Discorso commemorativo di Ascanio Ginevri-Blasi
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DISCORSO COMMEMORATIVO
DI
ASCANIO GINEVRI-BLASI
Letto da L. NICOLETTI nel Teatro Angel Dalfoco
di Pergola, il 14 Novembre 1897
Pergola
Stab. Tipografico Gasperini
1897.
Dire convenevolmente di un uomo quale si fu Ascanio Ginevri-Blasi, tratteggiarne non troppo imperfettamente l’avventurosa vita è cosa tutt’altro che agevole; in ispecial modo, per chi non può valersi in ciò dei propri ricordi, ma solo a testimonianze, a documenti e memorie autorevoli è costretto attenersi.
Nullameno, l’affetto vivissimo che ebbi pel Ginevri, il desiderio che ognuno ne conosca i meriti mi spinsero ad accettare l’incarico di parlarne.
⁂
Ascanio Ginevri-Blasi nacque nella nostra Pergola il 25 ottobre 1825.
Benchè le condizioni della sua famiglia avessero potuto permettergli una vita agiatissima, per quanto onorevolmente oziosa, il padre lo mandò nel seminario di Cagli e quindi nel collegio Raffaello d’Urbino, dove si ebbe tutta l’istruzione che in quegli istituti poteva essergli data, e che poi accrebbe a Pergola, studiando sotto la direzione del Fronduti di Gubbio. Sentendosi fortemente inclinato alle matematiche, recatosi a Roma vi si applicò con tutta l’anima, e conseguito che vi ebbe il baccellierato, si diede a studiare ingegneria. Ma un anno prima che potesse venir laureato, accaddero avvenimenti tali che dovevano toglierlo, e per sempre, ai suoi studi, avvenimenti che dovevano prepararne altri di cui egli sarebbe stato non ultimo attore.
Si era nel marzo del 48. Giunte a Roma le prime notizie delle rivoluzioni di Parigi e di Vienna, e poi di quelle di Milano e Venezia, il patriottismo della cittadinanza aveva costretto Pio IX ad ordinare al generale Durando di recarsi al confine. Ciò ottenuto, l’entusiasmo popolare era divenuto frenesia, e cittadini d’ogni condizione, d’ogni età correvano ad arruolarsi sotto quelle bandiere che avrebbero dovuto recare la guerra all’oppressore di Venezia, di Lombardia! Nel battaglione universitario al comando del colonnello Ferrari, si ascrisse anche il Ginevri; con quel battaglione seguì l’esercito Pontificio e prese parte alla eroica difesa di Vicenza, durante la quale il generale Durando, per ricordarne il valore, portò il suo nome all’ordine del giorno.
Sconfitto l’esercito piemontese, che ai Lombardi aveva recato soccorso, caduta Venezia, scioltosi il glorioso battaglione al quale egli aveva appartenuto, il Ginevri se ne tornò qui nella sua Pergola, dove dai ministri di Pio IX ebbe la nomina di s. tenente della guardia cìvica.
Ma non erano le onorificenze d’un fedifrago che egli desiderava; sibbene l’indipendenza e la libertà della patria: non era a difesa di un governo che reggendosi in nome di Cristo, Cristo stesso offendeva, che egli voleva brandire la spada. E proclamata la romana repubblica, vi aderì non solo, ma se ne fece anche caldissimo fautore, come provano alcuni manifesti di circostanza che venne incaricato di redigere.
Il Saffi lo nominò allora tenente della Guardia Nazionale; e con tale grado egli, dopo essere stato Quartier Mastro di Pergola ed essersi adoperato grandemente per l’arruolamento de’ suoi concittadini nelle truppe repubblicane, nel maggio del 49 partì di qui, per prender parte alla difesa di Roma. Trovando però chiusa ogni via dalla armata francese, volse il passo ad Ancona, verso la quale muovevano i soldati austriaci per assediarla.
Caduta dopo un mese quella patriottica città, entrati i Francesi in Roma, sconfitti anche quei pochi animosi che avevan seguito il Garibaldi fin sulle montagne feltresche, ricaduti i popoli dello stato pontificio nell’antica schiavitù, il Ginevri fu invaso come gli altri patrioti dal più grande sconforto; e, tornatosene a Pergola, dove pel suo patriottismo lo si era relegato, dovette subire anch’egli le persecuzioni, le angherie della Restaurazione. Ma nulla valse ad intimorirlo, nulla valse a farlo deviare dalla linea di condotta che la sua fede liberale e d’Italiano gli suggeriva di seguire: chè anzi, comprendendo egli come per redimere l’Italia fosse prima necessario fare di ogni cittadino un patriota, si diede, con tutto l’ardore di cui era capace, alla propaganda nazionale.
Colpita nel 55 la nostra città dal colera, fu chiamato a far parte della deputazione sanitaria; e mentre il morbo infieriva talmente da uccidere ogni giorno decine e decine di persone, mentre gran parte de’ cittadini se ne fuggiva dove vivere con maggior sicurezza e tranquillità che qui non si potesse, egli disimpegnò con tanto zelo, con tanta abnegazione, con tanta evangelica carità l’ufficio suo da rendersi degno della generale ammirazione. E quando il morbo fatale raggiunse anche lui, quando la sua filantropia parve volerlo compensare del bene che oprava con la morte, egli non temette, non pianse per sè, ma per l’abbandono in cui sarebbero potuti rimanere i colpiti dal morbo.
«S’egli è vero – gli scriveva poi il gonfaloniere Domenichelli – che l’uomo il quale espone la sua esistenza per recar sollievo alla afflitta e minacciata umanità muove a gran passi verso l’eroismo, s’egli è vero ciò, basterà alla S. V. ricordare ciò che fece nel 55 come membro della deputazione di sanità, perchè da tutti i buoni le siano tributate quella stima e venerazione che ad uomini tanto rari sono dovute.»
E giunse il 59.
Il convegno di Plombières, la proclamazione dell’alleanza franco - piemontese, l’opuscolo del Laguerronière avevano riaccese, più ardenti che mai, le antiche speranze d’indipendenza, di libertà; la celebre frase di V. E. «Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia ci giunge» aveva elettrizzato gli spiriti. Gli antichi repubblicani abbandonavano il Mazzini, e volgendo lo sguardo desioso all’audace e valoroso Piemonte, si organizzavano per la non lontana lotta.
Fra tutti i centri liberali della provincia, Pergola e Fano tenevano il primo posto. In quanto a Pergola, il merito di ciò va dato, oltrechè al grande patriottismo della cittadinanza, all’ardore con cui il Ginevri e gli altri capi liberali cercavano propagare le loro sante idee.
Il 17 giugno, il popolo pergolese fece una solenne dimostrazione dinanzi il palazzo comunale, acclamando il Gran Re e chiedendo la sua dittatura. Il Magistrato cittadino nominò allora una Giunta di Governo, composta del Ginevri, dello Jonni, del Salvatori e di Alessandro Brilli. Il Ginevri ne fu eletto presidente, e, come tale, indirizzò al popolo un nobilissimo manifesto, in cui ricordava i due generosi propositi che esso popolo animavano: «Quello di potere efficacemente e senza ostacoli cooperare al buon esito della guerra d’indipendenza; l’altro, di accedere alla più augusta, alla più gloriosa delle monarchie, alla monarchia sabauda.» Accennati i desideri, i propositi dei Pergolesi, egli ricordava però come, per ottenerne la realizzazione, fosse necessario l’esercizio costante delle più eroiche virtù e, nello stesso tempo, una prova che si era maturi per la libertà.
Sempre con gli altri della Giunta, raccomandò poi ordine, rispetto severo alle proprietà e alle persone; e per dare un esempio come non si dovesse essere mossi da alcuna animosità, lasciò in ufficio tutti i magistrati e impiegati già al servizio del governo pontificio.
Istituita una guardia provvisoria di pubblica sicurezza, invocata la dittatura di Vittorio Emanuele, si adoprò co’ suoi amici per dare assetto alla pubblica cosa.
Ma le truppe pontificie essendosi ritirate dalle Romagne, ormai libere, e gravitando tutte sulla nostra regione, le Giunte di Governo, per evitare un inutile spargimento di sangue, risolsero dimettersi. E così anche Pergola tornò il 24 giugno sotto il paterno regime teocratico. Era troppo grande, troppo saldo però il patriottismo del Ginevri, perchè il Buon Governo non ne dovesse temere; e, con lo Ionni, egli fu quindi costretto fuggirsene, se volle sottrarsi alle persecuzioni, ai tormenti che il Governo del Vicario di Cristo non gli avrebbe certo risparmiato. Rifugiatosi nella vicina e libera Rimini, mentre lo Ionni riparava a S. Marino e di là a Bologna, entrò subito nel Comitato d’Emigrazione, al quale già appartenevano tanti e tanti illustri patrioti, fra i quali il Misturi, il Marzetti, il Cresci; ed entrò anche nel Comitato Nazionale, di cui era presidente il conte Salvoni, eletto poi deputato di Rimini al Parlamento Nazionale. Del primo Comitato fu eletto presidente, del secondo vice presidente.
Non era certamente leggero il compito che con l'accettare tali cariche, egli si assumeva; giacchè Rimini, posta com’era al contatto dello Stato pontificio e in relazione diretta con Torino, Firenze, Bologna e Genova, che corrispondevano senza intermediari col Cavour, era destinata a dirigere il movimento liberale marchigiano, a far eseguire quegli ordini che il Cavour stesso avrebbe dato. Ma egli si mostrò tanto superiore ad ogni aspettativa, coprì così bene gli uffici affidatigli, si adoprò tanto e così efficacemente per render possibile la realizzazione del voto più ardente dei patrioti, che quantunque il Salvoni fosse della Società Nazionale il presidente di nome, egli si può dire ne fosse l’effettivo: tantochè, tutti gli atti più importanti di quella Società furono suoi.
Sventate, per il tradimento d’un certo dott. Erra, le rivoluzioni progettate pel luglio e novembre del 59, dichiarato dal Governo piemontese di non avere alcuna idea di annettersi la nostra regione, il Ginevri scongiurava, con una sua circolare, i liberali delle Marche a non perdersi d’animo, ad aver fede nell’illuminato patriottismo del Cavour, che nascostamente raccomandava al Comitato Nazionale di tener sempre desta l’agitazione per l’unità italiana. E quando le Marche ebbero novelle e più forti speranze di prossima libertà, per le parole con cui Vittorio Emanuele apri il primo parlamento italiano, egli, d'accordo con lo Ionni, propose alle donne pergolesi d’inviare al Gran Re un dono che fosse valso a dimostrargli il loro affetto e la loro gratitudine. E trovandosi in Bologna, a capo del Comitato d’Emigrazione, che raccolto tutto intorno alla storica bandiera che qui si conserva, prendeva parte al solenne ricevimento del Re Liberatore, offrì a questi gli sproni d’oro che le nostre madri avevano scelto per loro dono, e che il Mercantini aveva voluto accompagnare con una splendida poesia d’occasione.
Tornato a Rimini, compilò un progetto di insurrezione, che sottopose all’approvazione del Garibaldi.
In quel piano si esponevano:
1. La impossibilità di ribellarsi in cui si trovavano le città principali dello Stato Pontificio, e specialmente quelle del litorale, per l’eccessivo numero di soldati che vi erano concentrati.
2. Il nessun assegnamento che doveva farsi su di un palese aiuto del nascente regno italico, per gli ostacoli che all’azione di questo opponeva la diplomazia europea.
3. La nessunissima probabilità di poter raccogliere nelle Romagne un forte corpo di volontari da correre in aiuto dei rivoltosi: e ciò per la necessità in cui sarebbesi trovato il Cavour di impedirlo.
In conseguenza di ciò, proponeva che la insurrezione si facesse partire dal Montefeltro, ed ivi si radunassero i volontari che avessero voluto prender parte alla liberazione delle Marche. Secondo lui, il piano strategico de’ rivoltosi avrebbe poi dovuto avere per base d’azione il Montefeltro stesso, sul quale, in caso d’insuccesso, si sarebbe dovuto ripiegare.
Essendo allora quella regione montana pressochè priva di strade e assolutamente inaccessibile alla cavalleria e all’artiglieria, questo progetto era il migliore che si potesse escogitare. E ciò dovettero ammettere anche il Garibaldi e il Comitato Nazionale di Bologna, il quale però avendo ricevuta dal Cavour l’assicurazione che in tempo non molto lontano avrebbe potuto appoggiare apertamente le rivendicazioni dei Marchigiani, dissuase il Ginevri dal porlo in esecuzione.
Nel giugno, il Ginevri ricevette dallo Ionni una lettera in cui gli veniva raccomandato, a nome del Comitato di Bologna, di tener desti, pronti alla riscossa i liberali marchigiani; il 5 luglio, in un convegno che ebbe a Cesena col suo amico Finali, gli furono da questi date delle istruzioni sul movimento che dovevasi effettuare, e l’affidamento che, ove la sommossa fosse scoppiata, le truppe italiane avrebbero immediatamente varcato il confine, per impedire si rinnovassero le orrende stragi di Perugia.
Ricordare gli ordini, le disposizioni che per la buona riuscita della rivoluzione il Ginevri allora diede sarebbe qui fuori di luogo. Mi limiterò a dire che quando in un colloquio che ebbe a Bologna col principe Simonetti, gli fu da questi partecipato come il Cavour avesse fissato per la sollevazione il giorno 8 settembre, egli chiamò a Rimini tutti i capi liberali delle Marche per intendersi con essi sul da farsi.
Al congresso parteciparono i rappresentanti di tutte le città più importanti della regione; e vi si decise che nel giorno fissato avrebbero dovuto insorgere tutto il Montefeltro, il distretto di Pergola e le altre contrade che si fossero sentite in animo di farlo, e che i rivoltosi delle città non troppo prossime al confine, se assaliti dalle truppe pontificie, avrebbero dovuto rifugiarsi sul Montefeltro o in Toscana.
Altre istruzioni importantissime il Ginevri diede con delle circolari indirizzate ai Comitati insurrezionali, e queste istruzioni accompagnava con l’invio di armi e cartucce, fornite al Comitato di cui egli era presidente dal Governo italiano.
Qualche giorno innanzi l’otto settembre, giunsero a Rimini G. Battista Ionni e il conte Adolfo Spada di Pesaro, incaricati dal Comitato Nazionale di Bologna di coadiuvare quello riminese; vi giunsero poi anche il marchese Luigi Tanari, già designato dal Cavour quale R Commissario per la provincia di Pesaro e Urbino, il principe Simonetti, il conte Rasponi, Camillo Casarini e tanti altri patrioti che alla rivoluzione venivano a prestare il loro valido aiuto. Il proclama da essi allora indirizzato alle popolazioni marchigiane, perchè cercassero scuotere il giogo che le opprimeva, venne anche dal Ginevri sottoscritto.
Giunto il giorno otto, i liberali di Pergola insorsero, e unitisi ad essi quelli delle città vicine, al comando di Giuseppe Fulvi portarono la rivolta anche alla vicina Fossombrone: il maggiore Pierazzoli varcò il confine presso Mondaino, con un battaglione composto di finanzieri travestiti, di volontari romagnoli e di emigrati, e liberò Urbino; i patrioti delle valli feltresche si ribellarono anch’essi. E messi speciali portarono la nuova di tali fatti al confine.
Gli inviati di Pergola, Giulio Fulvi e Carlo Geronzi, furono ricevuti dal Ginevri, e per mezzo di lui il voto di che essi erano interpreti venne reso noto al Governo di Torino.
Avuto dalle truppe italiane l’ordine di sconfinare, il Ginevri le accompagnò fin sotto Pesaro; e quando, dopo un vivissimo bombardamento di due ore, questa città si fu arresa e il delegato pontificio mons. Bellà dovette mettersi a discrezione del Cialdini, questi, dovendo correre ad Ancona, incaricò il Ginevri, il Simonetti e il Salvoni di accompagnare l’odioso prelato fino a Rimini, credendo che solo un drappello di truppa o la presenza di questi tre uomini, tanto intesi e amati dai liberali, avrebbero potuto salvarlo dal furore popolare.
Quindi è che il Ginevri non potè trovarsi a Pergola prima del 15 settembre.
Il suo ritorno, però, fu per lui un vero trionfo, un’apoteosi. I Comitati liberali delle città, dei borghi per cui passava gareggiavano nel tributargli i maggiori onori; Sassoferrato gli presentava un indirizzo di riconoscenza che chiunque, per quanto benemerito della Patria, avrebbe lusingato; Pergola lo accoglieva con un entusiasmo senza pari.
«Per la terza volta - diceva egli nel manifesto che con gli altri membri della rinascente Giunta di Governo indirizzava ai Pergolesi – per la terza volta riportiamo fra voi il sacro vessillo nazionale, bello ed immacolato, come bello, splendente è il sole dell’Italia nostra! –
E veramente, era la terza volta che egli, per la libertà e con la libertà, tornava a Pergola.
Adempiuto il suo compito per la redenzione delle Marche, un altro se ne assumeva il Ginevri: quello di provvedere ai più urgenti bisogni e agli interessi del suo paese nativo.
Capo della Giunta di Governo, di cui facevan parte anche lo Ionni, Giuseppe Fulvi, Antonio Salvatori. Alessandro Ciaruffoli, il dottor Carlo Geronzi, Raffaele Monti e l’avv. Francesco Guazzugli, dispose con essi, innanzi tutto, che niun impiegato nei pubbici uffici venisse licenziato, meno quelli che si fossero lasciati trasportare ad atti di straordinaria prepotenza o di fanatiche persecuzioni. – Degno riscontro alle angherie, alle vessazioni clericali! – Provvide, sempre d’accordo con gli altri della Giunta, alla formazione di una Guardia Nazionale, chiamata a mantener l’ordine e a cooperare, ove ne fosse il bisogno, alla difesa della Patria; sciolse le antiche rappresentanze comunali di Pergola e dei paesetti vicini, e ne nominò altre di intemerati patrioti; istituì scuole diurne e serali, affidando l’insegnamento a dei laici; decretò un corso di messaggeria da Pergola a Senigallia, addossandone le spese ad un consorzio formato del nostro Comune e dei limitrofi; nominò una commissione incaricata di redigere uno stato esatto dei beni appartenenti alle opere pie; ne nominò un’altra perchè studiasse i modi migliori di giovare alle industrie cittadine e all’agricoltura; affidò ad una terza l’incarico d’istituire una società di mutuo soccorso fra gli artieri; si adoprò perchè si costituisse in Pergola una sezione della Società Nazionale, alla quale ben presto si ascrissero centinaia e centinaia di cittadini.
Col Fulvi e col Monti, presentò il 7 ottobre a Vittorio Emanuele, di passaggio ad Ancona per raggiungere le truppe andate in aiuto del Garibaldi, un indirizzo di gratitudine firmato da tutti i liberali pergolesi.
Nominato il Valerio R. Commissario per le Marche, il Ginevri fu da lui chiamato a far parte di una commissione incaricata, di raccogliere documenti delle licenze e degli arbitri del cessato Governo: commissione che aveva a suo presidente Luigi Mercantini.
Inviato da Pergola al Consiglio Provinciale, nel 61, vi fu subito tenuto in tanta considerazione che nel 61 istesso si ebbe da quell’onorevole consesso importantissimi incarichi, e nell’anno seguente, fu chiamato a far parte della Deputazione Provinciale. Nel 64, poi, venne eletto vice-presidente del Consiglio.
Riuscirei certamente stucchevole se mi dessi ora a trattare ampiamente dell’opera sua, quale consigliere e deputato provinciale. Dirò solo che per rendere quest’opera grandemente meritoria agli occhi di noi Pergolesi, deve bastare ciò che egli fece per l’ingrandimento della circoscrizione territoriale del Comune e per dotare la nostra vallata di strade.
Già da quasi un secolo Pergola reclamava un ingrandimento di territorio; da quasi un secolo lottava coi comunelli vicini, che, minacciati di soppressione, volevano conservare ad ogni costo la propria autonomia. Il Governo di Napoleone e quello di Murat avevano riconosciuto, è vero, i diritti della città nostra, e le avevano aggregato M. Secco, M. Rolo, Fenigli, S. Vito e gli altri paesetti; ma il Governo Pontificio aveva poi rimesso le cose allo stato in cui erano antecedentemente alla sua caduta, non essendo valso a rimuoverlo da tale sua decisione nemmeno il fatto che, avendo in decadenza tutte le sue industrie, Pergola non sapeva di dove trarre i fondi necessari alla pubblica azienda, e neanche il fatto che i comunelli ripristinati non avevano nè potevano avere persone capaci di amministrarli saggiamente.
Spettava al Ginevri ottenere che si soddisfacessero i secolari desideri di Pergola.
Eletto dal Consiglio Provinciale a far parte della Commissione incaricata di proporre la nuova circoscrizione territoriale dei comuni, ordinata con la legge comunale e provinciale del 65, e nominato poi dalla Commissione stessa suo Relatore, egli chiese, fra l’altro, che i comunelli di Fenigli, M. Secco, M. Rolo, M. Vecchio e S. Vito venissero annessi alla città nostra. La sua proposta trovò molte opposizioni, giacche non pochi del Consiglio erano d’opinione che fosse giusto fare di S. Vito, M. Rolo e M. Vecchio un comune a sè, con S. Vito per capoluogo, e non pochi altri consiglieri erano rimasti non troppo favorevolmente impressionati dal fatto che in tutta la Provincia era proprio la patria del Relatore della Commissione per le nuove circoscrizioni territoriali che avrebbe dovuto ottenere il maggior ampliamento di territorio. Ma, ad ogni modo, il Ginevri vinse; e vinse anche negli anni seguenti, quando S. Vito, M. Rolo, M. Vecchio e M. Secco avendo reclamato al Governo per la loro aggregazione al nostro Comune, questa era stata di nuovo posta in discussione. Per lui, dunque, Pergola ottenne il tanto desiderato ingrandimento di territorio, ingrandimento che non le era stato concesso nemmeno dall’Avellanita Gregorio XVI e dal suo ministro Mattei, che pure avrebbero ben potuto e dovuto accordarglielo; per lui le entrate del Comune si accrebbero di tutte quelle provenienti dalle tasse che gravitano sui territori già appartetenenti ai comunelli soppressi; per lui si può ora economizzare l’inutile spesa di almeno 15000 lire annue, già necessaria per le amministrazioni dei detti comunelli, spesa che capitalizzata al 100 per 5 dà la non indifferente somma di 300,000 lire.
Ho detto che il Ginevri ha diritto alla nostra gratitudine anche per tutto quanto fece per ottenere la costruzione di nuove strade che avessero unito la città nostra con le vicine, e per il riattamento di altre, allora incomode e pericolose. Ed invero, la strada di Cagli e quella di Arcevia devono specialmente a lui la propria costruzione e l’essere state dichiarate quindi provinciali; e la strada di Marotta nonchè le altre minori delle vicinanze furono riattate e in molti punti corrette a nostro vantaggio, per le sue vive insistenze.
Del resto, non fu solo al servizio della nostra Pergola che il Ginevri pose l’opera sua come consigliere e deputato provinciale. Chè anzi, durante tutto il tempo in cui sedette al Consiglio, egli fu sempre uno dei membri più assidui e attivi del medesimo, che in lui riponeva grande fiducia e in moltissime occasioni gli affidò i più onorevoli incarichi.
Sindaco del Comune, il Ginevri provvide la nostra città di un cimitero bellissimo, da lui ideato e sotto la sua direzione costrutto; la provvide di strade e di altre opere di prima necessità. Chiese che la monumentale biblioteca dei P. P. Avellaniti nonchè quelle dei Cappuccini e degli Zoccolanti e il gabinetto geologico-botanico del Catria venissero ceduti al Comune, e l’ottenne. Nel 66, istituì la Scuola Tecnica, affidandone la direzione al prof. Francesco Mercantini di Fossombrone.
Presidente della Congregazione di Carità, si adoprò a tutt’uomo perchè il testamento Giannini, che da ben diecisette anni avrebbe dovuto avere il suo pieno effetto, non rimanesse sillaba morta; e vinte le liti giudiziarie intentate dagli eredi del conte Bartolomeo, aprì il 30 marzo del 62 un convitto per gli orfani e i fanciulli poveri, un asilo infantile e una scuola per gli artigiani; ai quali istituti fece cedere gratuitamente il locale dell’ex convento delle suore di S. Giacomo, valutato almeno un 30,000 lire.
Ottenne, e in ciò gli furono di grande ausilio lo Jonni, il Fulvi e il prefetto Bardesono, che i beni delle suore orsoline non fossero indemaniati, perchè destinati, secondo quanto egli dimostrò, alla istruzione ed educazione delle figlie del popolo; e questi beni, di un 200,000 lire di valore, fece assegnare al nuovo istituto Principessa Maria di Savoia, che appunto alla educazione e istruzione delle giovinette avrebbe dovuto servire. Ampliò il ricovero di Mendicità; fece cedere agli istituti pii cittadini le case demaniali, di un valore complessivo di circa 35,000 lire.
Nominato Presidente della Cassa di Risparmio, continuò con ardore l’opera a beneficio della medesima che aveva intrapresa fino dal 54, quando esibitosi di porre al corrente, senza alcun utile proprio, la contabilità di essa Cassa, era riuscito a scoprirvi alcune magagne che se non tolte di mezzo con prestezza e con la discrezione da lui usata, avrebbero ucciso quell’istituto nel suo nascere; e riordinata di nuovo l’amministrazione, riuscì a rendere la Cassa ben solida e accreditata, come il R. Commissario Gagliardi scrisse nella sua relazione al ministro Barazzuoli.
Offertagli nel 65 dal Comitato elettorale di Cagli e Pergola la candidatura politica del Collegio, la rifiutò, per non dividere, com’egli disse, le forze dei liberali, una parte dei quali era favorevole al Fiorenzi, che nel Collegio stesso si presentava; e per non essere quindi causa della vittoria del partito ultra-clericale, che compatto affermavasi sul nome del Mochi.
Le cure amministrative non toglievano però al suo cuore l’antica fiamma patriottica. Tanto è vero, che morta la Società Nazionale e sortane invece un’altra che prese il nome di Liberale, egli vi fece ascrivere tutti i suoi amici politici; e quando, nel 66, l’Italia tornò a chiamare a raccolta i suoi figli, per spezzare le catene che ancora avvincevano la regina del mare, non potendo rispondere egli stesso all’appello, si adoprò grandemente perchè molti altri lo facessero in sua vece; e nel 67, allora che Garibaldi volendo marciare co’ suoi prodi su Roma, gli richiese, per mezzo del colonnello Caldesi, quei fucili che da Torino erano stati inviati alla città nostra per la rivoluzione del 60, egli non ebbe alcuno scrupolo di soddisfarne il desiderio; anzi, plaudendo alla santa iniziativa dell’Eroe, lo raggiunse a Terni, ove gli consegnò tutti i fucili di cui poteva disporre; e nel 70, quando compiuta l’unità della Patria, si volle dare nell’eterna Roma un nuovo plebiscito d’amore e di fedeltà al Padre della Patria, si tenne per fortunato di potervi rappresentare, insieme al senatore Mattei e allo Jonni, la sua cara Pergola.
Il Ginevri non ebbe poi piccola parte nelle pratiche che si fecero per far approvare e quindi costruire senza indugio la Fabriano-S. Arcangelo; e anche negli studî eseguiti su altre linee che, se attuate, avrebbero recato alla città nostra grande vantaggio.
Caduto il progetto di una linea che passando per S. Angelo in Vado, avrebbe dovuto unire Fano alla Toscana, si era pensato da alcuni ragguardevoli cittadini di Cagli di adoprarsi per ottenere la costruzione di una ferrovia Fano-Fossato. Il Ginevri, invitato a far parte del Comitato all’uopo costituitosi, aveva accettato volentieri; ma quando poi al progetto dei Cagliesi se ne oppose dai nostri concittadini un altro, per cui la ferrovia anzidetta avrebbe dovuto finire a Fabriano piuttostochè a Fossato, fece ciò che ogni buon Pergolese avrebbe ritenuto suo primo dovere.
Tenutosi, dopo un anno, un congresso a Pesaro, fra i senatori e deputati del nostro Collegio e dei limitrofi e i rappresentanti della provincia nonchè delle città più importanti di essa, e affermatovisi dal Corvetto che di probabile approvazione per parte del Parlamento sarebbe stata, secondo lui, solo una linea S. Arcangelo-Urbino-Cagli-Fossato, o un’altra S. Arcangelo-Urbino-Pergola-Fabriano, il Ginevri chiese che anche per eseguire degli studi su quest’ultima si stanziassero dei fondi, mentre il Congresso sembrava propenso a chiederne alla Provincia solo per studiare la prima.
Il merito del Ginevri è in ciò grandissimo, perchè ove la S. Arcangelo-Fabriano non si fosse allora studiata, chi sa se l’altra non avrebbe preso su essa il sopravvento!
Non avendo il Governo approvata nè l’una nè l’altra linea, il Corvetto e il Serafini ridussero il progetto della S. Arcangelo-Fabriano come venne poi ratificato, e, ripresentatolo al Parlamento, la costruzione delle ferrovia venne da questo votata.
Sopravvenuta però la crisi economica che ebbe principio sulla fine del decennio scorso, la costruzione della nostra ferrovia, senza la fermezza del ministro Finali nel mantenere la parola data, sarebbe stata rimessa alle calende greche. Di non poco vantaggio fu allora il Ginevri, che, amicissimo del Finali, gli raccomandò anch’egli con tutta l’anima la nostra linea, e si ebbe da lui affidamento che il tronco Urbino-Fabriano sarebbe stato subito appaltato. La lettera che il Finali gli scrisse in proposito fu dal Ginevri pubblicata, e valse così anche a calmare quell’agitazione, quel fermento popolare che pel timore di un ritardo nell’inizio dei lavori eransi manifestati.
Fino dall’83, poi, il Ginevri aveva pubblicato una memoria sulla convenienza di costruire una ferrovia che, partendo da Senigallia, avesse risalito la valle del Misa fino a Corinaldo, e di lì, entrando nella valle del Cesano, avesse raggiunto la dorsale appennina a Pergola. In quella stampa mostrava anche come la linea summenzionata avesse dovuto essere compresa, per la sua importanza economica e se vogliamo anche strategica, nel reparto dei mille chilometri.
L’opuscolo del Ginevri piacque moltissimo: i municipi e i consigli provinciali interessati si dichiararono pronti ad appoggiare qualunque progetto che vi si fosse conformato; l’illustre Corvetto promise di fare delle raccomandazioni perchè la ferrovia progettata fosse compresa nei mille chilometri; il comm. Gioia, direttore della Società generale delle ferrovie complementari, si prese l’impegno di fare seriamente studiare la cosa.
Vero è che l’ingegnere Emilio Olivieri, recandosi nell’82 a Pergola insieme al comm. Martorelli, alto funzionario delle Complementari, e visitata insieme a lui la valle del Cesano, ne aveva riportata fino da allora la convinzione che una ferrovia vi sarebbe stata vantaggiosissima sotto ogni rapporto; e vero è altresi che l’Olivieri stesso aveva ottenuto che la Società Generale collocasse questa ferrovia nella rete che doveva proporre alla provincia di Pesaro. Ma non per questo il Ginevri è men degno di lode; giacchè se il progetto della Cesano-Misa divenne popolare, se l’agitazione per questa linea si mantenne per un non breve spazio di tempo, di ciò va specialmente a lui dato il merito.
Nell’87 pubblicò un secondo opuscolo sulla stessa ferrovia, che però non venne compresa nei mille chilometri.
Ma i momentanei insuccessi non avviliscono le anime forti, e il Ginevri non aspettava che un’occasione propizia per rimettere di nuovo sul tappeto la sua linea prediletta: linea che io mi auguro di non vedere ora posta in assoluta dimenticanza, essendo tanti e tanto grandi i vantaggi che essa apporterebbe specialmente alla nostra vallata.
Al Ginevri si deve anche la definitiva costituzione della nostra Società Operaia, avvenuta nel 62, cioè quando ancora di simili istituti non ne esistevano in tutta la regione che pochissimi; e così pure, l’istituzione della Società Cooperativa fra i Muratori.
A lui e al padre Piccinini si deve il progetto di una Società di M. S. fra gli Agricoltori.
Tantochè, tutti i nostri istituti o furono sua creazione o da lui vennero riordinati, beneficati. Che se taluna delle disposizioni da lui date per giovare a questi istituti riuscì ad essi di nocumento, gli si deve ben perdonare, essendo tanti e tanto grandi i benefizi che ai medesimi arrecò. E la infallibilità, poi, non è dote d’alcuno.
Sempre monarchico di fede, sempre devoto a quella illustre Casa che come ha condotto l’Italia alla unità, all’indipendenza, così le sarà sicura guida nel cammino del progresso, della civiltà, dal 60 al 92 il Ginevri appoggiò sempre quei candidati politici che con programma monarchico liberale si presentarono. Nelle diverse convocazioni dei Comizi, propugnò quindi la elezione del Mattei, del Fiorenzi, del Finzi, del Panzacchi, del Corvetto, del Mariotti, del Penserini; e nell’81, si adoprò grandemente per la costituzione nella nostra città di una società monarchica liberale, che sorta nell’anno appresso, ebbe a suo primo presidente l’avv. Marini.
Nel 92, però, si staccò dal Corvetto e appoggiò la elezione del Celli.
Per tale sua condotta, si ebbe allora i rimproveri di quelli del suo partito. E certamente, in parte ne fu meritevole. Dico solo in parte, perchè devesi ben ricordare come il Celli nel 92 non si fosse ancora dichiarato repubblicano, affermando di non far questione di forma di governo ma solo di riforme sociali. E queste il Ginevri desiderando, volendo che si recasse un qualche sollievo alle classi non abbienti, che si cercasse di rendere meno aspre che fosse possibile le disuguaglianze sociali, che si facessero sparire le grandi ingiustizie ancora tollerate dalla moderna civiltà, era per un conto ben naturale che al candidato democratico desse il suo voto.
La sua fede monarchica, lo ripeto però, rimase sempre incrollabile: tanto è vero che nell’anno seguente accettò con trasporto di stare a capo del Comitato cittadino costituitosi per festeggiare le nozze d’argento dei Reali; tanto è vero che quando nel 95 il Celli si presentò nuovamente agli elettori del collegio, dopo essersi dichiarato, benchè non del tutto apertamente, repubblicano, egli lo abbandonò, e si schierò dalla parte del Raffaelli. Splendida è la lettera da lui allora scritta al Celli.
Del resto, chi lo conosceva intimamente non ha mai creduto doverlo annoverare fra i camaleonti politici!
Povero Ginevri! Ricordo che l’anno scorso, quando per festeggiare le nozze del principe ereditario la cittadinanza offrì un pranzo ai poveri del paese, benchè noi del Comitato promotore non si fosse invitato alcuno ad assistervi, egli volle recarsi all’Asilo infantile, dove il pranzo avrebbe avuto luogo. Ma non sentendosi la forza di andare più oltre, dovette fermarsi a Casa Jonni, e lì, non potendo fare null’altro che avesse mostrato l’esultanza provata in quel giorno dal suo cuore di patriota, volle compilare il telegramma d’augurio che noi del Comitato si voleva inviare ai Principi.
Fu quello l’ultimo giorno, credo, che uscì di casa. Pochi dì appresso dovè mettersi a letto, e il 12 novembre mori.
Nella parete sopra il suo letto di morte, ricordo, spiccava la maschia figura del Padre della Patria; nella cappella ardente, la bandiera attorno alla quale nell’aprile del 60 eransi raccolti a Bologna gli emigrati marchigiani. Erano quelli i simboli de’ suoi più forti affetti: La Patria e il Re.
Sul suo petto brillavano le medaglie ottenute nelle campagne per la libertà e l’indipendenza della Patria, e le croci dei S. S. Maurizio e Lazzaro e della Corona d’Italia. Erano esse la prova del suo valore, del suo patriottismo, di quanto aveva fatto a pro’ dell’Italia e del suo paese nativo.
All’annunzio della sua morte, un cordoglio vivissimo invase il cuore d’ognuno; la sua salma fu accompagnata al cimitero dalla cittadinanza intera; al passare del feretro che la portava, i negozi tutti si chiusero. Era un tributo d’amore e gratitudine ben dovutogli quello che Pergola così gli rendeva.
Amicissimo del Finali, del Tanari, di Augusto Elia, del Principe Simonetti, del De-Poveda, del Ploner, del Misturi, del Casarini, del Salvoni, del Cresci, dell’Orsi, del Penserini e di tanti e tanti altri illustri patrioti che nei giorni delle lotte per la libertà avevano potuto apprezzarne le rarissime virtù della mente e del cuore, il Ginevri si ebbe poi anche l’amicizia del Serafini, del Corvetto, del Mariotti, del Canzio, del Vaccai e di molti altri uomini eminenti.
Oltre gli opuscoli che ho già ricordato, ne scrisse, fra gli altri, uno sulla grotta di Frasassi, riprodotto per intero dal Touriste di Parigi; uno sulla legge del Macinato; un manuale teorico-pratico sulla coltivazione della vigna latina, premiato con diploma d’onore; un libretto sui benefizî della mutua assicurazione pei danni della grandine; un altro, dal titolo Avanti sempre Savoia, sulla questione economica. Quest’ultimo mostra come grandissimo fosse in lui l’affetto pei lavoratori: affetto che, del resto, aveva sempre mostrato, sia nell’adoprarsi per la costituzione della Società Operaia e della Cooperativa fra i Muratori; sia nel tentativo che fece di far rifiorire l’antica industria pergolese dei tappeti e delle coperte di borra, industria che succeduta a quella dei corami e delle pannine, era stata non molti anni indietro vanto e vita della città nostra; sia nello stabilire scuole popolari ed altre istituzioni specialmente al povero popolo giovevoli.
Compilò anche un progetto per il monumento da erigersi in Roma a Vittorio Emanuele; ne compilò un altro, per un Teatro Massimo da costruirsi nella stessa città. E quantunque tali progetti non venissero accolti, e specialmente al secondo si facesse qualche critica, non mancò ad essi la lode degli intelligenti dell’arte.
Il progetto sul Teatro Massimo ottenne poi un diploma di 2° grado alla prima esposizione nazionale d’architettura, fu chiesto: dal Ministero per essere conservato nel Museo nazionale di Torino, dove tuttora si trova, e valse al Ginevri oltrechè la nomina d’ingegnere architetto, conferitagli dal Ministero, anche l’essere annoverato fra i soci onorari di più accademie di Belle Arti.
Nato in una discreta agiatezza, il Ginevri erasi ridotto negli ultimi anni della vita sua in tali strettezze che ove non gli si fosse accordata una pensione annua di novecento lire dall’ordine cavalleresco dei S. S. Maurizio e Lazzaro, avrebbe dovuto forse soffrire tutte le terribili conseguenze della miseria; e ciò dopo avere amministrato milioni di capitali. Cosa degna di nota: specialmente oggi, che in tutto si ha di mira il proprio interesse personale, per giovare al quale si commettono financo azioni disoneste, con una disinvoltura ammirabile. Che se taluno mi osservasse non esser degno di lode chi sperpera i suoi capitali, gli risponderei che il Ginevri cominciò a trovarsi in dissesto fino dal 60, quando per sopperire alle spese sostenute durante l’emigrazione, dovette vendere buona parte de’ suoi capitali; e che quindi perse tutto quanto aveva, specialmente per fare del bene o per compiere delle opere che egli credeva sarebbero state di lustro alla Patria, a Pergola, al suo nome.
Il patriottismo, il disinteresse e il buon cuore non furono poi le uniche belle doti del Ginevri; chè anco la lealtà, la franchezza lo distinsero. Tanto è vero che, per dirne una, quando nel 67 il Prefetto della Provincia gli chiese il suo parere sulle ragioni del malcontento che in talune classi della popolazione allora serpeggiava, egli, senza ambage, gli dichiarò doversi esse ricercare nella malversazione della pubblìca cosa e nell’attuazione di leggi create con mal genio e senza conoscenza delle cose e degli uomini.
Forse il Ginevri mostrò talvolta di non avere troppo senso pratico delle cose; ma ciò devesi attribuire all’esuberanza che c'era in lui dell’idealità del bene, della quale, come scriveva giorni sono il chiarissimo avvocato Raffaelli, egli ne aveva da vendere ad una generazione nuova, non già ad alcuno o ad alcuni. Forse fu troppo pronto nel criticare l'operato di amministrazioni da lui non presiedute, forse non gli mancarono altri difetti. Ma contuttociò, la sua rimane sempre una bellissima e simpatica figura di patriotta, di cittadino, che nessuno dimenticherà mai, che tutti, invece, sempre ammireranno.
Che tutti ammireranno, dico, ma che sventuratamente pochi solo cercheranno imitare! Perchè se i vecchi patrioti se ne vanno, sembra vogliansi dileguare con essi anche i loro più sacri ideali!
Se ne vanno i vecchi patrioti, e il patriottismo li segue, cedendo il posto allo scetticismo più odioso. E ciò, mentre sulle italiane mura di Trento, mentre sulle italiane mura di Trieste ha ancora il suo nido l’aquila austriaca; mentre altre non meno nobili terre sembra voglian dimenticare di esser parte d’Italia! Mentre tanti dei nostri padri hanno sempre i segni dell’antica schiavitù al piede, e risuonano ancora per l’aria i gemiti strazianti delle migliaia e migliaia di martiri che la felicità, la vita sull’altare della Patria offersero! Mentre questa povera Italia, più che mai bisognosa di chi l’ami, di chi per lei non rifugga anche dal sacrificarsi, tende a’ suoi figli le braccia supplichevoli!
Se ne vanno i vecchi patrioti, e l’egoismo più abietto nelle varie sue manifestazioni trionfa: l’Io divien l’idolo d’ognuno. L’ideale, l’ideale se ne va!
Oh, che non sia dunque l’odierna commemorazione un semplice sterile ricordo della vita di quell’illustre uomo che fu Ascanio Ginevri-Blasi; ma valga essa a scuoterci, a strapparci allo scetticismo, all’egoismo che predominano; valga a porci nell’animo quel patriottismo, quel supremo disinteresse di sè, quell’idealità del bene che il degno nostro concittadino animavano.
Gli uomini eccelsi vanno, più che pianti, imitati; e solo quando le virtù che li distinsero trovano seguaci, le loro stanche ossa hanno sussulti di gioia. Ebbene: ricordando il Ginevri, votiamo alla Patria, al Bene, tutti noi stessi; stringiamoci attorno al sacro Tricolore, che fregiato della bianca croce di Savoia, in lui ebbe un tanto animoso araldo!
Non è vero che all’ombra di quel vessillo il progresso sociale vien meno! No, chè invece dove la Patria è in onore, dove Casa Savoia è per guida, tuttociò che è giusto, tuttociò che è buono ha il suo posto; e l’Ideale, questa cara, divina cosa, inalza, allieta gli spiriti!