddhici. I quali poi cadono, d’altra parte, in contradizione con sè stessi, quando per dare autorità a certe scuole, ne fanno istitutori alcuni discepoli immediati di Gâutama. Comunque sia, ecco, secondo che scrive Vasumitra d’accordo coi più, l’ordine in cui si formarono queste varie sètte. — La scuola Mahâsâmghika, dopo essersi mantenuta per poco unita, si cominciò a suddividere in altre scuole; che, in sul cominciare del terzo secolo dopo il Buddha, erano giunte a otto. La scuola degli Sthavira conservò per circa un secolo la sua unità, e al principiare del terzo si divise in due, la scuola Sarvâstivâdin, detta anche Hetuvâda, e la scuola Hâimavata, che comprese gli Sthavira rimasti fermi nelle loro credenze, dopo la separazione della scuola Sarvâstivadin. Quest’ultima diede origine ad altre tre scuole, e queste ad altre ancora, nella maniera che si potrà vedere [p. 120 modifica]nel seguente prospetto, desunto dal trattato di Vasumitra.10

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Nei tre secoli trascorsi tra Dharmâçôka e l’ultimo dei concilii buddhici, tenuto circa 600 anni dopo la morte di Çâkyamuni, il Buddhismo del nord vide nascere in maggior numero e prosperare, quelle sètte, che il concilio di Pâtilaputra tentò invano ricondurre a una medesima dottrina. Noi non seguiremo queste scuole nella via che percorsero in quei tre secoli, nè terremo dietro ai cambiamenti ai quali andaron soggette; ma noteremo solo un fatto importante nel progredimento della letteratura buddhica, la comparsa cioè nel Cascemir del primo degli Abhidharma, libri che formano oggi una parte ricchissima delle scritture sacre, il quale fu opera di Kâtyâyana, che lo scrisse 500 anni dopo il nirvâna del Buddha, o quasi un secolo avanti l’ultimo concilio.

È tempo ora di cominciare a dir qualcosa intorno al quarto periodo della storia del Buddhismo, che contiene lo svolgimento delle dottrine del Mahâyâna, ossia del Gran veicolo. Tutte le scuole uscite dalla dottrina del Mahâyâna, attribuisconsi l’origine da Nâgârjuna, o Nâgasena come è detto dai Buddhisti del mezzogiorno,12 il quale visse cento anni innanzi l’era nostra. Il punto principale e fondamentale, donde si parte il Mahâyâna, è la Dottrina del vuoto, che ha il nome di Prajňâ pâramitâ, ossia Saggezza che trasporta all’opposta riva del Sânsâra o del mondo. La leggenda dice che Nâgârjuna si procacciasse il libro che spiega questa scienza, e che porta pure il nome di Prajňâ pâramitâ, nel paese dei Draghi; i quali l’avevano appresa dalla bocca stessa di [p. 122 modifica]Çâkyamuni, e l’avevano conservata in quello scritto, aspettando che gli uomini fossero capaci d’intenderla: fino allora il mondo dovette contentarsi del solo Hinayana, o di ciò che il Buddha aveva spiegato al volgo.

Tutto quello che serve di soggetto alle dottrine del Buddhismo primitivo è osservato nel Mahâyâna sotto un altro aspetto. Il mondo o Sânsâra, che era degno di dispregio e di rinunzia, solo perchè non offre che dolore, pei seguaci del Mahâyâna invece è tale, perchè è privo di realtà e verità, perchè vacuo; laonde niente merita quaggiù la nostra attenzione, e nemmeno un solo dei nostri pensieri. Le parole vuoto e vanità, che erano adoperate nel primo periodo della storia del Buddhismo, a significare la insussistenza d’ogni sorgente mondana di felicità, più tardi invece si adoperarono a significare la non realtà di tutti i fenomeni della natura. — La stessa sorte ebbero pure altre parole, durante questo tramutarsi della dottrina.

Secondo la scuola Mahâyâna, tutto quello che esiste, esiste solo nella nostra immaginazione e perchè abbiamo convenuto che esista; ma non è che un illusione, una vanità.13Il mondo deve la sua esistenza alla immaginazione, e alla credenza nella sua realtà.14 Per la qual cosa, devonsi considerare le creature animate solo come visioni, come vane immagini, come il brillare del tremulo riflesso della luna nelle onde di un fiume.15Non v’è proprio nulla di reale nella esistenza delle cose, nulla! Tutto è simile all’eco, [p. 123 modifica]all’ombra, a un’apparizione fantastica.16Ogni cosa, animata e inanimata di questo mondo, è sogno, è miraggio ingannevole.17 — Rigettando ogni possibile idea d’esistenza, il Mahâyâna fa rientrare nel nulla fin l’idea assoluta del Buddha, dicendo che la sua virtù e la sua saggezza non vivono che relativamente.

Ma qualcosa di più mostruoso, che è conseguenza di questo strano modo di osservare il mondo, nasce come incremento della nuova dottrina. Ed è, che non si deve dare accesso nel pensiero ad alcuna idea sopra gli oggetti che ci circondano; cioè non si deve nè stimare nè pensare, che tal cosa sia realmente la tal cosa, e la tal’altra sia propriamente la tale altra: non si deve avere l’idea della differenza, perchè, dicono, non c’è assolutamente nulla che sia simile o differente. Ogni nozione, ogni concetto di una cosa qualunque ella sia, ammessa come esistente, è ignoranza. Ogni idea ottenebra e accieca il pensiero, ogni ragionamento lo turba.18 E siccome l’universo e gli esseri non sono creati che dal pensiero,19 ossia non esistono che nel pensiero; così, se l’azione di pensare ci abbandona, noi non apparteniamo più al mondo; e ci liberiamo dall’ignoranza per nascere nel dominio puro dei Buddha.20 Il più alto grado a cui l’uomo si può innalzare, che è la pura intelligenza (la Bôdhi), consiste dunque nel rigettare lungi da sè ogni idea, ogni nozione, ogni pensiero, ogni ragionamento. Per questo mezzo si acquista la saggezza del Buddha, ossia la Bôdhi:21 [p. 124 modifica]La quale è formata dalla ragione che non apprende nulla, che non aspira a nulla,22 e nel Mahâyanâ tien luogo dei Nirvâna incompiuto; o di quello stato di beatitudine che, secondo l’ultimo svolgimento dell’Hinayana, si può acquistare innanzi la morte. Il Bôdhîsatva è appunto l’essere che è giunto all’acquisto di questa scienza o Bôdhi, e che non aspetta che il suo tempo per divenire un Buddha perfetto. Questa intelligenza perfetta (bôdhi) può esser conseguita da ognuno. Tutte le cose animate hanno la natura del Buddha;23 ma a tale stato non si può pervenire collo spirito confuso e turbato, perciò si dice che non v’ha natura di Buddha.24 Ma tutti gli esseri devono diventare Buddha,25 perchè tutte le vanità sono germi di Buddha, cioè a dire tutte le azioni conducono in seguito alla vocazione di Buddha.26 Per giungere a ciò bisogna assolutamente formarsi la nozione vera sulle cose del mondo (sulla dottrina del vuoto), ossia bisogna persuadersi che i cinque skandha (le parti che compongono i corpi viventi) non sono reali nè veri; e che tutto ciò che esiste, non è tale, altro che per opera del nostro pensiero.27

La scienza dunque che spiega la dottrina del vuoto universale, che insegna a non dar ricetto ad alcun pensiero o nozione intorno ad oggetti esterni, è il mezzo che conduce a quell’eterno riposo, a quella suprema felicità, per ottenere la quale era mestieri, nel Buddhismo dei primi tempi, d’essere compresi dell’infelicità [p. 125 modifica]dell’esistenza, e di conoscere la cagione di questa infelicità. Ma come si ottiene questa scienza sublime? quali sono i mezzi pe’ quali vi s’arriva? La pratica delle sei Virtù o dei sei Pâramitâ, che sostituirono nel Mahâyâna le quattro Verità e i dodici Nidâna, è ciò che conduce all’acquisto della Scienza trascendentale (Prajňâ pâramitâ). La carità, la moralità, la pazienza, la contemplazione, la meditazione e la saggezza sono le sei virtù, le quali, come dicono i Buddhisti, tragittano l’uomo all’altra riva, cioè a dire lo conducono fuori di tutto quel che è mondano. L’osservanza di queste virtù fa acquistare all’uomo la bôdhi, e lo mette sulla via del Nirvâna, togliendolo dalle coste tenebrose dell’esistenza, dove non è che ignoranza.

Con siffatti insegnamenti il Buddhismo entra in una nuova via. Mentre nell’Hînayâna le dottrine non erano che negative, e nessun precetto comandava una qualche azione, ma solo vietava di fare tale o tale altra cosa; mentre al Bhikshu o al monaco, per essere degno discepolo di Çâkyamuni, bastava solamente allontanarsi dal mondo, e disprezzare le cose del mondo per la vanità loro, il Bôdhisatva del Mahâyâna deve invece adornarsi di tutte le perfezioni morali e intellettuali di cui è capace. Inoltre il primo Pâramitâ, che è la virtù della carità, dà al Buddhismo una nuova vita, una nuova forza, un’efficacia maggiore. Le mille leggende che riempiono le scritture buddhiche dimostrano in qual largo senso sia inteso questo sentimento di carità, che si estende a tutti gli esseri dell’universo senza eccezione. L’uomo che è entrato in possesso della Scienza, e che ha trovato la via di uscire da questo cumulo di miserie, da questa moltitudine di vanità, che è il mondo e la vita, non esce per questo dal dominio dell’esistenza per immergersi nel [p. 126 modifica]Nulla, come è credenza de’ buddhisti antichi; ma rimane nel mondo, e colla potenza che egli si acquistò praticando le virtù sopra dette, aiuta gli altri uomini, a percorrere la via da esso percorsa, a ottenere il fine da esso conseguito: e solo dopo avere per lunghi secoli radunato, in tale cantatevele, opera, meriti infiniti, egli può liberamente entrare nel Nirvâna, e godersi la pace suprema. Di qui nacquero i Bôdhîsatva,28 che sono appunto una creazione del Mahâyâna. Questi semidei, che s’andarono col tempo moltiplicando all’infinito, rappresentano precisamente lo stato di coloro, ai quali non resta più che una sola esistenza umana a percorrere: imperocchè giunsero all’ultimo grado della Scienza, dopo avere esercitata la carità verso tutti gli esseri, praticando i pâramitâ. Col Mahâyâna incominciò dunque anche il panteon buddhico; e i nomi di un grandissimo numero di Bôdhîsatva e di Buddha, tutti con speciali attribuzioni e speciali missioni da compiere in fra gli uomini, appariscono nelle scritture ispirate a questa dottrina.

Una scuola, di cui è ora mestieri tener parola, nacque dal Mahâyâna, ed è la scuola contemplativa o Yôgacârya.29 Entrare in possesso delle idee che formano il fondamento dell’Hînayâna, è cosa sufficiente per ottenere il fine che si propone il seguace di quel sistema. Infatti si trova spesso nei Sûtra, la menzione di questo o quel personaggio, il quale, dopo avere udito esporre dalla bocca del Buddha, la dottrina delle quattro verità, e dei dodici Nidâna, si vede innalzato a un grado notabile di [p. 127 modifica]santità. In seguito, a seconda dell’incremento delle idee, l’intero possedimento di questa scienza, non si ha che dopo sforzi perseveranti, ed è frutto, della pratica della virtù, e dello studio.30 Ora mentre lo Çraivâka, o uditore del Buddha, per ottenere la meta doveva limitarsi a non desiderare nulla, e il Bôdhîsatva del Mahâyâna non aveva che a chiudere l’accesso nella mente a qualsiasi nozione o idea, la scuola Yôgacârika afferma, che è per mezzo della contemplazione, che, destandosi in noi nuove forze e nuove capacità, s’arriva di grado in grado fino al limite della espiazione, ossia all’impossibilità d’incarnarsi sotto altre forme. Mai, dice la scuola contemplativa, le forze del nostro spirito possono diventare tanto potenti, quanto allora che si concentrano a un sol fine; e quanto più grande è santità dell’Essere che si concentra nella meditazione, tanto più cotale potenza s’accresce e sublima. Esercitarsi ad applicare la mente a un’idea fissa, e subire gli effetti della contemplazione estatica si chiama Samâdhi, o immersione nella Samâdhi.31 I Buddha e i Bôddhîsatra che sono immersi nella Samâdhi, producono cose maravigliose; e i Sûtra di questa scuola, detti Vâipulya sûtra, o Sûtra amplificati, sono pieni di miracoli e di prodigi operati per effetto di essa, da que’ personaggi.32

La contempiazione si fa per via di esercizi ordinati, i quali sono detti Dhyâna e Samâpatti. Col nome di Dhyâna si comprendono quattro gradi di meditazione [p. 128 modifica]intorno alle cose del mondo visibile; con quello di Samâpatti; altri quattro su quelle del mondo invisibile. Il primo grado Dhyâda produce, dicono, un sentimento intimo di felicità che nasce nell’animo del devoto, quando egli si sente atto a conoscere a fondo la vera natura delle cose. Colui che possiede questa prima potenza della contemplazione, ragiona e giudica ancora, ma incomincia già a distaccarsi da ogni desiderio, eccetto da quel del Nirvâna, la cui meditazione lo getta in un’estasi, che lo aiuta, ad elevarsi al secondo grado. In questo secondò periodo ogni ragionamento e ogni giudicio è spento: e perfino l’interna soddisfazione del Nirvâna non è più compresa dal devoto. Viene il terzo stato: in esso il piacere e la soddisfazione spariscono, e ne subentra una indifferenza per ogni cosa, fin’anche per la felicità che l’intelletto provò nella pratica dei due primi Dhyâna; e solo un benessere fisico inonda il corpo del buddhista, al quale rimane pur tuttavia un residuo di memoria, una coscienza confusa di se stesso; memoria e coscienza che perde, arrivato all’ultimo grado, unitamente al vago sentimento di benessere che provava. Allora libero da ogni piacere e da ogni dolore, il devoto ha perduto fin l’indifferenza, ed è pervenuto all’impassibilità. A questo punto incominciano i quattro periodi del Samâpati. Quivi è chiuso l’accesso ad ogni possibile idea, eccettuatane quella del nulla; e per una contradizione di cui il Buddhismo non si piglia alcuna pena, si manifesta nel devoto una possanza e una conoscenza illimitata, nella quale si confonde il passato, il presente e l’avvenire; e da questo, a cui si aggiunge l’idea predominante del Nirvâna, procede la negazione dei due opposti assoluti, l’esistenza e la non esistenza.

I Buddhisti di questa scuola detta Yôgacânya, dimenticando gli insegnamenti del loro maestro, che non [p. 129 modifica]ammetteva nel mondo altra beatitudine, che quella che ne abbiamo dalla pratica della virtù, o interpretandoli secondo le loro tendenze ascetiche, finirono per tal modo, come tutti gli uomini dominati da una passione mistica, con aspirare all’estasi, procurandosi un tale stato di felicità per via della contemplazione, o con altre pratiche di devozione e penitenza. Per arrivare a quel grado di esaltazione mentale che produce l’estasi, non mancano nell’India precetti, che guidano passo a passo il religioso fino a perdere il sentimento della propria personalità, quasi come se lo spirito si fosse partito dal corpo. Secondo il Bhagavatgitâ il devoto si darà agli esercizi religiosi, solo lontano da ogni essere umano, tanto da restar sempre padrone dei propri pensieri. «E fattosi un seggio in un luogo puro; là, tenendo fermo e in equilibrio il corpo, immobili la testa e il collo, lo sguardo fissamente volto alla punta del naso, signoreggi i pensieri, i sensi, le azioni, e volga l’animo tutto alla purificazione di sè stesso. Padrone così del proprio cuore e della propria mente, assiso a quel modo, prenda là divinità come unico oggetto della sua contemplazione». — L’Upanished indica un altro mezzo per aver l’estasi. Bisogna, dice, trattenere dapprima il fiato, e volgere il pensiero ad un obbietto fisso. Poi quando si respira, bisogna farlo con forza da gonfiar d’aria i polmoni; devesi quindi restar di nuovo senza spirare, e allora ripetere più volte che si può, per esempio ottanta, la sillaba mistica óm;33 e quando di nuovo si ricaccia il fiato fuori, convien pensare che il vento è uscito dall’etere universale e vi ritorna. Perseverando in tale esercizio bisogna farsi come cieco e sordo, [p. 130 modifica]e immobile come un tronco. Continuate così per tre mesi, dice quel libro, e al quarto vi appariranno gli angeli; al quinto, voi stesso avrete acquistato la qualità di quegli esseri superiori; al sesto sarete diventato a dirittura Dio.

Un altro autore dà i seguenti precetti per l’estasi. «Chiudi la porta della tua cella, egli scrive, mettiti a sedere in un cantuccio, e innalza il tuo spirito al di sopra delle cose vane e passeggiere. Appoggia quindi la barba sul petto, volgi gli sguardi nel mezzo del tuo ventre, dove è il bellico; e bada di non respirare nemmen pel naso. Cercati così nelle tue viscere il cuore, dove stanno tutte le potenze dell’anima. Dapprima tu non ci vedrai che tenebre, ma perseverando notte e giorno, verrà tempo in cui, oh meraviglia! una gioia immensa t’inonderà, perchè la tua anima avrà trovato il luogo del cuore, e vi vedrà quel che non v’aveva mai scorto: vedrà lo spirito che è nel cuore: vedrà sè stessa radiante di luce e d’intelligenza». E ancora un altro autore dice, intorno alla maniera di meditare, che bisogna prima chiudere le finestre e le porte; astenersi poi dal ridere e da profferire parole; stare in ginocchio o a sedere con gli occhi chiusi, o rivolti a un punto fisso senza volgerli mai da una parte o dall’altra. Recitare così le orazioni, pronunziando una parola a ogni respiro, e considerando, mentre si trae il fiato, la significazione della parola pronunziata, o la eccellenza di colui a cui è rivolta la preghiera, o la umiltà di chi prega. Questi due autori citati da ultimo non sono brahamani, nè biiddhisti dell’India; ma il primo è Simeone abate del monastero di Serocerco a Costantinopoli,34 il secondo è S. Ignazio di Loyola; [p. 131 modifica]e ne ho riportate le parole, perchè il più fervente Bhikshu della scuola contemplativa Buddhica, potrebbe farle sue. Del resto l’agiografia cristiana, da’ tempi della Tebaide ai tempi moderni, ci offre infiniti esempi da mettere a riscontro con quegli degli asceti d’oriente.

Sarebbe inutile pertanto, o fuori di luogo, il fare qui un confronto tra gli esercizii religiosi di credenze così diverse, destinati a produrre nelle anime appassionate di misticismo, quel fenomeno che vien detto estasi. Ma vi sono certe analogie che mi piace di far notare. Prima di tutto Brahmani, Buddhisti e Cristiani sono d’accordo che bisogna concentrare il pensiero in una idea fissa, sia l’Essenza universale de’ primi, il Nirvâna de’ secondi, o il Dio personale degli altri. Rompere poi i legami che ci uniscono al mondo, procacciare con alcune pratiche, quasi le stesse per tutti, un’alterazione nelle facoltà mentali, produrre così delle allucinazioni eccitando con appositi esercizii la immaginazione del devoto; tali sono i mezzi che tutti i fanatici di queste religioni adoperano, per separarsi e astrarsi dalle cose terrene. Il risultamento di queste pratiche è spesso il medesimo. Tra le altre, per esempio, Simeone abbate sostiene, che dandosi alla contemplazione in quella guisa ch’egli insegna, s’arriva a vedere la propria anima, o un altro sè stesso. E il Sâmanya phala, scrittura buddhica, assicura, che il [p. 132 modifica]religioso che è giunto al quarto Dhyana, «ha il potere di crearsi, una figura simile a lui ne’ sensi e nelle membra».35

A proposito ora di questi Dhyana, dì cui abbiam tenuto parola, di sopra, è pur curioso notare il rapporto che c’è tra questo modo di contemplazione che conduce all’estasi buddhica, e l’estasi che ci descrive S. Teresa. Ella pure distingueva contemplazione in quattro periodi, come i quattro Dhyana de’ seguaci di Gâutama. Durante il primo periodo, ella dice, bisogna cercare di fare a poco a poco morire il desiderio diivedere e di pensare, e devesi concentrare la mente soltanto nell’idea di Dio. Questo primo stato è il più penoso degli altri; imperocchè, quantunque il penitente faccia ogni sforzo per separarsi da tutti gli affetti, da tutte le passioni, da tutti i vincoli che la legano alla vita, l’eco del mondo giunge pur sempre ai suoi orecchi, gli commuove i sensi, e le tentazioni lo assalgono. Arriva però il secondo periodo, che S. Teresa chiama il periodo della quiete; nel quale il piacere della contemplazione è grandissimo: «e la consolazione è tanto viva, che anche le lacrime che Dio ci manda sgorgano dolcissime, e l’anima perde ogni desiderio delle cose di questo mondo». Nel terzo periodo poi, se i piedi restano pur tuttavia interra, la testa s’è già esaltata al cielo; perchè tutte le facoltà della mente sono occupate in Dio, nè d’altro sono capaci. «Restano assopite le potenze della volontà, dell’intendimento, della memoria e della immaginazione; e l’anima gode una soavità e un piacere ineffabile». Questo stato è «un delirio glorioso, una follia celeste, d’onde s’apprende la vera saviezza». Al quarto periodo, in fine, quando la mente è arrivata all’ultimo grado di esaltazione, [p. 133 modifica]l’anima ha perduto quasi tutte le sue facoltà. Le cose e le voci del mondo arrivano al devoto indistinte, confuse come venissero da lontano lontano, non lasciandogli traccia nessuna sui sensi. Ma anche questo fenomeno cessa, quando l’estasi è giunta al massimo. Allora il corpo stesso perde il sentimento della gravità; il penitente si sente come mancar la terra sotto i piedi, gli sembra essere spinto in alto, e rapito nell’aria.36 Non pare egli di leggere il brano del Sâmanya phala, o d’altro libro buddhico, dove si descrivono gli effetti che vengono al devoto, per l’esercizio dei quattro gradi di meditazione? Ma torniamo ora al nostro soggetto, e veniamo a parlare d’un’altra dottrina, che è un séguito dell’evoluzione del Mahâyâna, e che ci mostrerà sempre più quanto andaron corrompendosi i primi e semplici insegnamenti di Çâkyamuni.

Una dottrina d’origine probabilmente straniera viene ora introdotta nel Mahâyâna. Questa è la dottrina delle Formule mistiche o scongiuri; formule e scongiuri, che sono capaci di operare infiniti portenti. Ogni cosa, ogni Essere, ogni nozione dell’Essere è espressa con formule speciali, che sono chiamate Dhâranî. La dottrina del vuoto, fondamento del Mahâyâna, fu un terreno molto adattato per siffatta dottrina. E in vero, se tutti gli oggetti son vacui. Se essi non esistono che pel loro nome; il nome non esprime solamente l’oggetto, ma ne costituisce ancora l’essenza: pel nome si può dunque possederlo e dominarlo. La ripetizione continua di queste formule, e la contemplazione delle lettere colle quali sono scritte, fanno ottenere un potere assoluto sulla cosa o l’Essere a cui la formula magica è dedicata. Alla [p. 134 modifica]recitazione e alla contemplazione delle dette formule, si aggiungono anche, alcuni simboli chiamati Mudrâ; che sono segni convenzionali fatti colle dita della mano; i quali esprimono gli attributi di, qualche divinità, o quelli della cosa espressa nella formula magica stessa.37 La primitiva destinazione di queste formule, fu quella di indicare i mezzi per preservare l’umanità superstiziosa dai timori, dai pericoli e dai malanni. Perciò si trovano scongiuri o formule per difendersi dalle epidemie, dall’influenza delle cattive costellazioni, dai veleni, dai cattivi genii o demoni malefici come i Draghi, gli Yaksha ec. E come se non bastasse, ve ne sono di quelli a cui si attribuisce la virtù di realizzare tutti i desideri possibili; altri che fanno cessare la pioggia, il vento, la. tempesta; che garantiscono ad una donna gravida un maschio o una femmina a volontà; che possono evocare i Bôdhisatva, liberare dalla trasmigrazione; e finalmente delli scongiuri destinati all’acquisto della Bôdhi.38

Ma qui non si fermò l’opera depravatrice del tempo e degli uomini sopra le dottrine del primitivo Buddhismo. La dottrina dei Dhâranî ebbe essa pure il suo incremento, pel quale si andò formando la dottrina dei Tantra. Questa non solo segnò il termine della scuola contemplativa, ma chiuse eziandio la storia dello svolgimento del sistema buddhico. Il Dhâranî, o la formula magica o scongiuro che dir si voglia, è speciale e laconico: per ottenere il fine voluto non v’è altro a fare che ripeterla più e più volte accompagnata, o no, dai Mudrâ [p. 135 modifica]o simboli.39 La dottrina dei Tantra, oltre a queste cose, vuole che colui che fa scongiuri e incantesimi, sia uomo pure, integro, o come dicono i buddhisti, vaso eletto (vas electionis) capace di ricevere i segreti magici: e vuole pure la contemplazione e la meditazione. Una consacrazione speciale è pure necessaria per chi s’accinge a operare gli incanti, senza la quale non si può ottenere nessun resultato. È d’uopo ancora scegliere accuratamente il luogo dove deve farsi l’incantesimo; esaminare le relazioni che passano fra il maestro o sacerdote e il discepolo da consacrarsi; devesi tracciare un circolo o Mandala, per stare al sicuro da ogni cagione di disturbo; quindi innalzarvi un altare nel mezzo, e finalmente procedere alla cerimonia della consacrazione: dopo ciò l’iniziato si dà alla contemplazione.

Procedendo per tal modo, il devoto, quando ha scrupolosamente soddisfatto a tutti i riti di quella cerimonia, e condotto così l’incantesimo a termine con buon successo, può identificarsi, anche in questa vita, con una qualsiasi divinità buddhica. Per ottenere questo, il religioso non ha a fare altro che contemplarsi e considerarsi nella forma della divinità che ha preso per modello; facendo del suo corpo, del suo spirito, della sua parola, il corpo, lo spirito, e la parola di quella divinità. Per intendersi, è necessario notare, che, secondo gl’insegnamenti di questa scuola, l’uomo si compone di corpo, spirito e parola. Ora, perchè il devoto possa identificarsi con queste tre parti costituenti l’Essere, esso deve primieramente [p. 136 modifica]rivolgere lo spirito alla contemplazione di tale o tale altra divinità, a modo di esempio del Buddha, esprimerne poi col corpo gli attributi per mezzo dei Mudra, e con la lingua finalmente ripetere la formula magica, Dhâranî, che esprime l’essere divino che si contempla. Abituatosi a questo modo a compararsi al Buddha, il religioso gli si identifica, facendosi esso stesso divinità: come tale si innalza alla dimora dei Dêva, e può in seguito esser per sempre liberato dal trasmigrare pel mondo.

Con l’esercizio dei Tantra, si ottiene quel che i buddhisti chiamano la Siddhi, che è il fine al quale era rivolto l’incantesimo. Non tutti gli scongiuri però nè tutti gli incantesimi tendono all’identificazione col Buddha, cioè alla Siddhi suprema; ma a molti e vari Bôdhîsatva sono consacrati i Tantra, e a vari fini, che è quanto dire a ottenere varie specie di Siddhi. Alcuni Tantra, per esempio, sono fatti per acquistare qualche potenza o forza magica, come la celerità, l’ubiquità, il modo di rendersi invisibile, l’arte di fare il beveraggio dell’immortalità o per lo meno della longevità, il modo di dominare gli spiriti, vincere i nemici, disporre a proprio talento degli elementi. Alcuni altri hanno uno scopo religioso, come quello di evocare qualche Bôdhistva o qualche Buddha, per esser chiariti intorno ad alcun dubbio sulla dottrina, o per altra cagione. Infine l’intendimento principale è di conseguire, colla Magìa e con gli incantesimi, la stessa meta, alla quale i Sûtra dell’Hinayana e del Mahâyâna giungono per altra via: ottenere cioè il termine della trasmigrazione, per le differenti forme degli esseri che popolano il cielo, la terra e l’inferno.

Ecco come s’andarono trasformando e corrompendo le originarie dottrine buddhiche. Osservando questo sistema nell’ultimo grado di svolgimento al quale giunse, [p. 137 modifica]a stento si potrebbe ammettere, che tante strane e assurde credenze possano essere uscite dalle poche e semplici verità, che formavano il Buddhismo primitivo. Ma questa religione soggiacque anch’essa a quella legge, alla quale tutte le religioni soggiacciono. Il Buddhismo oggidì professato dalla maggior parte de’ popoli dell’Asia, ha tanto che fare con le dottrine del suo fondatore, quanto l’odierno cristianesimo con gl’insegnamenti de’ primi Apostoli.


Note

  1. Wassiljew, p. 18-19.
  2. Wassiljew, p. 224.
  3. Yâna, in tibetano Theg-pa, «wehicle, carriage» (Csoma, Dit. Tib., p. 55). «The Vehicle by which a man is carried beyond the river of existence, viz. moral perfection and metaphysical science» (Jaeschke, Dit. Tib., p. 125). In cinese, Chêng, che vuol dire un mezzo qualunque di trasporto, come un carro, una cavalcatura ecc., passaggio da un luogo a un altro, una rivoluzione, un giro.
  4. Koeppen, i, p. 150,
  5. Târanâtha, cap. ix, p. 51.
  6. Vasumitra in Wassiljew, p. 224-227.
  7. Wassiljew, p. 225 e n. 3.
  8. Wassiljew, p. 50, 59 e segg.
  9. Julien, Listes diverses des noms des dix-huit écoles schismatiques, nel Jour. As. oct-nov. 1859.
  10. Questo trattato porta il titolo di Samayavadôparacanacakra.
  11. La solita discordanza, più volte fatta notare, fra la tradizion de’ buddhisti del settentrione e quelli del mezzogiorno, si trova anche in questa parte della storia della loro religione. La lista delle scuole secondo i buddhisti del sud si potrà vedere in Burnouf, Lotus de la bonne Loi p. 357 (appendice).
  12. Nâgârjuna visse 400 anni dopo il Nirvana del Buddha. (Lassen, ii, p. 60). — Târanâtha è d’opinione, che i primi libri del Mahâyâna apparissero al tempo di Srisaraha o Rahulabhadra, che visse poco innanzi Nâgârjuna. Schlaginweit, Bud. in Tib. p. 31. — Wassiljew, p. 200.
  13. Samdhinirmocana nama mahâyâna sûtra, in Wassiljew p. 152-153.
  14. Prajňâpâramitâ, Hodgson, nel Phoenix, t. ii, 1871, n.° 15, p. 46.
  15. Vimalakirti nirdêça, in Wassiljew, p. 152.
  16. Prajňâpâramitâ, in Wassiljew p. 152.
  17. Ashtasâhasrika, Hodgson, ibidem p. 12.
  18. Ratnakûda, Wassiljew, p. 155.
  19. Ghanavyûha mama mahâyana sûtra, ibidem, p. 160.
  20. Ibidem.
  21. Wassiljew, p. 133.
  22. Ratnakûda, in Wassiliew, p. 155.
  23. Mahâbherihârakapaivarta sûtra, ibidem, p. 150.
  24. Nirvâna sûtra, ibidem.
  25. Saddharmapundarika sûtra, ibidem.
  26. Vimalakîrti, ibidem, p. 152.
  27. Ghanavyûha sûtra, ibidem, p. 161.
  28. Bôdhîsatva, è parola che vuol dire: Colui che possiede l’essenza della Bôdhi (Burnof, Int. à l’Hist. du Bud. p. 110).
  29. La scuola Yôgacârya si dice fondata da Aryâsanga che visse cento anni dopo Nâgârjuna, cioè quasi 50 anni av. C.
  30. Wassiljew, p. 136.
  31. Samâdhi. Il Turnour nel glossario del Mahâvança spiega questa parola: «meditative abstraction»; e il Burnouf, ii, p. 799: «l’empire qu’on exerce sur soi-même.... la possession. (Samâdha) de soi-même». In Tibetano Ting-nge-hzin: «deep meditation». (C. Kőrösi, Dit. Tib., p. 52. — Jæschke, Dit. Tib., p. 120).
  32. V. Wassiljew, p. 137.
  33. In questa sillaba óm (a-u-m) gli Indiani vi distinguono le tre persone della triade brahmanica, Çiva, Vishnu e Brahman.
  34. Fleury, Histoire ecclesiastique, l. xcv, c. ix, an, 1341. — Questa setta cristiana, preconizzata dal detto Simeone, fu chiamata degli Omfalopsichici o Umbilicari. Incominciò nel XI secolo e si rinnovò nel XIV, specialmente a Costantinopoli. I monaci del monte Athos appartennero un tempo a questa setta, a’ cui seguaci fu dato, insieme con quelli d’altre sette congeneri, il nome Esicasti. Questi Omfalopsichici dicevano che la luce, che essi credevano vedere nelle loro viscere, era la luce del Monte Taborre, la quale apparve agli Apostoli durante la Trasfigurazione di Gesù.
  35. S. Hardy, The Leg. and Theor. of the Bud., p. 181.
  36. Vedi Ch. Letourneau, Physiologie des passions, cap. iv e v.
  37. Wassiljew, p. 143. — Il Surmgama sûtra (in cinese Shunleng-yen King) è uno dei libri che contiene la lista più completa dei Dhâranî.
  38. Wassiljew, p. 177-178.
  39. Questa ripetizione della formula deve esser fatta un certo determinato numero di volte a seconda dei casi; a quest’uopo i Buddhisti adoperano delle corone simili a quelle che da noi si usano per dire il rosario. V. Wassiljew, p. 192.