I tre tiranni/Atto I
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ATTO I
SCENA I
Girifalco si lamenta d’Amore. Pilastrino lo ammonisce schernendolo; e, non potendo ultimamente mangiar seco la mattina, si fa dar danari per comprar da cena e promettegli di menar l’altro parasito il quale gli aveva già fatto credere che fosse negromante.
Girifalco vecchio, Pilastrino parasito, Orgilla fante.
Girifalco. Va’ sempre stenta! Caca gli occhi e ’1 sangue
in gioventù per non esser mendico
quand’altri è vecchio! Or vedi come, al fine,
tutto è niente; che qui mai non puote
l’anima aver riposo in fin che dura
con la carne congiunta.
Pilastrino. Oh bel dettato!
Gli è bene un buon boccon, se la è congiunta
con la mostarda; ma vuole esser porco
di pochi mesi. Oh! Parti che ’1 vecchione
ragioni anch’egli de bene vìvendo?
Piace anche a me.
Girifalco. Deh! taci ivi, ti prego,
o parla piano; ch’oggi ho poca voglia
di cianciar teco.
Pilastrino. Tu sei pur lunatico,
Girifalco: perdonimmi i tuoi anni.
Deh guarda che natura! Or si lamenta,
or tace e fa il balordo, or ride, or piange,
or ciancia fuor di modo e si rallegra
e infuria; che talora ho meraviglia
ch ’un che pratica teco, in otto giorni,
noi fai impazzir. Che si che ancor ti veggio,
un tratto, negromante? uomo composto
di sciatiche e catarri e d’avarizia,
d’ira e d’amore.
Girifalco. Abbimi compassione.
Vedi pur com’io sto; lasciami alquanto
sfogar, ch’io moro.
Pilastrino. Possa sfogar tanto
che ne rimanga agghiacciato per sempre.
Non restar giá per me.
Girifalco. Sempre ho stentato;
né mai mi ho tolto un’ora di buon tempo,
in questa vita, per non stentar sempre.
Ed or che l’etá mia richiederebbe
qualche riposo e d’animo e di corpo,
cosi dentro mi sento travagliato,
inquieto e confuso che desio
talor la morte come cosa dolce.
Ma non vorrei esser posto in sacrato,
se non pensassi fare, anzi quel punto,
vendetta e strazio di quella frittella
che n’è cagione.
Pilastrino. E che pensi di fare?
se Dio ti guardi, come ha fatto i denti,
ancor la vista.
Girifalco. Se mai viene il tempo...
Non vo’ dire altro.
Pilastrino. Forniscel di dire.
Che la farai, come ti vien dietro,
morir forse in sul buco? Oh guarda volto
da far morir le donne di martello!
Che sia impalato!
Girifalco. A chi dici «impalato»?
Pilastrino Ho detto che mi tira ornai ’l palato;
e tu mi pasci qui pur di parole.
Saresti appunto buon, per la cappella
che si fa al Baracane, per un santo
in su l’altare o per un di quei voti
con le man giunte; che non mangi o bèi
ma vivi d’aere.
Girifalco. Lascia: berem poi.
Anima mia, tu mi fai pur gran torto.
E poi per chi? Per un morto di fame,
un furfantello, un ladro, un giocatore,
un plebeo. Ma guardati, Filocrate;
che, a’ miei di, mai nessun mi fece ingiuria
che non mi vendicassi. Vatti sposa:
e to’ per donna qualche ruffianacela
per tua infame. Oh! co! ca! ca! Io muoio.
Rinego il di che mi battezza. Ca! ahi!
In mal punto. Ah!
Pilastrino Da’ giú, ch’io ’l voglio, il cuore.
Che fai? Par che rineghi anche il battesmo.
O Girifalco, tu sei diventato
un gran biastemmiatore. E poi sei vecchio
e mostri esser saputo!
Girifalco. Io son perduto
piú lá che ora. Vo’ chiamare il diavolo.
Diavol!
Pilastrino Di’ forte, che non ti può udire.
Su! che ti porti presto.
Girifalco. Che hai detto?
Pilastrino Che? non m’hai forse inteso? Che ti porti
dov’è colei che ti può dar salute
e tór d’angoscia.
Girifalco. Aimè! che sarò morto
prima ch’io n’esca.
Pilastrino Va’. Se non moro io
in questo mezzo, sará forse troppo
presto per te.
Girifalco Non vorrei esser nato
prima ch’esser cosi.
Pilastrino Fai grande errore
a dir tal cose. Oh! Se ’l sapesse Lucia,
e che direbbe de la tua incostanza?
Che debbi pur saper che amano i vecchi
e perché son fermi e potenti a durare
a le lor dolci pene; ove noi altri
reggiani di rado. E l’aspettare ancora
non ti debbe esser grave perché sai
ch’un tesoro si fatto non s’acquista
in un mese o in uno anno. Ma puon caso
che n’aspettassi ancora venticinque
e poi l’avessi. Non saria il tuo meglio?
che allor forse saresti un’altra volta
tornato giovan, come ancor giá fosti,
e piú atto a l’amor ch’ora non sei.
Non perder la speranza.
Girifalco E che? Saremmo
forse come leggiam de la fenice,
noi innamorati?
Pilastrino Tu sol sei fra tutti
fenice. Gli altri li vo’ dir pipioni.
Ma, s’Amor non si muta di costume,
tengo scorciare a si vecchia fenice
con l’ali il volo. Di fiere piú brave
ho giá domato.
Girifalco E perché son dannato?
Ve’ ladroncel! Non so che mi ritiene
che non ti lasci un pugno, che tu veda
le stelle a mezzo di.
Pilastrino Non so vedere
altrimenti le stelle a mezzo giorno
se non sotto la botte; ma son certo
che non le vedrò giá sotto la tua,
subbio e telare, a mille opre d’aragna
ch’ivi tesse la muffa per vestirne
gli amici de l’aceto e del vin guasto.
Resta con Dio. So dir che sei persona
d’aver teco de’ topi e de le mosche
in compagnia. E da lor sei fuggito,
cosi sei largo!
Girifalco Dch! non ti partire.
E dove, Pilastrino? Una parola
odi, se vuoi.
Pilastrino Non giá da quello orecchio.
Di’: che ti manca?
Girifalco Cavali la cappa.
Non odi, Orgilla? Vo’ che desni meco,
se non ti è grave.
Orgilla Or che se l’ha cavata,
il briacon, mio danno, se ogni mese
non ci torna a veder. Parti governo,
questo, di casa? Mi morrei se, un tratto,
non gli pesto a mio modo quel mostaccio.
Mettiam pur fuor la frasca.
Pilastrino Orsú, madonna!
Bisogna che abbi compassione un poco
al messere ancor tu, poi che tu vedi
come sta il poverin.
Orgilla La mala pasqua,
e presso che non dissi, che vi venga
a tutt’e dui! Forse che non s’arrabbia
per casa, poi, di questa massarizia
e non rugnisce? Saria manco male
se spendesse o comprasse della robba, —
poi che vuol fare il grande.
Pilastrino Oh! Di’ ben forte
che non v’è da mangiar; ma intanto cuoci
quello che c’è.
Orgilla Vien qua, vecchio insensato.
Tu sai pur che costui non mangia rape
cotte giá di tre di né di pan cotto
minestra, come farai tu stamane;
né bee meschiati.
Pilastrino Io mi turo gli orecchi.
Tra voi gridate e menate le mani,
pur ch’io panebri.
Orgilla Tu tirerai in fallo,
Pilastrin, questa volta, che la carne
rimasta è in beccaria. Che vuoi ch’io cuoca?
le miei mutande?
Pilastrino Giá denno essere arse,
se l’hai portate un di, che ’l vostro fuoco
non cuoce o scalda.
Girifalco Pilastrin mio caro,
tu vedi. Tornerai da me stasera,
che compreremo una libbra di lonza
per fare arrosto; e poi, con quel guazzetto
che fa l’Orgilla, vo’ che noi sguazziamo.
E mena l’indiano.
Pilastrino Hai ben pensato.
E che ci arem da cena?
Girifalco Non t’ho detto?
Pilastrino Non t’ho inteso.
Girifalco Una libbra di buon porco.
Pilastrino A incominciare. E poi infra pasto?
Girifalco Quello
non basterá? Tu se’ pure, oggi, strano!
Non t’empierebbe...
Pilastrino E si! Dici da vero?
Tu vuoi tener me a cena con un’oncia
di carne e con guazzetti? Tu mi vuoi
far ridere, oggi. Or veggio ben che Amore
qualche volta ti trae del seminato.
E poi sei vecchio. Dammi a me i danari,
che comprerò da cena onestamente.
E non esser si scarso.
Girifalco Ecco i danari.
Piglia quel che bisogna. O Pilastrino,
ferma un poco. Che fai? Non c’è moneta?
Questi quatrini... Sta’.
Pilastrino Non dubbitare:
ti porterò l’avanzo. Io voglio andare
a cercar di colui.
Girifalco Non v’è a bastanza?
Odi un poco.
Pilastrino Si ben; ma lassa. Io vado
caminando a le porte, or ch’è passato
il mercato, se trovassi qualcosa
e spender poco. Non uscir di casa.
Torno con lui stasera.
Girifalco Ecco, or costui
mi vuol brugiar di qualche bolognino
con queste parolette: che son fatti
come ’l tizzone. Ma son bene allegro,
se mena il negromante. Entrerò in casa:
che mi par di sentire un ventarello
non molto sano.
SCENA II
Siro servo, non introdotto in altro luogo che in questo, parlando con Timaro, apre e dá lume a la favola: e questo è costume degli antichi comici.
Siro, Timaro servi.
Siro Or veggio il lor cervello.
Innamorati? Che sia maladetto
quel giorno traditor che incominciai
a servir mai nessun! che non mi manca
da starmi a casa mia ben da mio pari
e sto a straziarmi dietro a questi cani
che tengon servitori come gli osti
le bestie da vettura; e ’l di non basta,
che ancor s’ha a star la notte or qua, or lá
per lor capricci. Che sia strutto Amore
e chi lo fé’, chi ’l pruova e chi gli crede!
Io mai noi vidi.
Timaro È Siro che ragiona.
Lasciamili accostar. So che camina!
O Siro, aspetta.
Siro Che vai tu cercando,
Timaro?
Timaro Sono uscito de la strada
per venirti dietro, che sentiva
bastemmiar non so che.
Siro Si, ch’io bastemmio
qualche volta me stesso; che non posso
ornai durar con questo insopportabile,
quasi ho detto, poltron.
Timaro Che c’è di nuovo?
Siro Ultimamente non m’ha minacciato
di fare e dire, s’io non truovo modo
ch’esca di questi affanni?
Timaro O dagli il modo.
Siro E come?
Timaro Che s’appicchi per la gola!
Siro Or non ho punto voglia di scherzare.
E’ noi potrebbe fare altri che Dio
che l’ami, se non l’ama.
Timaro Sa bene egli
se l’ama o no.
Siro Non fosse egli piú vivo!
Io l’ho cercato: ch ’è piú d’otto giorni
che non mi fermo mai, né di né notte,
sol per saper di questo; e truovo al fine
ch’ella l’ha in odio sopra ogni altra cosa.
E questo è la cagion. L’ha sempre amata
un Filocrate giovin, qual si dice
che se la sposi in breve. Ora il padrone
vorria impedir che questo non seguisse.
E, per esser chi egli è ed ella vile,
vorria poterla avere a posta sua.
A che bisognerebbe che mutasse
l’animo, prima, in disamar chi ella ama;
e poi si fesse tal che si grande odio
rivolgesse in amore; e poi la madre,
I t ch’è la piú saggia donna, intera e santa
di questa terra, consentisse a questo:
il che non potria far, penso, un reame.
E giá mille altri han lasciato l’impresa,
sol per esser la madre quel ch’ella è.
Potria forse anco star; che non è ’l primo
miracol ch’abbia fatto, a’ miei di, l’oro.
Ma non voglio che mai per mezzo mio
faccia tal roffíania.
Timaro Farei ancor peggio,
per il padron, pur ch’ei mei comandasse.
Che ne puoi perder tu?
Siro Quello e’ ho al mondo,
servendo un fuor di senno e disperato.
Ma ascolta. Non è solo. Girifalco
vecchio, si avaro, anch’egli è in questo ballo
(ed era si stimato!): che un Listagiro
con Pilastrino e certi buon compagni
l’han messo sii ch’ella gli muor dietro.
E fangli far l’amor seco ogni giorno:
cosa da smascellare. E, perché mai
non la vede, gli dicon che ’l difetto
vien e’ ha poca veduta. E ’l moccicone
è giá venuto a tale, in questa giostra,
di cosí scarso, che gli tran canoni
che ne portano il sangue. E vo pensando
che Pilastrino, un tratto, il peli e strini
fine in su l’osso. Specchiati in quel nome.
Da l’altro canto mi par si vedere
che ’l padrone (e Dio voglia ch’io mi menti)
faccia con colei tanto che la sposi.
Che ti parria di questo?
Timaro Io non mi curo.
Sia come vuol. Non ho di questi impacci;
non penso tanto inanzi e mi contento
di questa vita: ben mangiare e bere
e gire a spasso, portato e’ ho su,
talor, come acqua e legne e governato
ben la mia stalla e spazzato la casa
e netto gli usuvigli di cucina,
le secchie e i caldaroni e, alcuna volta,
supplito anche ai bisogni de le fanti
che non mi lascian viver.
Siro Si, t’ho inteso.
Tu la discorri bene.
Timaro Io me ne vado
di lungo a casa (m’hai tenuto un pezzo),
che ’l padron non gridasse.
Siro A posta tua.
Questi stan ben con queste simil gente
che sopportan com’asini venduti;
o ver gli adulatori. Io mi risolvo
di non vi tornar piú; ch’ornai son chiaro
ch’ogni or ne sarei a peggio, che Fileno
(perché dice a suo modo) è seco il totum.
Io sarei sempre schiavo.
SCENA III
Crisaulo batte il servitore e biasma forte con Pilastrino l’avarizia; e, incominciandosi a doler d’Amore, Pilastrino lo lascia.
Crisaulo nobile, Fileno, Timaro servi, Pilastrino.
Crisaulo Basta. Ho inteso.
Ma parti che ci torni?
Fileno Eccol, per Dio.
Contava i passi; or corre.
Crisaulo Io son disposto...
A che sei stato tanto, manigoldo?
Ho voglia di...
Timaro Signore, ho corso sempre.
Questo è ’l resto di tutto il fornimento,
d’infuor la sella che non è fornita.
S’avrá stasera.
Crisaulo Hai piú tu di bisogno
del baston che non ha di te la stalla.
Canaglie! che non passa per la strada
civette o oloceni o per l’aere augelli
che non voglin vederli.
Timaro È pure stato
il maestro che m’ha fatto indugiare
questo poco: che non voleva darmi
quegli avanzi del drappo e stava a dire
che non è usanza e che none sta bene
a un vostro pari; e quasi bastemmiava.
Son ladri: sempre voglion sopra i pregi
di quel d’altrui.
Crisaulo Ah vigliacco, poltrone!
Questi sono gli onor? Vo’ che tu impari
per l’altre volte.
Timaro Oimei, padron! Son morto.
Crisaulo Ti vo’ spezzar quella testa balorda.
Chi te l’avea commesso?
Timaro Oh gramo a me!
Crisaulo S’io vi ritorno...
Timaro Oimei, che ho rotto gli ossi!
Morrò in duo di.
Pilastrino Oh! co! Non piú, Crisaulo.
Oh! co! Crepo di rise. Gli farai
smaltire i sughi, con quelle sopposte
che gli hai fatto nel viso da sedere.
Cosí si smuove il corpo ai manigoldi
che vogliono, a dispetto del padrone,
far massarizia: ma la medicina
non vai niente, se non si continova
piú d’una volta il giorno. To’, poltrone!
Come fa il morto!
Crisaulo Corre e va’ riportali.
E di tua bocca di’ che t’ho punito
di tanta villania: se non, con altro
la farem che con calci.
Timaro Ben, messere.
Che ti possa esser mozza quella gamba,
prima ch’io ti riveggia!
Pilastrino O va’ pur via.
So che ti sentirai di quelli schiaffi,
per otto giorni almeno, a cavalcare.
Se avessi istaman fatto colazione,
non avrei si goduto. O guarda dove
si truova esser condotto un gentiluomo!
Che lasci ogni anno cento pezzi d’oro
per non dar luogo agli spirti che sempre
biasmano altrui; ed or, per quattro soldi,
avrá dato da dire a tutta piazza,
quest’ignorante. Ma che! Non importa:
perché sei cognosciuto da ciascuno
per l’uom che sei.
Crisaulo Ho sempre da natura
avuto questo, che d’alcuna cosa
non mi son dilettato quanto avere
il mondo tutto e, se fosse possibile,
l’inferno amico. E quegli che altra via
tengono, essendo nobili di sangue
e di gran facultá, debbiam chiamargli
animai brutti. Avarizia malnata,
d’ogni altro mal radice! O pien d’inganni,
fraudi, ruine e morti, oro, tiranno
fatto di quello a cui ti fé’suggetto
chi tutto fé’! Come può tanto errore
fermarsi in noi? poi che veggiamo espresso
che chi piú n’ha piú stenta e manco gode.
Che noi fuggiamo?
Pilastrino Ogni uom sa predicare;
e tanto piú di quel che poi non crede.
Certo è che Voxo è cosí maladetto
che alcuno esser non può mai, in fin che n’ha,
contento o riposato. Ma vorrei
veder pigliare, un tratto, a chi ’l cognosce
qualche rimedio.
Crisaulo E questo è ’l colmo appunto
del nostro error: che lo veggiamo aperto;
né in alcun modo ne vogliamo uscire
o rimanerne.
Pilastrino Tu non neghi, adunque,
essere in grande errore?
Crisaulo Errore. Ah quanto
fora ’l meglio esser nato in vii capanne,
talora, e in boschi che ne l’alte case!
Chi noi pruova noi sa.
Pilastrino Cosí sarebbe
piú felice ’l mio stato assai che ’l tuo;
che non mi truovo un soldo.
Crisaulo Senza dubbio.
Pilastrino È meglio, adunque, che cangiam gli stati
e le fortune. E tu sarai contento
sempre nel mio: e si lieto e felice
e senza alcun pensier che non vorresti,
quando lo provi poi, per tutto il mondo
non l’aver fatto. Ed io, in cambio tuo,
torrò questi tuoi affanni.
Crisaulo E che potresti
cangiar se non que’ panni e quella pelle?
o ’l vizio orrendo che non potrá mai
I mancare in te? poi sai che non possiamo,
per noi stessi, cangiar stato e fortuna:
che s’appartiene al ciel.
Pilastrino Ti vo’ insegnare.
Avremmo prima a tramutar la robba:
verbi gratía, la tua fa’ che sia mia.
Tu voglio che ti chiami Pilastrino;
ed io sarei Crisaulo. E, in questo modo,
non sol muterai nome, ma costumi,
stato e natura; e forse ancor la mente.
Proviam, se tu noi credi.
Crisaulo Io ti ringrazio;
che è buono il tuo consiglio: ma non voglio
ch’oggi ne venda a me.
Pilastrino Ah! ca! ca! ca!
Non ti si può appicare oggi niente
di questa mia dottrina. Io me ne vado.
Qui non si busca.
Crisaulo Sta’, non ti partire;
fermati un poco.
Pilastrino Non posso indugiare.
Crisaulo E che buona facenda?
Pilastrino Un’altra volta,
se riesce, tei dirò; che penso, un tratto,
uscir d’esti pedocchi. Non dir nulla,
che vo’ ch’abbiam da rider per cent’anni,
se mi vien fatta.
Crisaulo Non vo’ sapere altro.
Guarda pur di non far qualche trabalzo
che te n’abbi a pentir. Di poi quel giorno,
non mi sai dir niente di colei?
Tu sei pur negligente!
Pilastrino Ora non posso
dirt’altro, e’ ho da fare in fine a sera.
Ma vo’ che sappi la piú bella berta
ch’io tramo adesso.
Crisaulo Non lo vo’ sapere.
Attende ad altro, e forse ti fia ’l meglio.
Ier la vidi duo volte a la fenestra.
Felice giorno!
Pilastrino Ed io piú di sei volte
la vidi, dopo bere; e l’abbracciai.
Chi è piú felice?
Crisaulo Aimè! Vita infelice,
quando fia ’l di che fuor di tanti affanni
ti scorga Arnojj che giá condotta a tale
t’ha in poco tempo ch’altro ornai non resta
in tuo conforto che la morte istessa
o di lei la speranza?
Pilastrino .Oh! co! T’ho inteso.
Addio; fa’ pur da te. Questi incomincia,
pur come suole, a noverar le stelle
e gli animali e le donne e le piante;
i sassi e i monti e l’acque e ’l cielo e l’aere
dimanderá crudeli; e la fortuna
e la sua sorte iniqua e ingiuriosa;
troverá tutti i santi, al fine, in fraude;
e vorrá far vendetta.To voglio andare
a comprar, prima, e, poi, in qualche taverna,
fin che giunga la sera, anch’io a gridare
con le mezzette.
Crisaulo Aimè! Dolce mia luce,
quando mai resterai di tòrti in gioco
Commedie del Cinquecento - i. 13
questa mia miser’alma? e quando avranno
mai fin tante passioni? e le cocenti
fiamme fian spente? e quando fia mai vinta
da pietá cosí dura altera mente?
o di me sazia quella cruda voglia?
Certo, non mai; che la mia sorte è tale
ch’io sempre peni. Ma lascia, che, in breve,
forse questa mia man ti fará lieta
di tanto desiderio e fia disciolta
l’alma d’está prigion.
Fileno Fornisce, un tratto.
Che cosa è questa, tanto lamentarsi
e rinnegar la fé? che tanti stinchi?
tante prigion? Chi ti sentisse, certo,
giudicherebbe ch’aspettassi or ora
acerba morte. Hai pur questo tuo pecco,
come le donne, di voler morire
d’ogni picciola cosa e avere in cima,
come lo sputo, il pianto. Se non fosse
ch’io troppo t’amo e del tuo mal m’incresce,
in fine al cuore avrei or con fatica
ritenuto le risa. È pur vergogna
tanta viltá.
Crisaulo Dico che n’ho per sette
de’ buon consigli. Ma questo non basta:
che bisogna pazienza; di che i santi
mancan talora.
Fileno Eh! va’: l’hai per costume
questo voler morire. E poi per chi?
Una fraschetta, che, chi la strizzasse
tutta, non n’usciria tanto di buono
che te n’ungessi un’unghia.
SCENA IV
Filocrate viene a parlare a Calonide; e rimari seco di sposar Lucia di corto.
Calonide madre, Filocrate giovane, Lucia figliuola, Girifalco.
Calonide Chi è giú?
Filocrate Io sono. Aprite.
Calonide Aspettami, figliuolo.
Filocrate Non mi par giá cangiata. Oh! Dio volesse
che non ci avesse visto! Iddio ti guardi,
madre. Quanto m’allegro di vederti
cosi di buona voglia! ch’istanotte
non ho dormito mai, del dispiacere
ch’ebbi, perché pensai che ci vedesse
Demofilo, iersera.
Calonide Anzi, ci vide:
e me ne dimandò; ma tanto seppi
bene acconciarla che poi non disse altro.
E di qui presi occasion d’entrare
ne’ fatti tuoi; e, per fartela breve,
tanto ho saputo ben dir mal di te
che, d’uomo che ci fu giá si ritroso,
or n’è contento e l’ha rimessa in me.
Che faremo ora?
Filocrate E che! Vo’ che n’usciamo.
Questo è stato ben fatto: aver disposto
la cosa seco. Orsú, madre! Ora è fatta.
Porgimi qui la man; ti do mia fede
di non mancare; e cosí fa’ tu a me.
I Quando farem le nozze?
Calonide Ora, a tua posta:
.che a me non manca se non provedere
a certe cosarelle; poi, del resto,
possiam farlo istasera. Ma indugiamo!
ancor duo giorni perché a lui non paia
che siam corrivi. E tu fa’ che non manchi.
A te ne sto.
Filocrate . Perché? non è giá fatta?
Calonide È fatta, si, ma vo’ veder le nozze:
che non vo’ star piú in questo struggimento,
che importa troppo; e lo starne sospesa
non è sicuro.
Filocrate Io sono a le tuoi voglie;
altro non bramo. Ma vorrei che anch’ella
mi toccasse la mano.
Calonide Oh! S’è per questo,
anco s’ha da far ben. Dalli la mano.
Orsú! A chi dico?
Filocrate Quando fia mai l’ora
per me tanto felice che, legati
d’eterno nodo, di tante fatiche
e tanti stenti al fin mi sia concesso
cogliere i dolci frutti? Aimè! ch’io temo,
si come mi cognosco al tutto indegno
d’un tal tesor, che non mi sia negato
da la mia sorte.
Calonide Lascia andar da canto
queste tuoi leggerezze. Ora attendiamo
che si dia fine. E poi vo’ che tu pigli,
figliuolo, per potervi mantenere
sempre nel grado vostro con onore,
qualche onesto esercizio; ed io giá mai
non ti son per mancar.
Filocrate Lo voglio fare.
E son restato in fine a questo giorno
perché, mercé di lei, cosí inquieto
era di mente che ad altro pensare
non mi poteva dar che a dimostrarle
quanto fosse ’l mio amore. E ancor la veggio
tanto esser de le suoi rare bellezze
superba e altera che non par si degni
accettarmi per suo.
Calonide Taci, figliuolo.
Or non vo’ dir piú in lá: che, se sapessi
gí’intrinsechi di lei, forse altrimenti
ti parrebbe col ver; che tutta notte
^ m’abbraccia e bascia e spesso ancor, se ’l giorno
non ci sei stato. In fine, ancora in sogno
ti chiama e piange e meco si lamenta
con dir che tu non l’ami; e ben talora
c’è che fare appagarla.
Lucia Oh che bugie!
Non è giá vero.
Calonide Cosí fosse manco
in tuo servigio come è da vantaggio
di quel ch’io dico. Ma ben sai che poi
non staria bene a lei essere ardita
e parlar come me. Ma sia pur certo
che d’affezion ti avanza.
Filocrate Lucia, è vero?
Lucia Che cosa? ,
Filocrate Quanto ha detto, qui, tua madre.
Lucia Ha detto cose assai.
Filocrate Non ti ricordi?
Che tu ami tanto me quant’amo io te.
Ma non lo credo.
Lucia Tu non sei cristiano,
se tu credi si poco. E perché questo
non creder, si?
Filocrate Perché vedrei gli effetti,
se cosí fosse. Or che rispondi a questo?
Non ti fare insegnar.
Lucia Faccia mia scusa
la fanciullezza mia, che inver non so
darti risposta.
Calonide E che vuoi che risponda?
che non ha mai parlato con alcuno
quanto or con te. Ve’, ve’! Dimmi, Filocrate.
Chi è quel vecchio? che ogni di lo veggio
passar di qua.
Filocrate Piú presto di’, ci impazza:
che, secondo che ho inteso, è innamorato
costi di Lucia e la torria per moglie.
Guardalo, un tratto. Oh! gli è ’l buon capitale!
Felice quella donna che l’avrá!
che è tutto robba.
Calonide Oibbò! ibbò! ibbò !
Che è quel ch’io sento? E quel vecchio pelato
(e gottoso vuol tór donna ancor egli?
Si li vuol dar. Te ne contenti, Lucia?
Guarda che bella cera!
Lucia Par lo sposo
de la madre de’ vecchi.
Calonide Io dico il padre
de’ guattari che sono innamorati.
Non si può bussicar, tanto è pasciuto!
M’ha cosí cera che debbe esser nato
a la luna mancante.
Filocrate Eh! Il poverino
non fu mai savio. Oh! Senti che si spurga.
Gli è caduto il cimurro: avria bisogno
de la scuffia de l’asino. Ah! ca! ca!
Bella cosa ch ’è un pazzo!
Calonide Orsú ! Va’ via,
che non pensasse mal: che sai com’oggi
si vive al mondo.
Girifalco Io son mezzo aggirato.
Mi parve pur veder lá non so chi;
ed or si fugge; e sento in qua romore.
Qualche quistione è nata. Meglio è ch’io
ritorni in dietro, che non ritrovassi
quel che non vo cercando.
SCENA V
Pilastrino porta a Orgilla da cena abbondantissimamente e commette che ordini per la sera; e, volendo ella saper la cagion di ciò, si parte. Ed ella chiama Eparo lavoratore ivi a caso per farsi aiutare: il che dimostra l’avarizia di Girifalco che non teneva famigli.
Pilastrino, Orgilla, Eparo villano.
Pilastrino Orgilla! o Orgilla!
Orgilla E che vuoi, Pilastrin?
Pilastrino To’ questa robba.
Non morrem giá di fame.
Orgilla Oh! Oh! Puon mente.
Ve’ quanta robba! Oimè! Mi faccio il segno.
Che vói dir questo? È forse dodici anni
che sono in questa casa e si ti giuro
che non ne ho visto mai per la metá.
Dimmi, di grazia.
Pilastrino Non è tempo, adesso.
Fa’ d’aver cura a questo, che stasera
ogni cosa sia cotto.
Orgilla Oh! S’io gli cuoco,
ch’io caschi morta, se prima non dici
la cosa come sta.
Pilastrino Tu vuoi ch’io ’l dica?
In casa s’ha da fare un par di nozze.
Bastiti questo.
Orgilla, Schch! Dimmi il vero.
Pilastrino Attende qui.
Orgilla Di grazia, dimmi il tutto.
Pilastrino Noi saperai, se non m’attendi prima.
Incomincia qui. Svi!
Orgilla Mezzi i pollastri
arrosti e mezzi lessi e questa carne
a l’ordinario e mezzi anco i pipioni
faremo arrosto e gli altri in un tegame,
da far solo a l’odor levare i morti,
come so fare.
Pilastrino Iddio ti benedica.
Tu sei saccente piú de la metá
ch’io non pensava. L’altre cose tutte
rimetto in te.
Orgilla Che vuoi far li da canto
di quel fagian?
Pilastrino Lo voglio di mia mano
governare istasera: e imparerai
un modo onde potrai fare al messere
mangiarsi, un tratto, in cambio di lasagne,
i suoi stivali. Come torna, digli
che aspetti in casa; che avrò il negromante
stasera meco.
Orgilla E tu vai, Pilastrino?
Che m’hai promesso?
Pilastrino Nulla.
Orgilla Ah sciagurato!
Tornaci pure a cena. O vecchio matto,
dove hai lasciato andare il tuo cervello?
dove è ’l tuo senno? Ho visto cento pazzi
da incatenar che non farian mai quello
che fai or tu in vecchiezza. Ma Dio voglia
che non sia qualche tratto di costoro
di mala sorte. Eparo! o Eparo!
Eparo Ben?
Orgilla Ben fostú mézzo, sciocco!
Eparo Ben, madonna:
che ti manca?
Orgilla Non altro se non quello
che hai tu e non ho io.
Eparo Non so che m’av’i
che questi pagni frusti qui di nogona
ed una capannuccia a ca’ e l’asina
di mia moiera. Egghi negotta ancora
che sia per ti?
Orgilla Si ben che c’è; quell’asina
di tua mogliera.
Eparo Mò non g’ho di quella
a far negotta é, che l’è del suoccio.
Li faccio ben le spese e la somezo
e la governo ancor; ma l’è di lui.
Maidò, non g’ho da fare é.
Orgilla O cappachione,
si vede pur che sei nato villano,
e’ hai piú dura la pelle de la testa
e de la fronte che non han le bestie.
Vo’ farti scorto.
Eparo E perché? Non ti intendo,
se Dio m’aida.
Orgilla Perché spuntar fuora
non ti posson le corna de la testa.
E pur sei becco.
Eparo Parla ch’io t’intenda;
che non son becchi ne’ nossi paesi,
se non quegghi che ammontan le bestiuole.
I galli e le galline ancora l’hanno;
ma non l’ho é.
Orgilla Ascolta, anima mia.
Che vuol dir che tu sei si grossolano?
Vo’ che tu venga a girarmi l’arrosto
di qua in cucina.
Eparo E che tanto cianciare
e berlingar? Dimmi se vuoi covelle,
che vo’ spazzar la ca’.
Orgilla Possi morire,
se tu vedesti mai camicia a donna.
Bufalo, e ’n questo mondo a che sei buono?
Va’, sta pur con le capre.
Eparo Vagghi ti;
che non sei buona se non da sbelare
e non sai che ti voglia.
Orgilla Guarda razza
di matto scempio! Vorrei venir teco
ad esser tua mogliera a casa tua.
Te ne contenti?
Eparo N’ho d’avanzo n’una é.
Che credi, se ben siam grossi di pagni,
che siam poi asen? che non è bastante
ad una donna sol tutto un comuno
di nossi pari; e tu vuoi ch’in mia parte
n’ava dò o tre! La non ti verrá fatta,
Orgilla me.
Orgilla Orsú! Va’ tra’ de l’acqua;
e porta sii tutt’oggi de le legna;
tramuta quei pietron che sono a basso;
e fa’ netto il terrestre e la cantina
com’uno specchio. Or vanne, bufalaccio!
Si voglion gli animali adoperare
solo a quel che son buoni.
Eparo Ben, madonna.
SCENA VI
Torna Fileno da casa di Artemona roffiana e racconta piú cose strane che v’ha veduto.
Fileno, Crisaulo.
Fileno Addio, vecchiona. Parti che ne facci
a dritto ed a traverso? E poi al padrone
porta mille ciancette e vuol che creda
che questa sia la prima che ha venduto
e quel che fa sol faccia per servirlo,
come intera e da bene!
Crisaulo Ecco Fileno.
Ringraziato sia Dio. Che nuove porti?
che t’ha risposto? verrá qui istasera?
ha fatto nulla?
Fileno Non l’ho ancor trovata;
ch’era, m’han detto, andata fuori al monte
a cercar di certe erbe. Ho ben lasciato
che venghi, come giunge.
Crisaulo A chi parlasti?
Fileno A quei di casa, che v’era una corte
che l’aspettava. N Io so che quella strega
ha tutte le virtú cardinalesche
e l’arti liberali v Mi ricorda,
quand’entro in quella casa, de l’inferno,
a quel ch’ivi si vede.
Crisaulo Che dirai?
T’intendo ben. Sei stato fino a sera
lá, con qualche carogna che ha per casa,
ed or vuoi far la scusa.
Fileno Io non lo niego.
Ma non son giá carogne; che, a la fede,
c’è di bei visi.
Crisaulo Tanto avestú fiato.
Fileno Vo’ che vi venga, un tratto, e che tu veda
l’opre belle che fa questa tua arpia.
Il collo torto, il volto consumato,
quegli occhi lagrimosi accompagnati
con l’abito fratino e i paternostri
che sempre biascia inganneriano il tempo
che inganna ognuno.
Crisaulo Di’ che cosa è questa,
se lo sai dire.
Fileno Io te ne dirò parte.
Tu vedi prima una casaccia antica
fatta al tempo de l’arca; e poi le stanze
fantastiche, affummate; e, per la casa,
vecchie sciancate che paion Creonte;
ed una infinitá di fanciullette
che tien (come faremmo noi i capponi
sotto la cesta) perché venghin belle.
E, quando poi son grasse e da qualcosa,
le vende, le trabalza e con danari
ne fa ogni derrata. Ivi tutte hanno
il lor proprio esercizio: una pesta ossa
e piú cose bizzarre; una crivella
le polveri e sementi; un’altra l’erbe
mette ne le strettoie e cava il sugo;
questa fa medicine; un’altra unguenti,
penso, da gambaracci e simil cose;
una è in lavar la trementina; e l’altra
falserá sollimato e, con salnitro
e solforo, fará puzzar la casa.
E vedi poi, d’intorno, mille fatte
di lambicchi e campane da stillare,
bocce di vetro le piú contrafatte
del mondo. Ivi fornaci, scaffe e stufe,
orci, fiaschi, arbarelli e tarabaccole.
Per le fenestre fiori, erbe e sementi,
radici, zucche, zucchelle e pignatte,
laveggi, pignattini e speziane
e cose strane. E ci vedrai d’augelli
piú membra; e piú animali scorticati;
e pelle e grassi e sangui come inchiostro;
unghie e capei morti.
Crisaulo Io son giá sazio.
Non mi dir piú, ti prego.
Fileno Odi ancor questa.
Oggi vidi stillare a una campana,
che è fatta appunto coni ’un uom che s’abbia
le man miso in su’ fianchi; che credetti
morir di rise. V’era cinque o sei
di quei visi affummati intorno al fuoco,
che parean le donzelle di Vulcano
giú nel regno di Dite. Ancor piú oltra
passando, vidi in una gran caldaia
il piú schifo belletto, che a la prima
mi fé’voltar lo stomaco a vederlo,
ove dicevano esser perle e gioie,
oro e coralli. Poi ne vidi un altro
d’un’altra fatta, che v’era ammarcito
un mondo d’uova e colombi favacci
e teste di castroni e pipistrelli
e piú grassi e biturri e piú pastocchi
che qualche volta.
Crisaulo Su! Fornisse, un tratto.
Fa’ che si ceni. Che ora può essere?
Fileno È passato di poco un’or di notte.
Entriamo in casa.
SCENA VII
Venendo di notte Filocrate a la posta a Lucia e non vedendola, si pensa che una pignata, ove era steso un fassoletto, sia essa e non li voglia rispondere: onde se ne parte tutto pien di sdegno. Pilastrino, in questo, cercando Listagiro, si imbatte a veder tutto quello che fa Filocrate; ed apre piú la cosa e mostra che la cena si indugerá a l’altra sera per non aver trovato Listagiro.
Filocrate solo, Fronesia fante a la fenestra, Pilastrino.
Filocrate E ch’io mi sia ingannato
non può giá star; che questa è pure appunto
l’ora che m’ordinò. Vo’ ritornare
un’altra volta. Vincer pur devrebbe
la lunga servitú, la mia pazienza
si cruda mente. Visch’! visch’! ischi
Oh! Eccola; è venuta. Pensai bene:
che, s’io non ritornava, forse ch’ora
s’andava al letto; e’ ha la scuffia in testa.
Guarda come riluce! T’ho aspettato
qui, giá tre ore. Io non credo che pensi
a me, se non a caso; e, per quai metti,
o qual mio fallo, mi sei si crudele?
Ci debbe esser di nuovo qualche amante
che ti de’ tór di mente la mia fede,
l’amor, la servitú che tanto tempo
hai visto in me.
Fronesia Chi sento giú? È Filocrate.
Ma con chi parla?
Filocrate Prego che mi dica
la cagion del tuo indugio perché dentro
giá ’ncominciava a sentir tanto sdegno
che forse anco avrei preso de’ partiti.
Non vo’ dire altro.
Fronesia Odi. Costui vaneggia.
Oh! Va’, che tu m’hai pien del tuo cervello.
Parla con l’aere.
Filocrate Tu non mi rispondi,
Lucia? A chi dico? E’ non sta però bene
far tanto strazio di chi sai che t’ama
piú che la vita propria. Aimè, che torto!
Lucia, ti prego, attende a quel ch’io dico.
Non mi lasciare andar cosí istasera
beffato a casa, ch’io ti do mia fede
che te ne pentirai.
Fronesia Oh! co! co! Parla
a una testaccia, che v’ho steso sopra
un fassoletto.
Filocrate Aspetto ancora alquanto,
se ti muove piata.
Fronesia Puoi aspettare.
Chi nasce matto non guarisce mai.
Il mal tuo non è a lune.
Filocrate Dch! Se mai
ti venne in cuor del mio lungo servire
poco ricognosciuto e de la fede
e di quanto per te giá mai soffersi
amando e di giá tanti spesi giorni
ne’ tuoi servigi render qualche cambio,
mostrami tutto in questo; e fammi grazia
d’una parola.
Fronesia Ve’ che bella predica!
Cosa appunto da lui, oh! far l’amore
a una pignata e voler convertirla
con si belle parole!
Filocrate Aimè! che in vano
prego un sasso, una tigre e mi querelo.
Altronde porti i miei lamenti il vento;
ch’io mi risolvo al tutto di cangiarmi
di sentimento, poi che piace al cielo.
La prima non è giá, ma ben fia forse
l’ultima. Si, che ancor ne piangerai!
Fronesia Oh! Sta’, che si scorruccia. Voglio andare,
ch’io creperei. Tratterrò in tanto Lucia,
che non venisse a sorte a la fenestra
e guastasse la torta. Oh! co! co! co!
Filocrate Abbi speranza in donne! abbi in lor fede!
credeli il paternostro! Ahi reo costume!
Chi tanto ha posto in voi di falso e vano?
tanto di crudo, iniquo, acerbo ed empio?
Chi vi ci fa suggetti£,Ma che! Forse
la sorte mia, perché non peni sempre,
sempre non mi ritrovi in quello errore
in che ora sono e perché n’esca un tratto,
si mi governa. Assai mi fia acquistato,
questa sera, d’aver l’empia natura
cognosciuto di voi. Prometto a Dio,
per l’avenir, come foco e veleno
e mortai peste, di fuggirvi sempre.^.
Troppo era lieto de la mia fortuna
che, sovr’ogni altra cosa desiata,
ti m’avea dato. Ma cognosco or chiaro
che tutto era a la mia futura vita
amaro tòsco; perché, alfin, tai frutti
si ricoglie di voi e di tai fiori
tai fronde e rami suol vostra radice
I produr fra noi. Pianta empia, rea, mal nata!
1 Che ’l ciel la sterpi. Ma di Giove l’ira
a tanta iniquitá punire è tarda.
Venga almen, poi, cosí grave e focosa
che n’arda anco il terren con le radici.
Voglio, prima, di questo consigliarmi
con Sofomide mio. E, se ci è via
che la possa lasciar, che a l’onor mio,
mancando, non mancassi, anzi morire
son risoluto che mi ponga in casa
un drago tal, si velenosa vipera
m’allevi in seno.
Pilastrino Io sono stato un’ora
a sentir questo pazzo. Che può avere?
Tanti lamenti e tante bravarie!
Debbe esser, certo, a la fenestra Lucia,
che fa lo squartator. Vo’ fare anch’io
l’amore. È quella? Sta’. Non è? È pur dessa.
Dico non è, potta de la fortuna!
ch’è, credo, una pignata. Oh! co! co! co!
Io so che l’è col manico. La voglio
puor fra le cose del piovano Arlotto:
come quell’altra che fece Listagiro
per uscir di prigion; che si fé’morto
e, quand’il portar fuori a sotterrarlo,
se ne fuggi, pestato prima il volto
a un di quegli sbirri che ’l portavano
con un gran pugno. Or veggio ben che Amore
fa travedere appunto a questi sciocchi
come fa ’l vino a me. La vo’ contare
in piú di cento luoghi, anzi ch’io dorma.
Io lancio de la fame; che ho cercato
quest’altro parasito tutto il giorno.
Or mi risolvo che non è possibile
che ceniamo istasera. E che ’l vecchione
impari, un tratto, a fare a la civetta
in terzo con duo mastri di rapina!
Forza è che l’indugiamo un di vantaggio
per farla netta; che a trovar Listagiro
non basteria ’l piú valente pilotto
che guardi carta. Io so che in Pizzimorti
non è stato oggi; e ancora in Fiaccalcollo
né in Gattamarcia non è capitato.
Sempre che abbiam da far qualche bel tratto
par che intra venga questo." Fia forse ito
verso ’l tinel del cardinal de’ Medici
a cortegiare il cuoco. Oh! Quel signore
devria adorar ciascun, poi che senz’esso
ogni virtú mendicherebbe un pane,
come soleva, nunc et usque in seculi^
ilo mi muoio di fame; ed ho pensato
di stendermi in fin lá, dove, se ’l truovo,
scroccherò prima anch’io, poi daremo ordine
a questo offizio per diman da sera.
Lasciami caminar, perché a la mensa
beati primi.