Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XII
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto dodicesimo
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C A N T O XII.
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1Di pari, come buoi che vanno al giogo,
N’ andava io con quell’ anima carca,
Fin che ’l sofferse il dolce pedagogo.
4Ma quando disse: Lassa lui, e varca:
Chè qui è buon co la vela e coi remi,
Quantunque può ciascun, pinger sua barca;1
7Dritto sì, come andar vuolsi, rife’mi2
Co la persona, avvegna che i pensieri
Mi rimanesser inchinati e scemi.3
10Io m’ era mosso, e seguia volontieri4
Del mio Maestro i passi, et amendue
Già mostravam come eravam leggieri;
13Et el mi disse: Volge li occhi in giue:
Buon ti serà, per tranquillar la via,
Veder lo letto de le piante tue.
16Come, perchè di lor memoria sia,
Sovra’ sepolti le tombe terragne,
Portan segnato quel ch’ elli era pria;
19Onde lì molte volte se ne piagne
Per la puntura de la rimembranza,
Che solo ai pii dà de le calcagne;
22Sì’ vidd’ io lì, ma di millior sembianza,
Secondo l’ artificio, figurato
Quanto per via fuor del monte avanza.5
25Vedea colui che fu nobil creato
Più ch’ altra creatura, giù dal Cielo
Fulgoreggiando scender da un lato.
28Vedea Briareo confitto dal telo
Celestial giacer dall’ altra parte,6
Grave a la terra per lo mortai gelo.
31Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
Armati ancora, intorno al padre loro
Mirar le membra dei Giganti sparte.
34Vedea Nembrot a piè del gran lavoro
Quasi smarrito, e riguardar le genti
Che in Sennear con lui superbi foro.7
37O Niobe, con che occhi dolenti
Vedea io te segnata in su la strada
Tra sette e sette tuoi filliuoli spenti!
40O Saul, come in su la propria spada
Quivi parevi morto in Gelboè,
Che poi non sentì pioggia, nè rugiada!
43O folle Aragne, sì vedea io te,
Già mezzo ragne, tristo in su li stracci8
Dell’ opera che mal per te si fe.
46O Roboam, già non par che minacci
Quivi ’l tuo segno; ma pien di spavento
Nel porta il carro prima ch’ altri l’ cacci.
49Mostrava ancor lo duro pavimento,
Come Almeon a sua madre fe caro9
Parer lo sventurato adornamento.
52Mostrava come i figli si gittaro
Sovra Senacherib dentro dal tempio,
E come morto lui quivi lassaro.
55Mostrava la ruina e ’l crudo scempio,
Che fe Tamiri, quando disse a Ciro:
Sangue sitisti, et io di sangue t‘ empio.
58Mostrava com’ in rotta si fuggirò
Li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
Et anco le reliquie del martiro.
61Vedea Troia in cener e in caverne:
O Ilion, come te basso e vile
Mostrava ’l segno che lì ti discerne!
64Quel di pennel fu maestro o di stile,
Che ritraesse l’ ombre e li atti quivi,10
Mirar farebbe ogni ingengo sottile?10
67Morti lì i morti, e i vivi parean vivi:11
Non vidde mei di me chi vidde il vero,
Quant’ io calcai fin che chinato givi.12
70Or superbite, e via col viso altero,
Filliuoli d’ Eva, e non chinate il volto,
Sì che veggiate il vostro mal sentero.
73Più era già per noi del monte volto,
E del cammin del Sole assai più speso,
Che non stimava l’ animo non sciolto;
76Quando colui, che inanzi sempre atteso
Andava, cominciò: Drizza la testa:
Non è più tempo di gir sì sospeso.
79Vedi colà un Angel che s’ appresta
Per venir verso noi; vedi, che torna
Dal servigio del di’ l’ ancilla sesta.
82Di riverenzia il viso e li atti adorna,
Sì ch’ el diletti lo menarci in suso:13
Pensa che questo di’ mai non raggiorna.
85Io era ben del suo ammonir uso
Pur di non perder tempo, sì che in quella
Matera non parea parlarmi chiuso.14
88A noi venia la creatura bella
Bianco vestita, e ne la faccia quale
Par tremulando mattutina stella.
91Le braccia aperse, et inde aperse l’ ale;
Disse: Venite: qui son presso i gradi,
Et agevolmente omai si sale.
94A questo annunzio vegnon molto radi:
O gente umana per volar su nata,
Perchè a poco vento così cadi?
97Menocci ove la roccia era talliata;
Quivi mi batteo l’ ali per la fronte,
Poi mi permisse sigura l’andata.15
100Come a man destra, per sallire al monte
Dove siede la chiesa, che soggioga
La ben guidata sovra Rubaconte,
103Si rompe del montar l’ardita foga
Per le scalee, che si fero ad etade,
Ch’ era siguro il quaderno e la doga;
106Così s’ allenta la ripa, che cade
Quivi ben ratta dall’ alto girone;16
Ma quinci e quindi l’ alta pietra rade.
109Noi volgemmo ivi le nostre persone;17
Beati pauperes spiritu, voci
Cantaron sì, che nol diria sermone.18
112Ahi quanto son diverse quelle foci
Dalle infernali! chè quivi per canti
S’ entra, e laggiù per lamenti feroci.
115Già montavam su per li scalon santi,
Et esser mi parea troppo più lieve,
Che per lo pian non mi parea davanti;
118Et io: Maestro, dì, qual cosa grieve
Levata s’ è da me, che nulla quasi
Per me fatica andando si riceve?
121Rispuose: Quando i P, che son rimasi
Ancor nel volto tuo presso che stinti,
Saranno, come l’ un, nel tutto rasi,19
124Fien li tuoi piè dal buon voler sì vinti,20
Ched ei non pur fatica non sentranno;2122
Ma fi’ diletto loro esser su pinti.23
127Allor fec’ io come color che vanno
Con cosa in capo non da lor saputa,
Se non che i cenni altrui sospicar fanno;
130Perchè la mano ad accertar s’ aiuta,
E cerca e trova, e quell’ officio adempie
Che non si può fornir per la veduta:
133E co le dita de la destra scempie
Trovai pur sei de le letter, che incise24
Quel de le chiave a me sovra le tempie,
136A che guardando il mio Duca sorrise.25
- ↑ v. 6. C. A. Quanto si può
- ↑ v. 7. Rife’mi; rifeimi, mi rifeci. E.
- ↑ v. 9. C. A. e chinati e
- ↑ v. 10. C. M. volentieri
- ↑ 24. C. A. via di fuor
- ↑ v. 29. C. M. no l’ altra
- ↑ v. 36. C. A. Che a Sennaar con lui insieme foro.
- ↑ v. 44. C. A. mezza aragna, fitta in
- ↑ v. 50. C. A. Almeona
- ↑ 10,0 10,1 v. 65, 66. C. A. e i tratti, ch’ivi Farien mirar
- ↑ v. 67. C. A. Morti li morti,
- ↑ v. 69. Givi; andai. In antico ne’ verbi della terza coniugazione la prima
persona singolare del perfetto cadde ancora in ivi alla guisa latina. Dante da
Maiano « Di ciò ch’ audivi dir primieramente ». E. - ↑ v. 83. C. A. Sì che diletti lo inviarci suso,
- ↑ v. 87. C. A. Materia non potea
- ↑ v. 99. C. A. promise sicura l’entrata,
- ↑ v. 107. dall’ altro
- ↑ v. 109. C. A. Quivi volgendo le
- ↑ v. 111. C. A. Cantavan
- ↑ v. 123. C. A. del tutto
- ↑ v. 124. Fien; fieno, saranno, dal fient futuro de’ Latini. E.
- ↑ v. 125. C. A. Che non pur non fatica sentiranno;
- ↑ v. 125. Sentranno; sentiranno. Non è nuovo presso gli scrittori approvati questo levar via l’ e o l’ i dal mezzo di taluni verbi. Il nostro Commentatore ci dà pure esempi di simili contrazioni: movrei pag. 28, ricevrebbe p. 188, romprebbe p. 26, seguitrebbe p. 79. del T. ii. E.
- ↑ v. 126. C. A. Ma fia diletto lor esser sospinti.
- ↑ v. 134. C. A. sei le lettere,
- ↑ v. 136. C. M. il mio Dottor
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C O M M E N T O
Di pari, come buoi ec. In questo duodecimo canto lo nostro autore finge come, andando per questo primo balso del purgatorio, trovò molte istorie dei superbi scolpite ne lo spasso 1, e come sallite
all’altro balso. E dividesi tutto principalmente in due parti, perchè
prima finge come, seguendo Virgilio, ammonito da lui di riguardare
lo spasso 1, vidde molte istorie scolpite in su lo spasso dei superbi;
ne la seconda finge come pervenneno a la scala che montava al
secondo balso, e come si trovò purgato del peccato de la superbia; et
incomincia quive: Or superbite ec. La prima,che serà la prima lezione, si divide in parti tredici: imperò che prima finge come Virgilio lo rimuove da l’attensione d’Odorisi e sollicitalo dell’andare, e
mostragli che ragguardi ai suoi piedi e vedrà l‘imagine che erano
nello spasso; ne la seconda finge Come elli ammonito ragguardò in
giù, e vidde scolpito la ruina del Lucifero ne lo spasso, et incomincia quive: Come, perchè ec.; ne la terza finge come vedesse scolpita
la storia dei Giganti, quando li dii li vinseno ne la battallia di Flegra, e fa menzione di Briareo e d’alquanti iddii 2, quive: Vedea Briareo ec.; ne la quarta finge come vedea la storia di Nembrot,
quive: Vedea Nembrot ec.; ne la quinta finge che vedesse scolpita
una finzione poetica; cioè di Niobe, quive: O Niobe, con che ec.; ne
la sesta finge che vedesse una istoria de la Bibbia; cioè del re Saul,
quive: O Saul, come ec.; ne la settima finge che vedesse scolpita la
finzione d’Aragne, quive: O folle Aragne, ec.; ne l’ottava finge come
vedesse scolpita la storia di Roboam, quive: O Roboam, ec.; ne la
nona finge come vidde la finzione d’Almeone, quive: Mostrava ancor ec.; ne la decima finge che vedesse scolpita la storia di Senacarib, quive: Mostrava come i figli ec.; ne la undecima finge come
vidde scolpita la storia de la morte di Ciro fatta da Tamiri regina,
quive: Mostrava la ruina e ’l crudo scempio ec.; ne la duodecima finge che vedesse la storia d’Oloforne e di Giudit, quive: Mostrava com’ in rotta ec.; ne la tredicesima et ultima finge che vedesse
scolpita la destruzione di Troia, quive: Vedea Troia ec. Divisa la
lezione, ora è da vedere lo testo e l’allegorica esponizione, o vero
morale.
C. XII v. 1-15. In questi cinque ternari lo nostro autore, incominciando lo canto xii, finge come andando chinato con Odorisi d’Agobbio, Virgilio l’ammonitte de l’andare in fin che venneno sopra le sculture ch’erano fatte ne lo spasso de la cornice prima, in castigamento et esemplo dei superbi, le quali finge l’autore essere intalliate quive, come quelle dell’umilità ne la parete, dicendo così: Di pari, coinè buoi che vanno al giogo; ecco che induce la similitudine dei buoi che sono legati ad uno giugo, che va l’uno pari all’altro, e così dice che andava elli con Odorisi; e però dice: N’andava io; cioè Dante, con quell’anima: cioè con Odorisi d’Agobbio, carca; cioè caricata col peso che portava per sodisfacimento de la sua superbia in sul capo, come fìnto àe di sopra. E questo significa allegoricamente che l’autore, quand’ebbe questo pensieri ebbe compassione a sì fatta pena, e parimente la portava con afflizione de la mente; o volliamo intendere che di pari andava con lui, in quanto era stato anco elli vanaglorioso in de l’opere suoe: imperò che si dice: Nulla tanta humilitas est, quœ dulcedine gloriœ non tangatur; e però finge che andasse pari con lui, per purgarsi de la sua vanagloria. Chi è colui che non sia contento che sia lodato lo bene che elli fa e non ne gonfi qualche pogo, come dice Boezio in secondo Philosophicœ Consolationis?— Tum ego, scis inquam, ipsa, minimum nobis ambitionem mortalium rerum fuisse dominatam. Sed materiam gerendis rebus optavimus, quo ne virtus tacita consenesceret. At illa: Atqui hoc unum est, quod prœstantes quidem natura mentes; sed nondum ad extremam manum virtutum perfectione perductas allicere possit gloriœ scilicet cupido, et optimorum in rempublicam fama meritorum. Ma che dè fare l’omo? Non dè costituire questa gloria per suo fine, benché Jiene giovi, e però di ciò si purgò tanto quanto parve a Virgilio; e però dice: Fin che ’l sofferse il dolce pedagogo; cioè in fin che ’l sofferse Virgilio; cioè la ragione che ammonisce la sensualità che non perda tempo sopra uno pensieri; et anco si può intendere che l’autore, come ditto è, la portava per sodisfacimento de la sua superbia, sicché quando l’ebbe portata tanto, quanto parve a la ragione sua che fusse purgato tal peccato coll’atto de la penitenzia, l’ammonitte d’andare a purgare li altri. Ma quando disse; cioè Virgilio a me Dante: Lassa lui; cioè Odorisi; cioè non stare più in sul suo pensieri, e varca; cioè a considerare più oltra, e procedere ne la materia e nell’atto de la penitenzia: Chè qui è buon; ecco che assegna la cagione dicendo: imperò che è buono in questo atto; cioè de la penitenza che si fa in questo mondo co le propie opere, e di quella che si fa in purgatorio coi preghi c buone opere et elimosine dei vivi; e però dice: co la vela e coi remi; pilliando similitudine dai naviganti che allora bene si sforsano d’andare quando fanno vela, e niente di meno vogano; e così chi è in stato di penitenzia dè andare in essa co le buone opere fatte per sè, che sono significate per li remi; e co li preghi et elemosine e buone opere d’altrui, che sono significate per la vela che mena l’omo sensa sua fatica, Quantunque può ciascun, pinger sua barca; ecco che seguita la similitudine, ponendo qui la barca che significa la volontà, la quale ci mena per l’opere buone e rie, come la barca per lo mare turbolento e tranquillo. Dritto sì come andar vuolsi, rife’mi; dice che si rissò su, quando volse andare più ratto; cioè levò lo suo pensieri da la materia anteditta, Co la persona: questo dice, per fare verisimilc la sua finzione: imperò che, se prima andava chinato co la persona per andare a pari d’Odorisi, come finto è di sopra, conveniente è che dica che ora si levasse ritto co la persona; et anco finge questo per mostrare che sì tosto non potette lassare li pensieri di prima: imperò che, benché si levasse col volere e coll’apparenzia di fuori, anco rimase la fantasia implicita nei pensieri di prima un poco, et a questo intelletto s’intende co la persona: cioè co la volontà, coll’atto di fuori; e però dice: avvegna che i pensieri Mi rimanesser inchinati e scemi; cioè a la materia di prima inchinati c non dichiarati per lo detto oscuro, che finge che facesse Odorisi a lui, di sopra ne la fine del precedente canto, Io; cioè Dante, m’era mosso; del luogo primo; e per questo s’intende che s’era partito de la 3 materia prima, e seguia volontieri Del mio Maestro i passi; cioè di Virgilio che mi guidava; cioè seguitava la sensualità lo passamento de la materia, che persuadeva la ragione, et amendue; Cioè Virgilio et io Dante, Già mostravam come eravam leggieri; ad andare: imperò che andavamo più ratti che prima, sgravati già del peccato de la superbia. Et el; cioè Virgilio, mi disse; cioè a me Dante: Volge li occhi in giue; cioè ai tuoi piedi, Buon ti serà, per tranquillar la via; cioè per far più agevile la fatica de la via, Veder lo letto de le piante tue; cioè vedere lo spasso 1 sopra ’l quale tu vai; cioè considerare li gradi de la superbia li quali tu scalchi co l’affezioni tuoe sì come vili, e per tanto ti parrà più agevile la via de la penitenzia.
C. XII — v. 16-27. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, ammonito da Virgilio, ragguardò in giù a lo 1 spasso, e vidde designato molte istorie c finzioni; e prima quella del Lucifero che per superbia cadde dal Cielo co la sua sella, dicendo: Come perchè di lor memoria sia; ecco che prima induce la cagione finale che induca l’effetto per similitudine, dicendo che a fine di lassare memoria di sè et estendere la sua fama, si fanno le Sculture sovra lì avelli, Sovra’ sepolti; cioè coloro che sono quive sotterrati, le tombe terragne; cioè li avelli che sono piani in terra co le lapide di sopra, e fa menzione l’autore più tosto di questi che de’ sepolcri alti, perchè viene a suo proposito, Portan segnato quel ch’elli era pria; cioè lo sepolto co la soprascrizione co l’arme, co la figura corporale a mo’ di iudici 4 o di medico o di cavallieri, secondo ch’è stato ne la vita. Onde lì molte volle se ne piagne; da coloro che le ragguardano; et assegna la cagione, Per la puntura de la rimembranza; cioè per la ricordansa che dà dolore a chi li amava, Che solo; cioè la quale ricordansa, ai pii; cioè ai pietosi, dà de le calcagne; Cioè pugne li pietosi, come si pugne lo cavallo co li sproni che sono a le calcagna; e posta questa similitudine, l’adatta al suo proposito, dicendo: Sì vidd’io lì cioè così vidd’io Dante quive ne lo spasso scolpito, ma di millior sembianza; cioè di milliore figurazione, Secondo l’artificio; cioè segondo lo modo dell’arte de lo scolpire, figurato; cioè scolpito; e rendesi a quello vidd’io lì, Quanto per via fuor del monte avanza; cioè tutto lo spasso de la cornice, che avansava dal monte in fuora per andarvi suso. Vedea colui; io Dante, cioè Lucifero, che fu nobil Crealo Più ch’altra Creatura: imperò che più di grazia avea ricevuto da Dio che niuna creatura; e quinde, unde dovea più ricognoscere Iddio, diventato ingrato et invidioso, insuperbitte e volse esser pari al Filliuolo di Dio, dicendo: Dispono sedere ad partes Aquilonis, et esse similis Altissimo; unde fatto questo concetto, ruino dal cielo co la sua setta; e però dice: giù dal Cielo Fulgoreggiando; cioè a modo di folgore, scender da un lato; cioè da la parte d’aquilone, Cioè di settentrione, dove voleva ascendere e sedere, quinde ruinò e cadde e così era quive scolpito. E perchè questa-istoria è nota, nolla dichiaro altramente se non che l’autore finse questa prima scolpita quive, perche fu la prima superbia e la maggiore, e la più tosto punita e più gravemente che niuna, sicché bene se ne dè pilliare esemplo dalli omini di penitenzia che sono nel mondo; et anco da quelli che si purgano in purgatorio possiamo credere essere considerata tale superbia, avendone dispiacere 5 e scalcandola e dispregiandola; e però finge l’autore che sia ne lo spasso, per dare ad intendere che sia da loro scalcata e dispregiata.
C. XII — v. 28-33. In questi due ternari lo nostro autore finge che vedesse scolpita ne lo spasso la sconfitta dei Giganti, che secondo la Bibbia funno omini potenti e superbi, disobbedienti a Dio; e secondo le finzione poetiche funno ribelli a Giove e volseno pilliare lo Cielo, ponendo monte sopra monte a la battallia di Flegra, come ditto fu ne la prima cantica; e Giove con li dii, cioè Apolline, Pallade e Marte li saettò et ucciseli, come si fa menzione nel xxxi canto e nel xiv canto de la prima cantica, e però non mi stenderò a narrarla qui, se non toccando lo testo. Dice adunqua così: Vedea Briareo: cioè io Dante vedea Briareo, lo quale per altro nome fu chiamato Egeon, e fingesi che avesse cento mani dai Poeti sì, che ora finge l’autore che ’l vedesse scolpito ne lo spasso, fulminato da Giove, come fingeno li Poeti; e però dice: confitto; cioè traforato, dal telo Celestial; cioè da la saetta che viene di sopra dall’aire turbulento naturalmente, secondo li Filosofi; ma secondo la Volontà Divina, percuote sì, che fingeno li Poeti che percotesse Briareo, e così dice l’autore che vidde figurato, giacer dall’altra parte; cioè diversa da quella, u’ era lo Lucifero morto e fulminato, appariva ne la scolpitura; e ben dice dall’altra parte: però che simile fu la superbia dei Giganti contro li dii a quella de Lucifero contra Dio; e però le pone di pari. Grave a la terra per lo mortai gelo; perchè figurato era morto. Vedea Timbreo; cioè Apolline filliuolo di Giove, lo quale è ditto Timbreo da una erba, la quale è chiamata timbra, la qual’è erba medicinale consecrata ad Apolline, lo quale è reputato trovatore de la Medicina, vedea Pallade; cioè la dea de la sapienzia, e Marte; cioè lo dio de la battallia, Armati ancora; cioè scolpiti coll’arme ancora quive, come finseno li Poeti che fusseno quando combattetteno, intorno al padre loro; cioè Giove che era quive scolpito come fulminava li Giganti, Mirar le membra dei Giganti sparte; vedea io Dante quelli dii ragguardare le membra divise qua e là dei Giganti fulminati da li dii; cioè da Giove e da loro. Et è qui da notare quello che li Poeti inteseno per tale finzione; Giove dà ad intendere iddio: imperò che Jupiter interpretasi juvans pater; Iddio è padre d’ogni cosa: imperò che ogni cosa àe creato e crea et è aiutatore: però che conserva in essere quello ch’elli produce; che se elli nol conservasse, tutte le cose create verrebbeno meno; li Giganti, cioè li omini terreni: imperò che Gigante s’interpreta nato di terra, li quali si diceno avere piedi serpentini; cioè l’affezioni fraudulente et ingannevili. Si sforsano, mettendo monte sopra monte; cioè cumulando l’uno bene terreno sopra l’altro, di montare in Cielo, cioè di farsi perpetui come è Iddio e cacciare Iddio di Cielo; cioè attribuendo a sè l’onore che si dè rendere a Dio; ma Iddio li fulmina quando li gitta a terra de la loro grandezza, o subvertendo la grandezza loro, o uccidendoli co la forsa sua e de li dii suoi filliuoli; cioè co la Forsa Divina e de le suoe virtù, che sono produtte da lui in quanto elli l’adopera: imperò che la virtù di Dio in se è eterna et è ab eterno, come è Elli. Pognano tre filliuoli esser stati con lui, quando si vendicò dei Giganti; cioè Apolline che significa la volontà iusta di Dio, la quale alcuna volta premia, et alcuna volta punisce, e però fingeno Apolline supero et infero, sicché allora fu infero: però che li piacque d’usare la iustizia punitiva; e Pallade che significa la sapienzia, e però si finge del cerebro di Giove nata: imperò che alli uomini sta nel capo e nel cerebro; e Marte che significa la potenzia e la forza di Dio, e però si dice iddio delle battallie: imperò che la potenzia e la forsa vince ne le battallie, volendo significare che Iddio ogni cosa fa con iustizia, sapienzia e potenzia: imperò ch’Elli sa, puote e vuole sempre quello che è iusto. E questo finge l’autore: imperò che li peccatori, che sono tornati a penetenzia del peccato de la superbia, pensando ne la mente loro quanto ella dispiace a Dio, pensano singularmente le grandi iustizie che Iddio n’à fatto, mentre che stanno nel mondo; e convenientemente anco possiamo pensare che facciano l’anime del purgatorio, e però che l’abbiano scolpite ne lo spasso, e che le scalchino coi piedi, non quanto a la iustizia punitiva del peccato; ma quanto a la viltà del peccato et al dispiacere che ànno di tal peccato.
C. XII — v. 34-37. In questo ternario lo nostro autore fìnge come vidde scolpita una istoria de la Bibbia; cioè di Nembrot che fece la torre di Babele, come si contiene nel primo libro de la Bibbia che si chiama Genesis, cap. xi. Noè ebbe tre fìlliuoli; cioè, Cam, Sen et Iafet. Nembrot fu de’ descendenti di Cam, et ebbe signoria sopra loro; Iepram fu de’ descendenti di Sen e regnò sopra loro; Sufene fu dei filliuoli e descendenti di Iafet e regnò sopra loro. Questi 3 signori; cioè Nembrot, Iepram e Sufene si convenneno nel campo di Sennear, e ragionando del diluvio che era stato al tempo de l’antiquo loro; cioè Noè, volendo remediare che se altra volta venisse non noiasse loro, benché questo non dice la Bibbia; ma dice che ’l fenno, per onorare lo nome loro innanti che si dividisseno sopra la terra, dicendo di fare una città et una torre che andasse infino al Cielo, consilliò Nembrot che facesseno la città et una torre più alta che non fu l’acqua del diluvio, con giri intorno che s’empiesseno di terra, sicché si potesse seminare per avere da vivere, e così deliberonno et incomincionno la ditta torre, e funno a l’edificazione di ciascuno popolo di questi 3 signori venti quattro mila sette cento omini. Et incominciata la torre et edificatone grande parte, quando piacque a Dio funno diversificate le loro lingue, sicché l’uno non intendea l’altro, e trovòsi 6 allora diversificato lo parlare in 72 modi; e così non intendendo l’uno l’altro, convenne loro lassare la impresa. E perchè questo procede da superbia; cioè volersi ribellare de la sentenzia di Dio e potere più che Iddio, però Iddio mostrò ch’elli era più potente di loro; e però finge l’autore che fosse scolpita ne lo spasso de la cornice prima del purgatorio, perchè chi si purga di tale peccato scalca questa superbia, considerando la sua viltà; e così chi è nel mondo in stato di penitenzia se ne fa beffe di questo: anco è fatto menzione ne la prima cantica a la entrata del ix circulo. Dice così lo testo: Vedea; cioè Dante, Nembrot; del quale è ditto di sopra, a piè del gran lavoro; cioè de la torre. Quasi smarrito; perch’elli non intendeva lo parlare di nessuno, e nessuno lui, e riguardar le genti; ch’erano scolpite in quello marmo, Che in Sennear; cioè in quella contrada, dove s’edificò la ditta torre, con lui superbi foro; cioè quelli 24 mila e 400, che tutti pecconno per superbia, volendo contrafare a Dio.
C. XII — v. 37-39. In questo ternario finge lo nostro autore che vedesse scolpita una finzione poetica, la quale pone Ovidio, Metamorfosi nel libro vi, dicendo che Niobe fu filliuola di Tantalo filliuolo di Giove, e fu mollie d’Anfione che murò la rocca di Tebe col suono della testudine, come fìnge Ovidio ancora. Ma lo nostro autore toccò di sopra ne la prima cantica la verità; cioè che co le Muse; cioè col bel parlare indusse li omini a fare le mura, quando disse nel canto xxxii de la prima cantica: Ma quelle Donne aiutino il mio verso, Ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe, Sì che dal fatto il dir ec. Questa Niobe ebbe d’ Anfione 14 filliuoli, 7 maschi e 7 femmine, e per questo era tanto superba ch’ella dispregiava Latona madre d’Apolline e di Diana, e nolli volea fare, nè lassava altre donne sacrificio farli e dispregiavala, dicendo: A Latona che non à se non 2 fìlliuoli; cioè Febo e Diana, volete fare sacrificio? Faitelo 7 a me che ne sono più degna, che n’ abbo partorito 14: io sono da esser tenuta a dia 8. Unde sentendo Latona questo, lamentossi a Febo e Diana, unde Febo prese l’arco e saettò tutti li fìlliuoli di Niobe et Anfione suo marito; et ella piangendo si mutò in statua di marmo, che anco piange e stilla gocciole 9 d’acqua che paiano lagrime. E questo fingeno li Poeti che avvenisse a Niobe per la sua superbia; e però finge l’autore ch’ella sia scolpita in quello spasso de la cornice, dove si purgano li superbi. Per verisimili è che l’anime, che si purgano a contrizione del loro peccato, s’arricordano di tutti li esempli de la confusione dei superbi scalcandoli, avendo in dispiacere tale peccato, e così quelli che sono in stato di penitenzia nel mondo; e però dice lo testo: O Niobe; regina di Tebe, donna del re Anfione con che occhi dolenti; cioè piangenti e lacrimanti, Vedea io; cioè Dante, te; scolpita nel marmo; e però dice: segnata in su la strada; unde passavano li superbi che si purgavano, Tra sette e sette tuoi filliuoli spenti; cioè tra sette fìlliuoli maschi e sette femine morti tutti! Et anco lo marito vi mette Ovidio, lagrimando e piangendo sempre; e cosi finge che quive fusse figurata.
C. XII — v. 40-43. In questo ternario lo nostro autore finge che vedesse scolpita ne lo spasso de la detta cornice la storia di Saul; cioè de la morte sua, secondo che è scritto ne la Bibbia nel primo libro dei Re, capitolo ultimo. Saul filliuolo di Cis de la schiatta di Beniamin fu vinto da Samuel profeta, re di Israel; e fu Saul fortissimo omo, sicché valeva per mille; e fu superbissimo et inimicava David che fu de la schiatta di Gesse, e fu più forte di lui: imperò che David valea per dieci mila. Avvenne caso che li Filistei mosseno guerra a Saul, e David fu con loro, perchè Saul lo volea pur per nimico, e fu cacciato Saul da’ nimici infine ai monti Caspi, che allora si chiamavano monti di Gelboe; e per non venire vivo a mano de’ nimici, essendo molto superbo 10, si fece uccidere a Malachita suo giovano co la sua propria spada, appostoliela in mano e comandandoli ch’elli lo percotesse, e così cadde morto in su la propria spada. Ritornato lo populo d’Israel in Gerusalemme e li Giudei in Ebron dove era David, chiamonno re David; e come si contiene nel secondo libro dei Re, capitolo primo, David essendo unto re maledisse li monti di Gelboe u’ era morto Saul, che mai non vi cadesse nè pioggia, nè rogiada, e che fusseno sterili e così sono stati poi sempre. E perchè Saul fu superbissimo, e per superbia si fece uccidere, e però finge l’autore che questa istoria vi fosse scolpita. Dice così lo testo: O Saul; re di Israel, come in su la propria spada; cioè tua 11, co la quale ti facesti uccidere a Malachita et in su la quale cadesti morto, Quivi; cioè in quel marmo figurato, parevi morto in Gelboè; cioè come tu facesti 12 uccidere te medesmo in quelli monti così chiamati, che erano figurati quive, Che; cioè lo quale Gelboè, poi; cioè che funno maladitti da David, perchè tu vi fosti morto, non sentì pioggia, nè rugiada; per la maledizione che li diede David, come ditto è! Questo finge l’autore per la cagione assegnata di sopra nell’altre finzioni et istorie.
C. XII — v. 43-45. In questo ternario lo nostro autore finge che vedesse scolpita ne lo sopra ditto luogo la finzione poetica che pone Ovidio, Metamorfosi nel libro vi; come Aragne filliuola di Idmone da Colofone isola di Lidia che è ne la Grecia, lo quale era tintore: et Aragne era tessitrice di tele di seta e drappi ad oro, et era la più .sottile maestra di ciò che fusse in Lidia; unde ella pilliando di ciò superbia, incominciò a vantarsi ch’ella vincerebbe in 13 quell’arte ogni uno, et eziandio la dia de la sapienzia; Pallade. Unde Pallade sapendo questo, venne a lei in apparenzia d’una vecchia et ammonittela che non contendesse co li idii; ma co li uomini; e quella più insuperbita, peggio parlava che prima; unde Pallas ritornata in sua figura disse: Ecco Pallade, veggiamo chi sa mellio tessere o tu, o io: e fece Pallade una bella tela con figure d’esempli di coloro che aveano preso contenzione co li iddii et erano male capitati. Et Aragne fece una tela de l’innamoramenti di Giove e d’alcun altri iddii tanto bene, che nessuno la potette biasimare; unde Pallade, volendo castigare la sua stoltia, la battette fortemente co la spuola che avea in mano, unde ella per superbia impaziente s’andò 14 appiccare. Pallas allora la convertitte in ragnulo, lo quale sta sempre appiccato ne le suoe tele et ai suoi fili e tesse; e però indusse questa finzione l’autore, perche questa Aragne per la sua superbia finitte male. Dice così lo testo: O folle Aragne; cioè o stolta Aragne, si vedea io; cioè Dante nel marmo scolpita, quanto a la finzione; ma quanto a la verità, nel mio concetto, te; cioè di 15 te Aragne, Già mezzo ragne; finge come era scolpita, mutata mezza in ragno e mezza no, come sarebbe bisogno a chi volesse dipingere o figurare una mutazione d’uno corpo in uno altro, che lo dipingesse a quil modo, tristo; cioè dolente, in su li stracci Dell’opera; cioè de la tela ditta di sopra, la quale finge lo nostro autore che Pallas stracciasse, benché Ovidio nol dica, che mal per te si fe: imperò che fusti perciò tu, Aragne, mutata in ragnulo. Et è qui quella ragione, che detta è di sopra nell’altre.
C. XII — v. 46-48. In questo ternario lo nostro autore finge che vedesse nel preditto luogo scolpita la storia di Roboam; e questo fu, secondo ’l vero, ne la sua imaginazione, benché secondo la finzione si dica che fosse scolpita ne lo spasso. Questa istoria è scritta nel terso libro dei Re, capitolo xii. Roboam fu filliuolo di Salomone re del populo di Dio, e rimaso re di po’ la morte del padre, ebbe lo consillio dei vecchi li quali lo consillionno che dovesse reggere lo regno con maggiore clemenzia e pace che il padre: ebbe poi lo consillio dei giovani li quali lo consillionno del contrario; unde elli indegnato, perchè era molto superbo, parendoli che li vecchi avesseno ditto male del padre, prese lo consillio dei giovani e disse al popolo minacciandolo, che se ’l padre li avea oppressi, elli li opprimerebbe via più; e così fece. Unde lo popolo indegnato uccise Aduram tributario suo co le pietre; unde elli temendo d’esser morto, montò in sul carro, e coperto lo carro si fuggì via; e però dice lo testo: O Roboam; questo era nome proprio del re filliuolo di Salomone, già non par che minacci Quivi; cioè in quella scolpitura, il tuo segno: cioè la tua figura che non era scolpita in atto minaccevile, come quando minacciò lo popolo, ma pien di spavento; cioè di paura, Nel porta il carro; cioè la tua figura quive scolpita, prima ch’altri ’l cacci; cioè prima che sia cacciato da alcuno. E qui si finge questo per la cagione, che è detta di sopra.
C. XII — v. 49-51. In questo ternario lo nostro autore finge che vedesse scolpita ne lo spasso preditto la finzione d’Almeon filliuolo del re Anfiarao lo quale era indivino, e però non volea ire a l’oste di Tebe, perchè vedea che dovea morire et essere inghiottito da la terra come elli fu, come detto è nel xx canto de la prima cantica; e però stava appiattato. Ma Argia donna di Polinice e filliuola del re Adrasto promisse ad Erifile donna d’Anfiarao lo suo cerchiello de le perle, s’ella lielo insegnasse; et ella lo insegnò, e fu costretto d’andare a la battallia, e morittevi come ditto è; e però lo suo filliuolo Almeone uccise Erifile sua madre in vendetta del padre, perch’ella l’avea insegnato. E però dice lo testo: Mostrava ancor lo duro pavimento; cioè lo duro astrato de la cornice, ne la quale erano scolpite le dette finzione e storie, Come Almeon; cioè lo filliuolo d’Anfiarao, a sua madre; cioè Erifile, fe caro Parer lo sventurato adornamento; lo cerchietto de le perle che li donò Argia: imperò che l’uccise 16. E nota che dice sventurato, perchè ad ogni uno che l’ebbe fu cagione di sciagure: imperò che finge Stazio ne la sua Tebaide che quel monile fabricasse Vulcano marito di Venere, e donasselo ad Ermione filliuola di Venere e di Marte, quando si maritò a Cadmo: imperò ch’elli l’ebbe in odio sì come nata in sua vergogna, acciò che male li colliesse; e così fu, come appare ne le sciagure che ebbe Cadmo e la sua famillia, e così chiunqua poi ebbe lo detto monile successivamente male li colse, come dimostra lo ditto autore. Questa finzione, o istoria che si debbia chiamare, dubitrebbe alcuno come vegna a proposito: imperò che se consideriamo Argia, questa peccò per avarizia o per vanagloria; e se consideriamo Almeon, pare che peccasse per ira, venendo ad impietà e parricidio. Et a che si può rispondere che per l’uno e per l’altra l’autore abbia indutto la storia: imperò che in Almeone fu superbia, in quanto per indignazione che è specie di superbia, uccise la madre; et in Erifile anco fu superbia, in quanto per vanagloria d’adornarsi di quello adornamento, insegnò lo marito; lo quale insegnamento fu cagione de la sua morte. E così può considerare lo penitente lo male che fa la superbia, et averla in abominazione.
C. XII — v. 52-54. In questo ternario lo nostro autore finge come ne lo spasso preditto vidde scolpita la storia di Senacarib. È scritto nel iv libro dei Re ne la Bibbia, nel capitolo xix, come Senacarib re d’Assiria superbissimo, essendo nel tempio ad adorare, 4 suoi fìlliuoli l’assalitteno; cioè Nefrat, Dam, Abimelc e Sarasar; e sì l’ucciseno e fuggitteno poi in Erminia. Ecco che per superbia fu morto Senacarib, e per la sua superbia che volea proponere loro altro signore, acciò che non fusseno pari a lui, indutti funno li filliuoli al paricidio; e però lo induce l’autore per dispregio de la superbia. Seguita lo testo: Mostrava; cioè lo spasso de la cornice, come i figli; cioè di Senacarib nominati di sopra, si gittaro Sovra Senacherib; padre loro, dentro dal tempio; ne lo quale era ito ad adorare, E come morto lui quivi lassaro; cioè nel tempio: mostrava ancor la scolpitura come li fìlliuoli lassonno morto nel tempio Senacarib. E per dispregio de la superbia àe indutto l’autore questa istoria, come l’altre di sopra.
C. XII — v. 55-57. In questo ternario lo nostro autore finge che vedesse scolpita la morte di Ciro re dei Persi e Medi, la quale fu in questa forma. Essendo Ciro ito co l’esercito suo contra la reina Tamiri di Scizia, lo quale ella lassò passare lo fiume che si chiama Araxes, che era termino del suo regno, credendosi essere più forte dentro ai suoi termini; et intrato dentro Ciro et accampatosi 17 per la Scizia. per li luoghi aspri che vi sono e per l’esercito de la reina che li era venuto a petto col filliuolo de la reina Tamiri, non vedendo di potere acquistare per forsa, pensò d’acquistare con inganno, e però lassò lo campo pieno di tutte le cose, e massimamente di vino e di cose da mangiare. E fatto vista di fuggire, stette appiattato tanto, che venuto poi lo filliuolo de la reina con poca gente di quelli, uscitte perseguitando Ciro che simulava di fuggire; trovato lo campo voito di gente e pieno di vino e di vivande, come giovano che non sapea de l’inganni de le battallie, intrò nel campo et impiettesi di vino e di vivande elli e l’esercito suo, e funno tutti inebriati. Unde investigato questo da Ciro, ritornò et assalitte lo campo; e trovatoli briachi tutti, tutti li uccise; unde la reina addolorata e corrucciata puose l’agguaito 18 in luogo periculoso, desiderante vendetta de la morte del filliuolo et aspettò Ciro, lo quale non credendosi trovare più scontro, abbandonatamente cavalcava per la Scizia. E venuto a luogo de le insidie fu sconfitto da la reina e preso; e fattoli talliare lo capo, lo misse in un otre pieno di sangue umano dicendo: Tu ài avuto disiderio e sete di spargere lo sangue umano, et io di sangue ti sazio. Funno morti in questa battallia 11 19 mila di Persi, che non ne campò pur uno che portasse la novella, come scrive 20 Floro Iulio abbreviatore di Trogo Pompeio nel primo libro. E però dice lo testo: Mostrava; cioè lo pavimento de la prima cornice, la ruina e ’l crudo scempio; dei Persi e Medi che funno morti 11 19 mila, Che fe Tamiri; reina a Scizia, quando disse a Ciro; re dei Persi: Sangue sitisti; cioè desiderasti tu, Ciro, et io; cioè Tamiri, di sangue t’empio; mettendoti in questo otre pieno di sangue. E per questo si conviene questa istoria a la materia, perchè Ciro per superbia di signoreggiare capitò male, finita la sua superbia da una femmina: noli vastavano li Persi, e Medi, et Assiri, e Lidi, anco volea li Scite subiugare al suo dominio.
C. XII — v. 58-60. In questo ternario lo nostro autore finge che nel ditto luogo fusse scolpita la storia di Giudit e d’Oloferne, eom’è scritto ne la Bibbia in libro Giudit, capitolo xiii. Nabucodonosor re delli Assiri, avendo guerra col populo di Israel, mandò grandissimo esercito contro lo ditto populo e fece capitano del suo esercito uno suo cavalieri che avea nome Oloferne; et in processo di tempo lo ditto capitano avea preso tutte le tenute del populo di Dio, se non Bettulia e Gerusalem; e quella Bettulia avea assediato sì strettamente, che convenia arrendersi. Era ne la città una santissima donna, vedova molto savia e bella la quale, sentendo l’afflizione de la città, si puose in cuore di liberare la sua città co la grazia e co l’aiuto di Dio; e perciò adornata quanto seppe, uscitte fuora de la città notificando a le guardie de la porta la sua andata, a ciò che li aprisseno quando tornasse. E pervenuta nel campo dei nimici, presa pregò che la menasseno al capitano: imperò ch’ella venia con certa imbasciata a lui; e presentata a lui disseli che era uscita de la città per la fame, e che la città non si potea più tenere. Allora Oloferne vedendola tanto bella e savia con onesti costumi, innamorato di lei dimandòla 21 s’ella volea stare con lui, e rispostoli che sì, fece Oloferne grande cena et inebriossi tanto di vino e di vivande come piacque a Dio, che posto a diacere 22, incontenente fu addormentato; unde ella pianamente levatasi et adornatasi dei suoi vestimenti, prese la spada d’Oloferne e talliòli 21 la testa e misela ne la sua tasca ne la quale avea arrecato da mangiare per sè, e per la serva sua ch’avea menato seco, perchè non era licito a’ Iudei di mangiare le cose dei Gentili. Et uscita fuora del pavillione, disse a le guardie: Io sono mandata dal signore ne la città con certa risposta de l’ambasciata che io li recai; et ora dorme, lassatelo riposare. E giunta a la porta di Bettulia si fece aprire, et andò ai principi de la città, e mostrò loro lo capo d’Oloferne; unde confortato lo populo uscitte fuora de la città la mattina col capo d’Oloferne in su una asta. Et assalito lo campo, li sconfisseno e misseno li Assiri in rotta; e così fu liberata la città da la superbia d’Oloferne, che li volea pur subiugare a Nabucodonosor, per la virtù di Giudit. E però dice lo testo: Mostrava; cioè la scolpitura, com’in rotta si fuggiro Li Assiri; che erano sotto Nabucodonosor, poi che fu morto Oloferne; da Giudit, Et anco le reliquie del martiro: mostrava la scolpitura; cioè lo capo d’Oloferne in su l’asta portato da Iudei. E questa s’induce qui per quella cagione, che l’altre ditte di sopra.
C. XII — v. 61-69. In questi tre ternari lo nostro autore finge
che. vedesse la destruzione di Troia scolpita ne lo spasso preditto,
perchè li Troiani funno superbi, e per la loro superbia fu disfatta
la loro città et arsa da’ Greci. Questa istoria è sì nota, che non è
mestieri descriverla, et anco n’è fatto menzione di sopra ne la prima cantica e però la lasso. Commenda ancora l’autore l’artificio.
Dice adunque così lo testo: Vedea; io Dante scolpita ne lo spasso de
la prima cornice, Troia; come ditto fu di sopra. Troia è nome di
tutta la contrada, e ponsi per la città, o forsi che anco la città fu
chiamata Troia, come Ilion fu la rocca di Troia; et alcuna volta si
pone per la città tutta, secondo che usano li Poeti; e Frigia fu lo
nome de la regione, sicché Ilion fu in Troia, e Troia in Frigia minore; in de la maggiore è la Sinirra, in cener e in caverne; poiché cusì era scolpita quivi, arsa e cavernosa. O Ilion; ecco che
esclama l’autore, meravilliandosi che la grandessa di Troia venisse in tanta bassezza, e questo fece la superbia; e però dice: O Ilion; cioè o città troiana, come te basso e vile Mostrava ’l segno;
cioè come parea basso e vile quello segno scolpito, che lì; cioè
lo quale in quil luogo, ti discerne; cioè ti figura! Quel di pennel;
ora commenda l’artificio de la scolpitura dicendo Quel; cioè quello:
potrebbe anco dir lo testo: Qual; cioè qualunqua, di pennel fu maestro; cioè fino dipintore, o di stile; cioè o disegnatore con stilo
ne le taule, Che; cioè lo quale, ritraesse; cioè cavasse da quella
scolpitura; e nota che propriamente si dice ritraere: imperò che
l’apprensiva apprende, e poi che àe appreso l’obietto, ricava di
dentro da sè, e produce fuora l’appreso, l’ombre; cioè l’ombrature
che erano in quelle scolpiture, e li atti; cioè scolpiti in quello marmo; e però dice: quivi; cioè ch’erano in quello luogo, Mirar; cioè
meravilliarsi, farebbe; non ogni 23 grosso dipintore e disegnatore, che
di ciò pogo s’intenderebbe; ma lo fine dipintore e disegnatore: imperò che ritrarrebbe propriamente come stanno, ogni ingegno sottile?
L’ingegni sottili sono quelli che cognosceno le proprie dipinture e
disegnature, e non li grossi ingegni; e però si meravillierebbeno de
la sottilliezza dell’artificio. Morti lì; cioè quive in quella scolpitura,
i morti; parevano morti, e i vivi; cioè quelli che doveano mostrarsi
vivi, parean vivi; come doveano parere: tanto erano ben fatti. Non vidde mei; cioè mellio, di me; Dante, chi vidde il vero; cioè qualunqua vidde li fatti de le istorie e finzioni ditte di sopra, Quant’io calcai; cioè di tanto quanto io Dante calcai; cioè scalcai coi piedi,
quanto a la lettera; ma allegoricamente, quanto io Dante reputai
vile e da dispregiare: imperò che tutti sono stati atti superbi da
dispiacere a chi si pente de la superbia, e purgasene cola pena al
peccato conveniente, fin che chinato givi; cioè in fine a tanto ch’io
andai chinato colli occhi a lo spasso, per vedere le ditte figurazioni,
quanto a la lettera; ma quanto all’allegoria, in fin che la mente mia
stette involta in queste vili materie per lo peccato de la superbia,
considerando lo male che ne seguita. Et è da notare che l’autore
tacitamente commenda qui li poeti e li scrittori, che rappresentano
le cose passate sì propriamente, che paiano a chi le legge essere
presenti; et anco commenda la sottilliessa del suo ingegno che sì
propriamente le cose lette apprendea, come chi l’avea vedute. Seguita la secunda lezione del canto xii.
Or superbite. In questa secunda lezione del canto xii lo nostro
autore finge come pervenne a la scala, unde si montava al secondo
balso del purgatorio; e come si trovò purgato del peccato de la superbia. E dividesi questa lezione in 6 parti: imperò che prima pone
una invezione contra li superbi, e come Virgilio lo sollicita; ne la
secunda, come vidde l’angiulo che mostrava loro la sallita al secondo balso, quive: Io era ben ec.; ne la tersa finge ch’elli li menasse
a la scala unde si montava, quive: A questo annunzio ec.; ne la
quarta, come montonno su per la scala e quel che uditteno cantare,
quive: Noi volgemmo; ne la quinta dimanda Dante Virgilio, che è
la cagione, ch’elli si sente più leggieri che non era al primo balso,
quive: Et io: Maestro, ec.; ne la sesta finge che, udita la cagione da
Virgilio, elli se ne volse certificare, e come la trovò vera, quive:
Allor fec’io ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo
co la esponizione litterale et allegorica.
C. XII — v. 70-84. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come elli, veduto tanti mali seguitati dal peccato de la superbia, e sì gravi punizioni seguitatene come dimostrano breve 24 le storie ditte dinanti, proruppe in una esclamazione breve contra l’umana specie, riprendendola del peccato de la superbia; e poi dimostra come Virgilio lo sollicita del montare, dicendo: Or superbite. Che cosa sia superbire lo dimostra lo vocabulo: superbire è sopra li altri andare; superbire, super alios ire; e però indignative parla l’autore, dicendo: Or superbite; voi omini: con ciò sia cosa che veggiate Troia disfatta per la superbia, e li altri mali che ditti sono di sopra 25; e questa dizione Or, alcuna volta significa tempo; cioè ora che significa a vale; alcuna volta significa confortazione come qui che parla l’autore per contrario, che si dè intendere non superbite: lo parlare con indignazione si fa affirmativo, et intendesi negativo; e così alcuna volta si fa negativo et intendesi affirmative. e via col viso altero; cioè alto: imperò che li vizi de l’animo si dimostrano co li atti del corpo, però parla cusì l’autore: imperò che comunemente chi è superbo va col petto teso e col capo alto, Filliuoli d’Eva; cioè voi omini, che siete filliuoli d’Eva e d’Adam; e per questo ditto dimostra che non si dè superbire: con ciò sia cosa che tutti siamo pari, secondo lo nascimento: imperò che tutti siamo d’una massa discesa 26 da’ primi parenti Adam et Eva: dunqua non c’è cagione, che l’uno omo debbia volere sopra stare a l’altro, e non chinate il volto; quanto a la lettera, sicchè veggiate a che periculi vi mena lo peccato de la superbia per li esempli delli altri superbi che sono mal capitati; et allegoricamente, e non chinate la vostra volontà ad umiliarvi, che lo dovreste fare ricognoscendo per li esempli delli altri lo vostro errore: quando l’omo inchina la volontà sua ad umilità, ripensando li mali seguitati de la superbia, pilliane dispiacere e volgesi in contraria parte a la virtù de la umilità, sicchè per questo dà ad intendere: Et umiliatevi voi omini, Sì che veggiate il vostro mal sentero; cioè a ciò che veggiate quanto è ria la via de la superbia che avete presa: non si cognosce quanto sia ria la superbia, se non quando si considerano li mali che sono seguitati e che ne seguitano. Più era già; ecco che fatta la sua invettiva contro li superbi, ritorna al processo del cammino, dicendo: Più era già per noi; cioè per Virgilio e me Dante, del monte; cioè andando su per la prima cornice, più n’avevamo girato del monte ch’io non pensava; e però dice volto; cioè girato, E del cammin del Sole; cioè del giorno: quando lo Sole cammina per l’emisperio nel quale elli è, quindi fa giorno; sì che l’autore dà ad intendere che era passato più del di' che non pensava, e però dice: assai più speso; cioè assai più logorato per noi, Che non stimava l’animo; cioè a me Dante, non sciolto; cioè non libero dai pensieri forti, ch’io avea avuto sopra li casi de la superbia. Quando colui; cioè Virgilio, che inanzi; cioè a me Dante: imperò che la guida dè andare innanti al guidato, sempre atteso; cioè sollicito, Andava: la ragione di Dante guidava DanteFonte/commento: Pagina:Commedia - Purgatorio (Buti).djvu/835, e sollicita era che non si perdesse tempo, e che non si stesse ne la materia più che si convenisse a la poesi, cominciò: Drizza la testa; cioè leva su lo capo, non andare più chinato a vedere le scolpiture dei superbi; cioè leva lo pensieri da questa materia, de la quale è stato detto assai. Non è più tempo di gir sì sospeso; cioè sollicito sopra lo peccato de la superbia, come se’ ito infine a qui. Vedi colà; ecco che Virgilio dimostra a Dante l’angelo, dicendo: un Angel; questo angiulo significa la grazia di Dio che venia a dare la remissione del peccato de la superbia, la quale procede de la grazia di Dio, che s’appresta; cioè che s’apparecchia sollicito, Per venir verso noi; cioè a me et a te Dante, vedi, che torna Dal servigio del di’ l’ancilla sesta; cioè l’ora sesta. Finge Ovidio, Metamorfosi nel ii.° libro, che l’ore siano governatrici dei cavalli del carro del Sole, e l’autore nostro finge che siano guidatrici, sicchè ciascuna ora guidi lo carro del Sole lo suo spazio, e poi l’accomandi 27 all’altra, e l’altra a l’altra successivamente, come li ragassi guidano li carri de’ signori; e per questo intende la successione del tempo, significando che l’una ora succede all’altra, e però dice l’ancilla; perchè Ovidio dice nel preditto luogo: Iungere equos Titan velocibus imperat Horis; e quanto a la lettera dice che l’ancilla sesta; cioè l’ora sesta torna Dal servigio del di’; cioè che àe guidato lo carro del Sole lo suo spazio, torna a riposarsi che àe lassato lo servigio a la settima; e per questo dà ad intendere ch’è passata la sesta ora, e sono ne la settima. Di riverenzia il viso e li atti adorna; ecco che Virgilio ammonisce Dante che s’apparecchi a fare riverenzia a l’angiulo, che viene per darli remissione e conducerlo a la montata del secondo balso del purgatorio. Et è da notare che si dè riverire l angiulo, che è messo di Dio, da l’omo al quale Iddio lo manda; et allegoricamente, ancora la grazia di Dio, remittente si dè riverire; et è reverenzia onore, lo quale si rende con paura di dispiacere a chi si rende, e di perdere la sua grazia: adornare lo volto di riverenzia è fare lo volto riverente, lo quale si fa abbassando giù li occhi, la fronte e ’l capo; e li atti adornare 28, fare li atti reverenti, li quali si fanno adiungendosi le mani in croce al petto, et inginocchiandosi. E ben dice adorna: imperò che riverenzia e virtù compresa 29 sotto l’umilità, e le virtù adornano lo virtuoso. Si ch’el diletti lo menarci in suso; cioè sicché l’angiulo volontieri ci 30 meni suso all’altro balso: per la riverenzia l’omo viene ne la grazia del riverito et inchinasi a farli bene; e così co la virtù dell’umilità, sotto la quale è la virtù de la riverenzia, Dante ammonito da la ragione si rendeva degno de la grazia de la remissione del peccato de la superbia, et inchinava Iddio a farli grazia di mostrarli la via d’andare a purgarsi del peccato de la invidia; e questo significa l’autore ne le parole preditte. Pensa che questo di’ mai non raggiorna; ecco che Virgilio fa sollicito Dante, rammentandoli che ’l tempo passato mai non ritorna: lo di’ passato non ritorna mai a passare un’altra volta, e però l’omo del tempo dovrebbe essere più sollicito dispensatore che non è, pensando che mai non ritorna.
C. XII — v. 85-93. In questi tre ternari lo nostro autore finge come elli intese l’ammonimento di Virgilio; e come l’angiulo venne in verso loro, e descrivelo come era fatto, dicendo: Io; cioè Dante, era ben del suo ammonir; cioè di Virgilio, uso; cioè Pur di non perder tempo: imperò che molte volte Virgilio l’avea ammonito d’aver cura che ’l tempo non si perda, sì che in quella Matera 31; cioè di non perder tempo, non parea parlarmi chiuso; cioè oscuro, sì ch’io nollo intendesse. A noi; cioè a Virgilio et a me Dante, venia la creatura bella; cioè l’angiulo che figurava la grazia remittente di Dio, Bianco vestita: ben si conviene tal veste a sì fatto angiulo: la bianchezza significa purità, e ne la faccia quale; cioè come fatta, Par tremulando; cioè vibrando 32 li suoi raggi, mattutina stella; cioè la stella Diana. Ben si convenia sì fatta figura a sì fatto angiulo, che significava la misericordia di Dio perdonante, e la grazia illuminante; le quali cose sono bisogno 33 a chi è purgato del peccato de la superbia, et aspetta di purgarsi appresso delli altri; prima li è mistieri la grazia perdonante che, come ella è bianca, faccia lui bianco; appresso, la illuminante che illumini lo peccatore; e però finge l’angiulo rilucente come stella. Le braccia aperse; cioè lo ditto angiulo; c questo significa la misericordia di Dio: imperò che Iddio sempre sta co le braccia aperte a ricevere li peccatori, et inde; cioè di poi, aperse l’ale; volando in verso lo luogo, unde si dè montare; e questo significa la grazia preveniente et illuminante di Dio. Disse: Venite; a noi cioè a Virgilio et a me Dante; cioè a la ragione et a la sensualità. Ecco che pone come la grazia illuminante invita lo peccatore a purgarsi dei suoi peccati: qui son presso i gradi; ecco che dimostra che presso era la scala da montare al secondo balso: di grado in grado conviene l’omo sallire a la purgazione dei peccati purgandosi prima dell’uno e poi dell’altro, e con ordine conviensi ad essa montare. Et agevolmente omai si sale; cioè, poi che l’omo è sgravato del peccato de la superbia, leggieri è a disgravarsi e purgarsi delli altri: imperò ch’ella è madre di tutti li vizi e peccati et infine a tanto che l’omo non si purga di quella, non si può purgare delli altri. Anco è grande periculo a chi non se ne sa guardare che non monti in superbia, eziandio ne le buone operazioni, secondo la sentenzia di santo Agostino: Omnia vitia in malefactis tantummodo valent; sola autem superbia etiam in rectefactis cavenda est; e però purgato l’omo da quella, agevilmente si purga delli altri; e questo purgare è sallire.
C. XII — v. 94-108. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, di po’ le parole dette dall’angelo, elli fece una esclamazione a li uomini; e come 34 li menò a la talliata del monte, unde si montava, descrivendo quella sallita, dicendo così: A questo annunzio; questo si può intendere che fusse parlare dell’angiulo, continuando questo col ditto di sopra; et anco si può intendere che fusse dell’autore, dicendo: L’angiulo ci menò a la sallita 35, era molto agevile; unde avale, dolendosene de la pigressa delli omini a far lo bene, e la prestessa a far lo male dice: A questo annunzio; cioè che fu fatto dall’angiulo, di sopra, vegnon molto radi; cioè li omini, dice l’angiulo, o volliamo intendere che dica l’autore. O gente umana; cioè o generazione umana, per volar su nata; cioè fatta a questo fine da Dio; cioè perchè avesse beatitudine, et andassi suso in Cielo, Perchè a poco vento così cadi; cioè perchè ti lassi cadere de la virtù dell’umilità al vizio de la superbia a così poco vento, come sono li onori mondani che sono come vento che soffia e vassi via? Questi venti delli onori e de li stati e delle ricchesse e dei beni mondani sono quelli che ci gonfiano e fannoci cadere, come mostrato è di sopra in tanti esempli. Menocci; dice l’autore: Lo ditto angiulo menò me Dante e Virgilio, ove la roccia; cioè la parete del monte, era talliata; perchè v’era la scala da montare all’altro balso. Quivi; cioè in quello luogo, mi batteo; cioè a me Dante, che aspettava remissione del peccato de la superbia, della quale era purgato. l’ali per la fronte; cioè l’ali suoe, che significano la grazia di Dio preveniente et illuminante l’una e l’altra, la cooperante e consumante; le quali grazie battute per la fronte di Dante dove erano scritti 7 P; cioè 7 peccati mortali li quali sono palesi a Dio, e denno essere al prete ch’assolve lo peccatore come quello che si porla in fronte; n’è cancellato uno, cioè quello de la superbia, del quale era purgalo. Poi mi permisse 36 sigura l’andata; cioè, poi che ebbe spento lo peccato de la superbia in me Dante, mi lassò andare siguramente a la purgazione delli altri. Non va mai lo peccatore siguramente ai gradi de la penitenzia, se prima in lui non è spento lo peccato de la superbia, ch’ella si meschia anco ne le buone opere, come dice santo Agostino. Come; ecco che dimostra come era fatta quella scala, faciendo 37 una similitudine di quella montata a quella che è in Fiorensa sopra ’l ponte Rubaconte, per montare a la chiesa di Santo Miniato che è in sul monte; e però dice: Come a man destra; cioè intrando ne la città et andando in verso ’l ponte, lo ponte viene da mano sinistra e la montata da mano destra, per sallire al monte Dove; cioè nel quale monte, siede la chiesa; che si chiama San Miniato in monte, che soggioga; cioè soprasta, perchè posta in alto, La ben guidata; cioè Fiorensa; e parla ironice, cioè per lo contrario; cioè quella città ch’è mal guidata e governata per li suoi rettori che non la reggiono con iustizia, come arebbe volsuto l’autore, sovra Rubaconte; cioè sopra l’ponte, che si chiama ’l ponte Rubaconte, Si rompe del montar; suso al monte, l’ardita foga; cioè l’altessa ritta che farebbe descendere in foga, sensa potersi ritenere: foga è andamento sensa rattenersi, et operamento sensa tramezzare riposo, Per le scalee; cioè per li scaloni, che si fero ad etade; cioè a tempo, Ch’era siguro il quaderno e la doga; cioè a tempo che li cittadini di Fiorensa erano più virtuosi che al tempo dell’autore, nel quale occorse, secondo che abbo sentito dire, che fu commesso falsità in du’ cose; cioè in uno libro o di mercanzia, o di notaria, tramutato e cambiato carte del quaderno; et a lo staio, o vero quarta, fu cavata, o vero sciemata 37 la doga del legname, perchè tenesse meno; le quali falsitadi non si commetteano al tempo che funno fatti li detti scaloni; e dice che Così s’allenta; cioè per li scaloni; ecco che adatta la similitudine, la ripa, che cade; cioè discende, Quivi; cioè in purgatorio, ben ratta; cioè ritta, et in foga, dall’alto girone; cioè dal girone secondo: potrebbe dire lo testo altro, et alto; l’una sentenzia e l’altra è vera: imperò che è altro dal primo, e più alto 38 che ’l primo. Ma quinci e quindi; cioè dall’uno lato e dall’altro, l’alta pietra; cioè le pareti alte che erano di pietra, rade; cioè radono e strefiavano 39; e per questo vuole denotare la strettessa de la via, siccome àe mostrato l’altessa: imperò che dice santo Agostino: Angusta via est, quas ducit ad vitam; e santo Prospero, sponendo dice: Arduus atque arctus fert ad cœlestia callis, Devexa ad mortem ducit et ampla via: la via de la penitenzia è alta e stretta.
C. XII— v. 109-117. In questi tre ternari lo nostro autore finge come si volseno a montare su per la scala al secondo balso dicendo così: Noi; cioè Virgilio et io Dante, volgemmo ivi; cioè a la scala che ci à mostrato l’angiulo, le nostre persone; cioè per montar su, Beati pauperes spiritu; questa è parola dell’Evangelio che è a dire che beati sono coloro che sono poveri per volontà: imperò che tali poveri non sono superbi; ma sono umilissimi, sì come fu san Francesco, voci; cioè di quelle anime che si purgavano del peccato de la superbia in sul primo balso, Cantaron sì; cioè per sì fatto modo, che nol diria sermone; cioè che non si potrebbe esprimere con parole, come era fatto quel canto. Mostra qui l’autore che l’anime, che si purgano de la superbia, faceano festa del montamento di Dante: imperò che in loro è carità. Ahi; questa è una interiezione che significa ammirazione, quanto son diverse quelle foci; cioè del purgatorio, Dalle infernali; cioè da quelle dell’inferno! chè quivi; cioè nel purgatorio, per canti S’entra; dell’anime che montano, e laggiù; cioè nei cerchi de lo inferno, per lamenti feroci: però che non si sente quive, se non lamenti e biasteme, perchè v’è odio 40 e mala volontà; et in purgatorio canti e lode di Dio: imperò che quive è carità et amore; e così nel mondo tra li omini viziosi e peccatori si biastema e parlasi sempre male, e tra’ buoni et omini di penitenzia si parla sempre bene. Già montavam; cioè Virgilio et io Dante, su per li scalon santi; de la seconda scala che monta al secondo balso, Et esser mi parea; cioè a me Dante, troppo più lieve, Che per lo pian non mi parea davanti; e di questo era cagione, perchè era alleggerito da uno gravissimo peccato; cioè de la superbia, da la quale purgato era al modo che si purgano quelli che sono nel mondo, che si purgano da la colpa per confessione, contrizione, e satisfazione; ma non da la totale pena, che tutta la nostra vita non vasterebbe, se tutta stesse in pena, ai peccati che si commetteno; e la pena non aggrava l’anima, ma tormentala: la colpa è quella che aggrava. Ben potrebbe Iddio per grazia concedere al peccatore tanto dolore in questa vita del suo peccato, ch’elli serebbe libero da la colpa e da la pena, come colui ch’è assoluto dal papa da la pena e da la colpa; ma l’autore parla secondo lo comune modo del vivere delli omini mondani, che peccano e fannone penitenzia, e poi vivendo anco peccano e tornano a la penitenzia, e così infine a l’ultimo fine. E qui si può muovere uno dubbio; come dice Dante che era purgato dal peccato de la superbia, che di sopra àe ditto che coloro che si purgano 41 da quel peccato, portavano questa pena; che andavano con gravi pesi addosso chinati più e meno, secondo la gravità del peccato; e questa pena non è stata portata per lui, come dunque purgato è? A questo si può rispondere ch’elli àe portato la pena, che li altri che sono nel mondo portano, quel poco di tempo che stette in considerazione del detto peccato che fu sufficiente a purgarlo de la colpa, e forsi d’alcuna parte de la pena in quanto è ito chinato con loro, guardando le storie e le finzioni de’ poeti ditte di sopra le quali inchinavano, la testa sua; cioè la sua altezza ad umilità considerando lo male che seguita da la superbia; et a questo lo indusse l’altessa delle umilità veduta ne le prime istorie. E benchè non dica che portasse carico, pur dice ch’andò chinato per vedere le diverse figure, che rappresentavano la pena temporale e mondana consecuta 42 per lo peccato de la superbia; e dèsi intendere che lo carico del suo peccato era quello che lo facea andare chinato.
C. XII — v. 118-126. In questi tre ternari lo nostro autore finge come elli muove uno dubbio a Virgilio, e Virgilio lo dichiara. Dice così: Et io; cioè Dante dissi, s’intende: Maestro; cioè Virgilio, dì; cioè dichiarami, qual cosa grieve Levata s’è da me; Dante ora, che nulla quasi Per me fatica andando si riceve? Meravilliasi Dante che non sente fatica ne l’andare, come sentia prima; a che Virgilio, Rispuose; questo che seguita: Quando i P; cioè li peccati sei mortali, che son rimasi Ancor nel volto tuo; cioè di te Dante, presso che stinti: cioè quasi che cancellati; ma pur non sono cancellati al tutto, Saranno, come l’un; cioè lo peccato de la superbia, che è spento in tutto, nel tutto rasi; cioè al tutto cancellati, Fien li tuoi piè; cioè le tuoe affezioni, dal buon voler sì vinti; cioè da la buona volontà, Ched 43 ei non pur fatica non sentranno: alcuna volta non è fatica a l’omo a vincere li appetiti carnali e li affetti disonesti; ma non sente l’omo diletto di levarli 44 suso a le virtù. E questo è quando v’è alcuna gravità di peccato; ma quando non n’è gravessa nulla di peccato, diletto è a montare perii gradi de le virtù; e però dice: Ma fi’ diletto loro esser su pinti; cioè da la grazia cooperante e consumante di Dio; e questo è quando s’accendono li fervori de la carità nell’anima. Ma potrebbesi dubitare che vuole dire l’autore che i sei P sono presso che spenti, e lo settimo è cancellato al tutto? Per questo dà ad intendere l’autore quello che si dice ne la Santa Scrittura; che la superbia è radice di tutti li peccati, et incitatrice di tutti li peccati; e però, stante la superbia nell’anima, èvi lo incitamento di tutti peccati; e, rimossa quella, è rimosso lo fomento di tutti li peccati. E perchè l’autore era purgato e libero del peccato de la superbia al tutto, però erano li altri peccati presso che spenti: imperò che non v’è più lo incitamento: quando l’omo, ch’è in stato di penitenzia, àe vinto la superbia et è venuto ad umilità, agevilmente vince tutti li altri peccati.
C. XII— v. 127-136. In questi tre ternari lo nostro autore fine che, mosso per lo dir di Virgilio, non credendosi avere li P designati ne la fronte ditti di sopra, si certificò cercando co la mano ch’ 45 era vero quello che Virgilio dicea, dicendo così: Allor; cioè allora, fec’io cioè io Dante, come color che vanno Con cosa in capo non da lor saputa; ecco che induce la similitudine, che alcuna volta l’omo porta una penna o altra cosa in capo, per la quale li astanti rideno o dicono qualche parola per la quale elli si mette la mano in capo e cerca tastando, e trova quello perchè altri si movea che prima non vedea, Se non che i cenni altrui; cioè fatti da altrui, sospicar fanno; cioè colui che l’àe in capo. Perchè; cioè per la qual cosa, la mano; del ditto omo, ad accertar; cioè a certificarsi, s’aiuta, E cerca e trova; cioè la mano, e quell’officio adempie; cioè la mano che cerca, Che non si può fornir per la veduta; cioè per la vista: imperò che l’occhio non si può alsare a vedere in capo. E co le dita de la destra scempie; cioè e co le dita de la mano ritta, semplice 46 sensa altro aiuto, Trovai pur sei; io Dante ne la mia fronte, de le letter, che incise; cioè dei P che funno sette ne trovò pur sei, che uno n’era al tutto spento, Quel de le chiave; cioè l’angiulo che finse di sopra, che tenesse le chiave del purgatorio, a me; cioè a me Dante, sovra le tempie; cioè ne la fronte che è più alta che le tempie. Qui moverebbe alcuno dubbio, dicendo: Pare che l’autore contradica a quello che disse di sopra: imperò che di sopra disse sette P ne la fronte mi scrisse col punton de la spada, dove mostrò che di ciò s’accorgesse, e qui pare che non s’accorgesse di quello. A che si dè rispondere che l’autore dice che non s’accorgesse dei P che li funno scritti ne la fronte; ma non s’accorgea che l’uno fusse al tutto raso, e li altri presso che spenti; e questo può vedere chi considera ben lo testo, quando dice: Trovai pur sei de le letter, che incise ec. Et è qui da notare ch’elli finge non accorgersi de la cagione de la sua leggeressa, se non che Virgilio nel fa accorto, per mostrare che la sensualità non sa quando è sodisfatto al peccato co la penitenzia, se non che la ragione sopra ciò iudica. A che guardando; cioè ch’io mi cercai la fronte co le dita, il mio Duca sorrise; Virgilio; cioè la ragione fece beffe de la sensualità, che non apprende se non cose particulari e presenti, e non apprende le passate e future, come fa la ragione; e non discorre per le singularitadi a l’università, come discorre la ragione. Seguita lo canto xiii.
Note
- ↑ 1,0 1,1 1,2 1,3 C. M. lo spazio
- ↑ C. M. idii e comincia quine
- ↑ C. M. dalla materia
- ↑ C. M. a modo di iudici
- ↑ C. M. dispiacere per dare ad intendere
- ↑ Trovòsi: si trovò, non raddoppiata la particella pronominale, come oggi si costuma. Vedi - Domandolo pag, 259 di questo medesimo Tomo. E.
- ↑ Faitelo; fatelo, dove l’i è intramesso come in Europia, lieve, voito ec. E.
- ↑ C. M. tenuta iddia.
- ↑ C. M. gocciule
- ↑ C. M. superbo si gittò in su la propria spada et uccisesi. Ritornato lo populo
- ↑ C. M. cioè tua, Quivi;
- ↑ C. M. come uccidesti te
- ↑ C. M. in quella parte
- ↑ S’andò appiccare. È da osservare codesta vaga maniera di adoperare talora l’infinito senza veruna particella dopo i verbi di moto; maniera che i padri nostri ereditarono da’ Greci. E.
- ↑ C. M. cioè te
- ↑ C. M. l’uccise. Questa finzione, o istoria
- ↑ C. M. accampatosi, perchè non polea scorrere per la Scizia, per li luoghi
- ↑ Agguaito; agguato, originato da gaitare; excubias facere, e codesto da due voci arabiche, delle quali una risponde all’articolo al ed altra a gâtha; entrò e si nascose. Ne’ Gradi di s. Geronimo è adoperato il verbo guaitare. E.
- ↑ 19,0 19,1 C. M. cc mila
- ↑ Forse a’ tempi del nostro Commentatore l’abbreviatore di Pompeo Trogo ritenevasi Lucio Floro, anzi che Giustino. E.
- ↑ 21,0 21,1 Dimandòla; dimandolla; talliòli; talliolli. V. pag. 259. T. ii. E.
- ↑ Diacere; giacere, mutato il g in d come in giaccio, giacinto. E.
- ↑ C. M. non ogni dipintore e disignatore; ma lo fino disignatore:
- ↑ Breve. Notisi questa vaga ellissi di breve; cioè in modo breve. E.
- ↑ C. M. di sopra. E via col viso
- ↑ C. M. discesa e distesa dai primi
- ↑ Accomandare: consegnare, raccomandare, come sovente si trova nei Classici. Ciampolo Ugurgeri, En. lib. vii, disse « accomandollo (Ipolito) alla ninfa Egeria ». E.
- ↑ C. M. adornare di riverenzia è fare
- ↑ C. M. compressa sotto
- ↑ C. M. l’angelo ci meni volentieri
- ↑ Matera, fognato l’i, come più indietro al v. 72 sentero. E.
- ↑ C. M. cioè umbrando li suoi raggi
- ↑ C. M. di bisogno
- ↑ C. M. come l’angelo li menò
- ↑ C. M. a la salita, et annunsiòci che la salita era
- ↑ C. M. mi promisse
- ↑ 37,0 37,1 Faciendo, Scemata. In queste, come in altre voci, è frammesso l’i per liscezza di lingua. E.
- ↑ C. M. et alto è più che
- ↑ C. M. strefinano
- ↑ C. M. e mali volenti
- ↑ C. M. purgavano
- ↑ Consecuta; conseguita, dal latino consecutus. E.
- ↑ Ched; che. La consonante d è una di quelle lettere che possono chiamarsi diaframmatiche, perchè trammesse impediscono che il suono della vocale in fine venga raccolto dalla seguente a presso. E.
- ↑ C. M. di levarsi
- ↑ C. M. se era
- ↑ C. M. della mano semplice senza