Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XI

Purgatorio
Canto undicesimo

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Purgatorio - Canto X Purgatorio - Canto XII
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C A N T O     XI.

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1O Padre nostro, che ne’ Cieli stai,
     Non circoscritto; ma per più amore,
     Che ai primi effetti di lassù tu ài,
4Laudato sia il tuo nome e ’l tuo valore
     Da ogni creatura, com’ è degno
     Di render grazie al tuo alto vapore.
7Vegna ver noi la pace del tuo regno:
     Chè noi ad essa non potem da noi,
     S’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
10Come del suo voler li Angeli tuoi
     Fan sacrifìcio a te cantando Osanna,
     E così faccian li omini dei suoi.1
13Dà oggi a noi la quotidiana manna,2
     Senza la qual per questo aspro diserto
     A rieto va chi di più gir s’affanna.3
16E come noi lo mal ch’ avem sofferto
     Perdoniamo a ciascun, e tu perdona
     Benigno, e non guardar lo nostro merto.
19Nostra virtù, che di legger s’ addona,4
     Non sprimentar coll’antiquo avversaro;5
     Ma libera da lui, che sì la sprona.

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22Quest’ ultima preghiera, Signor caro,
     Già non si fa per noi, che non bisogna;
     Ma per color che dietro a noi restaro.
25Così a sè et a noi buona ramogna
     Quelle ombre orando, andavan sotto ’l pondo
     Simile a quel che talvolta si sogna,
28Disparmente angosciate tutte a tondo,
     E lasse su per la prima cornice,
     Purgando la caligine del mondo.
31Se di là sempre ben per noi si dice,
     Di quel che dir e far per noi si puote6
     Da quei, ch’ ànno al voler buona radice,
34Ben si dè lor aiutar levar le nuote,7
     Che portar quinci, sì che mondi e levi
     Possano uscir delle stellate ruote.
37Doh se giustizia o pietà vi disgrevi8
     Tosto, sì che possiate muover l’ala,
     Che secondo ’l disio vostro vi levi,
40Mostrate da qual mano in ver la scala
     Si va più corto; e se ci à più d’un varco,9
     Quel ne insegnate che men erto cala:
43Chè questi che vien meco, per lo incarco
     De la carne d’Adamo ond’ ei si veste,
     A montar su contra sua vollia è parco.
46Le lor parole, che rendero a queste
     Che ditto avea colui che io seguiva,
     Non fur da cui venisser manifeste;
49Ma ditto fu: A man destra per la riva
     Con noi venite, e troverete il passo
     Possibile a sallir persona viva.

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52E s’ io non fussi impedito dal sasso,
     Che la cervice mia superba doma,
     Unde portar conviemmi il viso basso,
55Cotesti, ch’ ancor vive e non si noma,
     Guardere’ io, per veder s’io il cognosco,
     E per farlo pietoso a questa soma.
58Io fui Latino, e nato d’un gran Tosco:10
     Guillielmo Aldobrandesco fu mio padre:11
     Non so se 'l nome suo giammai fu vosco.
61L’antiquo sangue e l’opere leggiadre
     De’ mie’ maggior mi fer sì arrogante,
     Che non pensando a la comune madre,12
64Ogni uno ebbi in dispetto tanto avante,13
     Ch' io ne mori’, e i miei Senesi il sanno,14
     E sallo in Campagnatico ogni fante.
67Io son Omberto; e non pur a me danno
     Superbia fe, ma tutti miei consorti
     À ella tratti seco nel malanno.
70E qui convien ch’ io questo peso porti
     Per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
     Poi ch’ io nol fei tra’ vivi, qui tra’ morti.
73Ascoltando io chinai in giù la faccia;
     Et un di lor (non questi che parlava)
     Si torse sotto ’l peso che lo impaccia:
76E viddemi e cognovemi, e chiamava,
     Tenendo li occhi con fatica fisi
     A me, che tutto chin con lui andava.

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79O, dissi lui, or non se’ tu Odorisi,15
     L’onor d’Agobbio, e l’onor di quell’arte
     Che alluminar è chiamata in Parisi?1617
82Frate, diss’ ello, più riden le carte,
     Che pennelleggia Franco bolognese;18
     L’onor tuttor è suo, e mio in parte.
85Ben non serei io stato sì cortese,
     Mentre ch’ io vissi, per lo gran disio
     Dell’ eccellenzia ove mio cuor intese.19
88Di tal superbia qui si paga il fio;
     Et ancor non serei qui, se non fosse,
     Che, potendo peccar, mi volsi a Dio.
91O vanagloria de l’ umane posse,
     Com poco verde in su la cima dura,20
     Se non è giunta da l’ etati grosse!
94Credette Cimabue ne la pittura21
     Tener lo campo; et or à Giotto il grido,
     Sì che la fama di colui oscura.22
97Così à tolto l’ uno all’ altro Guido
     La gloria de la lingua, e forsi è nato
     Chi l’ uno e l’ altro caccerà del nido.
100Non è ’l mondan romor altro che un fiato
     Di vento, ch’or vien quinci, et or vien quindi,
     E muta nome, perchè muta lato.
103Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
     Da te la carne, che se fussi morto
     Anzi che tu lassiassi il pappo e ’l dindi,

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106Pria che passin mille anni? che è più corto
     Spazio a l’ eterno, che un muover di cillia,
     Al cerchio che più tardo in cielo è torto.
109Colui, che del cammin sì pogo pillia
     Dinanzi a me, in Toscana sonò tutta,
     Et ora a pena in Siena sen pispillia,
112Onderà Sire, quando fu destrutta
     La rabbia fiorentina, che superba
     Fu a quel tempo, sì com’ ora è putta.23
115La vostra nominanza è color d’ erba,24
     Che viene e va, e quei la discolora,
     Per cui ella esce de la terra acerba.
118Et io a lui: Lo tuo ver dir m’ incora
     Buona umiltà, e gran tumor m’ appiani;
     Ma chi è quei di cui tu parlavi ora?
121Quelli è, rispose, Provenzal Selvani;25
     È qui: però che fu presuntuoso
     A recar Siena tutta in le sue mani.26
124Ito è così, e va senza riposo,
     Po’ che morì: cotal moneta rende
     A sodisfar chi è di là troppo oso.
127Et io: Se quello spirito che attende,
     Pria che si penta, l’orlo de la vita,27
     Qua giù dimora, e quassù non ascende,28
130Se buona orazion lui non aita,
     Prima che passi tempo quanto visse,
     Come fu la venuta a lui largita?
133Quando vivea più glorioso, disse,
     Liberamente nel campo di Siena,
     Ogni vergogna deposta, s’ affìsse:

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136E lì, per trar l’amico suo di pena,29
     Che sostenea ne la prigion di Carlo,
     Sè condusse a tremar per ogni vena.
139Più non dirò, e scuro so ch’io parlo;
     Ma poco tempo andrà, che i tuo’ vicini
     Faranno sì che tu potrai chiosarlo:
142Quest’opera li tolse quei confini.

  1. v. 12. C. A. Così facciano
  2. v. 13. C. M. C. A. cotidiana
  3. v. 15. C. M. chi più di gir... C. A. A retro va chi più di gir
  4. v. 19. C. A. leggier s’adona,
  5. v. 20. C. A. spermentar
  6. v. 32. C. A. Di quà che dire
  7. v. 34. C. A. loro alar lavar le
  8. v. 37. C. A. Deh se giustizia e pietà
  9. v. 41. C. A.e se c’è
  10. v. 58. Io fui Latino. Omberto degli Aldobrandeschi era nato in Toscana; ma salica era la sua casa e salico il diritto, con cui ella visse, quando fu condotta da Carlomagno in Italia. E.
  11. v. 59. C. A. Aldobrandeschi
  12. v. 63. C. A. guardando a
  13. v. 64. C. A. Ogni uom
  14. v. 65. C. A. , come i Senesi
  15. v. 79. C. M. C. A. Odorisi,
  16. v. 81. C. A. chiamata è in
  17. v. 81. Parisi. Con buona pace de’ pedanti l’ Allighieri non fu costretto dalla rima a questa ed altre terminazioni: perocché si à indifferentemente anche nella prosa Dionisi, Parisi, Tamisi e Dionigi, Parigi, Tamigi. E.
  18. v. 83. C. M. che privilegia
  19. v. 87. C. A. a che mio core
  20. v. 92. C. M. Ch’ un poco .... C. A. Con poco
  21. v. 94. C. A. pintura
  22. v. 94. C. A. è oscura.
  23. v. 114. C. M. C. A. com’è ora putta,
  24. v. 115. C. M. La nostra
  25. v. 121. C. M. Provenzan Silvani;
  26. v. 123. C. A. alle sue
  27. v. 128. C. A. all’orlo
  28. v. 129. C. A. Laggiù dimora,
  29. v. 136. C. A. Elli, per

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C O M M E N T O


O Padre nostro ec. Questo è lo canto xi, nel quale l’autore nostro ancora de li superbi tratta, come in quello di sopra; e dividesi principalmente in due parti: imperò che prima lo nostro autore finge come quelli, che si purgavano nel primo balso del peccato de la superbia, cantavano l’orazione che Cristo insegnò, quando fu nel mondo, ai suoi discepoli, dicendo: Cum oraveritis, sufficit dicere: Pater noster, qui es in Cœlis ec.; e come ne ricognove alcuno e parlò con lui; ne la seconda finge come cognoscesse alquanti che ebbeno superbia di loro artificio, quive: Ascoltando io chinai ec. La prima che serà la prima lezione, si divide in cinque parti: imperò che prima l’autore pone de verbo ad verbum in vulgare l’orazione del Pater nostro, che finge che coloro cantasseno che si purgavano nel primo balso de la superbia; ne la seconda pone l’autore alcuna dichiaragione fatta d’alcuna parte de la ditta orazione, e lo conforto de l’autore che per loro si preghi, quive: Quest’ultima ec.; ne la tersa finge come Virgilio dimanda de la montata a l’altro balso, quive: Doh sé giustizia ec.; ne la quarta finge come uno rispondesse, non cognosciuto chi elli fusse, quive: Le lor parole, ec.; ne la quinta finge come elli si manifesta, quive: Io fui Latino, ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co le suoe esponizione.

C. XI — v. 1-21. In questi sette ternari lo nostro autore pone tutta stesa l’orazione del Pater nostro, che finge che cantavano quelle anime che si purgavano del peccato de la superbia in su la prima cornice, dicendola in vulgare; et adiungendovi alcuna cosa di suo, a dichiaragione de le parole che vi sono, dicendo così: O Padre nostro; cioè Iddio, al quale si conviene questo nome; prima per la creazione: imperò che ogni cosa àe creato; e dice nostro, per [p. 250 modifica]comprendere tutti li omini e tutta la natura naturata: imperò elio Iddio è creatore di tutti li omini e tutte le cose create; secondo, cioè per la generazione: imperò ch’elli ci à rigenerato nel suo prezioso sangue, et in segno di ciò è lo battesimo; terzio, per cura: imperò ch’elli è colui che ci notrica; quarto, per età: imperò ch’elli è inanti a tutte le cose: con ciò sia cosa che sia senza principio ab eterno; quinto, per onore: imperò ch’elli è sommo bene, et al sommo bene si conviene somma reverenzia et onore, che ne’ Cicli stai: Iddio sta in Cielo, non come lo locato nel luogo; ma dicesi stare in Cielo per eccellenzia de la sua natura: imperò che come li Cieli sono sopra tutti li corpi per eccellenzia; così Iddio è ne li Cieli si come in cosa più eccellente. E benché Iddio sia in tutti i luoghi potenzialmente, è nei Cieli essenzialmente, e principalmente in quello di sopra; cioè ne lo empirio che contiene tutti li altri; e però dice l’autore: che ne’ Cieli stai, et adiunge da sè: Non circoscritto; cioè non contenuto da luogo: chè Iddio non può esser contenuto; ma elli contiene ogni cosa: lo luogo circunscrive lo locato: imperò che ciò che è dentro dai Cieli è circunscritto; cioè terminato da alcuna cosa che lo contiene da ogni sua parte, et inchiuso in essa, come l’omo è terminato da l’aire intorno dov’elli sta. E poi che Iddio sta nei Cieli non circunscritto, dichiara in che modo sintende che stia nei Cieli, quando dice: ma per più amore, Che ai primi effetti di lassù tu ài; questo si dè intendere, che Iddio stare si dice nei Cieli, perchè più amore àe ai Cieli, che a l’altre cose corporali create, perchè sono li primi effetti ch’elli, che è prima cagione, produsse; e però si dè intendere che Dio non sta circunscritto nei Cieli; ma per più amore, Che; cioè lo quale tu, Iddio, ài, ai primi effetti; cioè ai Cieli et a li angiuli, che sono li tuoi primi effetti che tu producessi, e questi cieli sono poi seconde cagioni, e li angiuli de li effetti inferiori: imperò che lo superiore è cagione del movimento del suo inferiore, di lassù; cioè che sono lassù nei Cieli; e questo àe posto per la prima parte, cioè Pater noster, qui es in Cœelis, che è la invocazione. E poi che àe posto la invocazione, pone la prima de le sette petizioni, che Cristo c’insegnò ne la orazione fare al Padre celeste, dicendo: Laudato sia il tuo nome; cioè la tua gloria, o vero lo tuo, sommo onore, e ’l tuo valore; cioè la tua potenzia, Da ogni creatura: le creature sono distinte in sei specie e differenzie: imperò che o sono creature che ànno solo l’essere come le pietre; o che ànno l’essere e ’l vegetare; cioè vivere, crescere e venire meno, come le piante e l’erbe; o che ànno l’essere, lo crescere e ’l sentire, come li calcinelli del mare; o che ànno l’essere, lo vivere, lo sentire, lo imaginare, come li animali bruti; o che ànno l’essere, lo vivere, lo sentire, lo imaginare o lo ragionare, come li omini: o che [p. 251 modifica]ànno l’essere, lo vivere, lo sentire, lo imaginare, lo ragionare e lo intendere, come li angiuli. Benché lo intendere sia anco nelli omini, più perfettamente è nelli angiuli che si chiamano intelligenzie; e tutte queste sono creature: imperò che ogni cosa creata è creatura, et ogni creatura loda lo suo creatore naturalmente quanto in sè è, rappresentando in sè la bontà di Dio. com’è degno Di render grazie al tuo alto 1 vapore: cioè al tuo alto amore e calore in tanto alto, che ad esso con pensieri non si può adiungere. Et in queste tre cose l’autore dà ad intendere la trinità perfetta di Dio: imperò che per lo nome intende la sapienzia del Filliuolo, per lo valore la potenzia del Padre, e per lo vapore la benivolenzia de lo Spirito Santo; e questo àe posto per la prima domanda; cioè sanctificetur nomen tuum; c questo è lo primo dimando che Cristo insegnò a fare i suoi Apostuli e discepoli: imperò che ogni persona perfetta in santità dè principalmente desiderare, a ciò che col desiderio perfetto incominci a meritare, che tutta la creatura ricognosca lo suo creatore. Adiunge l’autore lo suo 2 dimando, lo quale è necessario a coloro che sono nel mondo in stato di penitenzia; e però finge che quelli del purgatorio l’addimandino el primo altresì, per dare ad intendere che sono passati di questa vita co la volontà confermata in grazia, co la quale sono morti, sì che non possano volere se non bene e quel ch’era da volere, mentre che stetteno nel mondo, dicendo: Vegna ver noi; cioè creature ragionevili, la pace del tuo regno; cioè la pace di vita eterna, la quale incominciano a sentire li contemplamenli 3 in questa vita, poi che si sono spacciati di tutte le cure mondane sì, che pacificate sono tutte le loro passioni. Chè noi ad essa; cioè pace, non potem; cioè andare, da noi; cioè per nostra virtù e per nostra potenzia, S’ella non vien; cioè per sua speciale grazia, con tutto nostro ingegno; cioè umano non possiamo andare ad essa pace. E questo àe posto per lo secondo dimando; cioè adveniat regnum tuum; e questo è lo secondo dimando che seguita di po ’l primo: imperò che volendo perfettamente vivere, si dè 4 desideri di pacificare tutte le passioni che ci possano turbare: imperò che, cessato lo impaccio, si può andare salliendo di virtù in virtù infine a Dio. Seguita lo terso dimando di po’ lo secondo: imperò che non si può fare debito sacrificio a Dio, se no co la mente pacifica e riposata, dicendo: Come del suo voler; cioè come del suo libero arbitrio, li Angeli tuoi; dice a differenzia dei dimoni, che non sono più angeli [p. 252 modifica]di Dio, Fan sacrificio a te; cioè a te Iddio col suo libero arbitrio confermato ora in grazia, disponendolo e tenendolo sempre apparecchiato a la tua obbedienzia: imperò che, poi che i dimoni caddeno li angiuli che stetteno, funno confìrmati in grazia: fare sacrificio a Dio, pilliando largo modo, è fare cosa sacra; e fare sacrificio de la volontà è orare con buono volere e lodare Iddio; e però adiunnge cantando Osanna; questo vocabulo Osanna è vocabulo ebreo, et 5 interpretato; Fa salvi: quando l’omo e li angiuli fanno sacrificio a Dio cantano Osanna; cioè Fa salvi. E ben che questo non sia necessario a li angiuli: imperò che sono salvi; niente di meno cantano questo a loda, dimostrando ch’elli è quello che li à salvati e solo elli può salvare, e però canta la Chiesa: Et ideo cum Angelis et Archangelis, cum Thronis et Dominationibus, cumque omnia militia cœlestis exercitus hymnum gloriœ tuœ eanimus 6 sine fine dicentes: Sanctus, Sanctus, Sanctus, Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt cœli et terra gloria tua. Ifosanna in excelsis. Benedictus, qui venit in nomine Domini Hosanna in excelsis — . Osanna è vocabulo composto ab osi che è interpretato Salvifica, et anna quœ est interiectio deprecantis, che tanto viene a dire quanto doh, quasi dica: Doh fa salvi; e però si dè intendere che preghino non per sè che non ànno bisogno; ma per li omini del mondo. E così faccian; cioè sacrificio a te, li omini dei suoi; cioè voleri; cioè dei loro liberi arbìtri facciano sacrificio a te Iddio, orando e lodando te; o volliamo intendere disponendoli et apparecchiandoli a la volontà tua: imperò che maggiore sacrificio non può fare l’omo a Dio, che offerirli la sua volontà; unde dice santo Prospero: Quid voveat Domino, quisquis bene corde volutat, Ipsum se totum prœparet et voveat: Maior enim 0fferri nequit hostia mentis in ara. Nec Christi ex templo suavior exit odor, Quam cum homo castorum profert libamina morum, Et de virtutum munere sacra litat etc.; e questo 7 è lo terso dimando che si fa a Dio, lo quale è restrittivo del primo: imperò che il primo dice che tutte le creature generalmente nell’esser loro lodino Iddio; qui specialmente dimanda de li omini, perchè eccedeno l’altre creature inferiori e sono avansati da li angiuli, che in quello ch’elli avansano l’altre creature; cioè ne la libertà de l’albitrio 8, facciano sacrificio a Dio come fanno li angiuli, che eccedeno li omini e l’altre creature. Adiunge poi lo quarto dimando, dicendo: Dà oggi a noi; cioè peccatori che siamo nel purgatorio; et a noi omini che siamo nel mondo, intendendo quando si dice di quelli del [p. 253 modifica]mondo, tu padre nostro Iddio, la quotidiana manna; per questo intende la grazia di Dio, la quale è cibo spirituale dell’anima la quale sustenta la vita spirituale dell’anima, come sustentava la manna la vita corporale del populo israelico nel diserto. Senza la qual; cioè manna e grazia, per questo aspro diserto; cioè del purgatorio intendendo di quelli; et intendendo dei mondani s’intende del mondo: diserto si può chiamare laddove non è la visione beatificata di Dio, A rieto va chi di più gir s’affanna: sensa la grazia di Dio va l’omo a rieto nei vizi, sforzandosi d’andare inansi ne le virtù; e questo àe posto per quarto dimando, cioè panem nostrum quotidianum da nobis hodie. Questo quarto dimando è necessario, in fine a tanto che l’omo non è in paradiso; e però finge l’autore che ancora si faccia da quelli del purgatorio: imperò che la manna litteralmente significa lo cibo corporale, e così lo pane; ma allegoricamente significa lo cibo spirituale lo quale è la grazia di Dio, la quale per altro fine si dè dimandare dai mondani, e per altro da quelli del purgatorio; da’ mondani, acciò ch’ella li preservi dal male et aiutili nel bene; e da quelli del purgatorio, acciò ch’ella l’aiuti a purgare tosto li loro peccati. Adiunge poscia il quinto dimando, dicendo: E come noi; cioè peccatori, lo mal ch’avem sofferto; cioè da altrui, Perdoniamo a ciascun; cioè che ce l’à fatto, e tu; cioè Iddio, perdona Benigno; in verso l’umana specie, e non guardar lo nostro merto; lo quale è niente a rispetto de la tua grande misericordia: imperò che sensa comparazione Iddio più perdona a noi che non meritiamo; e questo àe posto per lo quinto dimando; cioè dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris; e questo quinto dimando ci obbliga a perdonare a chi ci offende, altramente pregheremmo contra noi. Et adiunge lo sesto dimando del quale molti fanno due; ma lo nostro autore ne fa uno coniunto, dicendo: Nostra virtù; cioè di noi omini, che di legger; cioè agevilmente, s’addona; cioè si vince, Non sprimentar; cioè nolla provare e nolla mettere ad esperienzia e prova, coll’antiquo avversato; cioè col dimonio, lo quale è antico inimico dell’umana specie: imperò che infin dal primo Adam incominciò ad essere inimico. Ma libera; la nostra virtù, s’intende, da lui; cioè dal dimonio tu, Iddio padre, che; cioè lo quale, sì la sprona; cioè sì la perseguita et infestala co le suoe tentazioni: sempre lo dimonio tenta l’omo per farlo cadere, e perchè l’omo non è forte come apparve ne la prima battallia che si lassò vincere da lui, però prega Iddio che non l’arrechi ad esperienzia con lui: imperò che elli ci vincerebbe, se non fusse la grazia di Dio; e però prega che co la sua grazia ci liberi da le suoe tentazioni. Molti fanno due di questo dimando come appare nell’Evangelo, quando si dice: Et ne nos inducas in tentationem; ecco l’una. [p. 254 modifica]Sed libera nos a malo; ecco l’altra. Ma l’autore nostro la recò ad una, perché amburo non s’appartegnano a quelli del purgatorio; ma sì alli omini che sono nel mondo, come apparrà di sotto per lo testo che seguita.

C. XI — v. 22-36. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come una di quelle anime dichiarasse alcuno dubbio a Dante, che occorrea per l’orazione detta di sopra; cioè per l’ultima parte; a presso pone una persuasione ad ogni uno che debbia pregare per l’anime del purgatorio, dicendo così: Quest’ultima preghiera; cioè Nostra virtù ec.; parla una dell’anime, che andavano sotto li pesi a Dante dicendoli che l’ultimo prego de la orazione detto di sopra non si facea per loro; et usa qui una figura che si chiama antifofora, che si fa quando l’omo risponde a l’obiezione che si potrebbe fare 9. L’omo dice all’anime di purgatorio: Voi pregate che non siate indutte in tentazioni; ma siate liberate da male: voi non potete più essere tentate e siete libere dal male de la colpa e con speransa d’esser libere dal male de la pena, adunqua invano pregate. A che elli risponde che questo non si prega per loro; ma per quelli che sono nel mondo, che possono essere tentati c possono incorrere nel male e ne la colpa; e però dice a Dante: Signor caro; ecco che induce ne li stati superbi umilità, fingendo che dicano a lui Signore caro; e carità in quanto diceno caro, Già non si fa per noi; del purgatorio, che non bisogna: imperò che non possiamo incorrere più male di colpa, nè di pena che noi siamo incorsi, quia post mortem non est locus meriti; neque demeriti — Ma per color che dietro a noi restaro; cioè per quelli che sono nel mondo. E sopra questa parte occorre uno dubbio; cioè come finge l’autore che quelle anime preghino per noi: conciossiacosach’elle non possano meritare, nè demeritare, nè sapere di nostro stato se non in quanto per grazia è revelato loro; cioè a quelli del purgatorio; et a quelli de lo inferno per loro pena et afflizione; e dove non è merito, non è esaudizione; dunque in vano è lo loro orare; dunque in vano fa l’autore questa finzione et àe fatto l’altre, dove àe finto che l’anime dicano l’orazione: imperò che ’l prego nè a loro, nè a quelli del mondo vale infine a tanto che non sono in paradiso, come colui che è in bando, che infine a tanto che non è fuora del bando non è udito a ragione in corte, benché dimandi iusto. A che si può rispondere che tanto valliano loro le loro orazioni e l’altre orazioni fatte per loro da altrui, e l’orazioni che fanno per altrui, quanto meritato ànno in questa vita che debbiano valere, sicché non valliano per lo merito che allora acquistino; ma per l’acquistato. E finge questo l’autore, per [p. 255 modifica]mostrare che ànno affezione di carità perfetta, per la quale desiderano la salute loro e nostra, per la quale sempre desiderano e dimandano bene: imperò che sono in grazia di desiderare bene; ma non ottenere infine a tanto che non sono in paradiso; e però finge l’autore, secondo la lettera, che l’anime del purgatorio orino per sè e per altrui; e secondo l’allegoria intende di quelli del mondo, che sono in vero stato di penitenzia che sempre orano e per sè e per altrui. Così; cioè coll’orazione ditta di sopra, a sè; cioè in quelle parti che l’orazione toccava a loro, et a noi; cioè in quello che toccava a noi omini che siamo nel mondo, come è l’ultima preghiera del Pater nostro, ditta di sopra, buona ramogna; cioè buona felicità nel nostro viaggio e nel loro: ramogna 10 è proprio seguir nel viaggio, Quelle ombre; cioè dette di sopra, che erano coi carichi addosso, orando, andavan sotto ’l pondo; cioè dicendo l’orazione ditta di sopra del Pater nostro, avendo addosso li smisurati carichi dei sassi che àe ditto di sopra, Simile; cioè lo peso, a quel che talvolta si sogna: imperò che l’omo sogna spesse volte avere grande peso addosso, et àe grande angoscia, massimamente quando l’omo dorme rivolto, che ’l sangue corre al cuore e grava il cuore, sicché pare a l’omo avere tutto ’l mondo addosso. Disparmente angosciate tutte a tondo; cioè che andavano in giro come girava la cornice, et in questo era pari la loro pena come era stato pari lo peccato de la superbia, in generali discorrendo e ritornando d’uno modo in uno altro, e ritornando al primo; ma lo peso non era eguale, perchè li gradi e le specie non erano stale equali, quale minore e quale maggiore, e così erano li pesi: imperò che più grave è una specie di superbia che un’altra, E lasse; cioè stanche, su per la prima cornice; cioè del purgatorio, Purgando la caligine del mondo; cioè la neressa del peccato de la superbia acquistata nel mondo. Se di là; cioè ne l’altro mondo, cioè nel purgatorio, ben per noi si dice; come mostrato è di sopra che oravano per noi, Di quel che dir e far per noi; cioè li quali siamo nel mondo; e nota che tocca due cose; cioè fare e dire, intendendo per lo fare le elimosine e lo sacrificio, e per lo dire l’orazioni, si puote Da quei, ch’ànno al voler buona radice; cioè da quelli che ànno confermata la loro volontà in bene, Ben si dè lor aiutar levar le nuote; cioè le magagne e le brutture del peccato: imperò che, ben che per la confessione e contrizione e satisfazione che si fa nel mondo si destrugge la colpa, non si disfà la macchia del peccato che rimane nell’anima, se la satisfazione non fu già sì fatta per la pcnitenzia che vastasse; altramente rimane l’anima macchiata e [p. 256 modifica]conviene tanto purificarsi co la pena, ch’ella rimagna monda, come quando uno panno bianco cadesse in uno loto 11; benché se ne cavasse e ponessesi al sole, pur rimarrebbe brutto, et in fine a tanto che non si mettesse in bucato, non diventerebbe bianco come era prima. Così l’anima fatta bianca e netta da Dio cade nel loto del peccato, per bruttarsi e diventa nera; e ben che se ne cavi co la confessione e contrizione, non ritorna netta e bianca come era prima, se non si purifica per la satisfazione dell’opera sofficientemente ne lo stato de la penitenzia, o per la pena del purgatorio. Che portar quinci; cioè di questo mondo, di che non sodisfeceno a pieno, sì che mondi e levi Possano uscir delle stellate ruote; cioè del purgatorio, che finge l’autore che sian in questo mondo; cioè nell’altro emisperio, sì che ben è sotto le revoluzioni delle stelle e delle pianete. E ragionevilmente finge questo: imperò che quive, dove l’omo commette lo pelccato, degna cosa è che pata 12 la pena: l’omo commette lo peccato dentro da’ cieli ne la terra, e quine dè patire la pena, Quia ubi te invenero, ibi te condemnabo.

C. XI — v. 37-45. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Virgilio pregò quelle anime che insegnasseno la montata a l’altro balso, sconiurandoli per quello che era loro grato, dicendo: Doh se giustizia o pietà vi disgrevi; questo Doh è interiezione deprecante; e tocca che due cose sono quelle che disgravano l’anime; cioè iustizia e misericordia: imperò che Iddio o disgrava l’anime per iustizia, che sono tanto state in pene che ànno purgato lo loro peccato; o per misericordia, quando o per lo sacrificio dell’altare, o per elemosine dei vivi, o per orazioni fa loro misericordia e leva loro lo peso del sasso ch’ànno addosso, Tosto; dice: imperò che questo è quello che desiderato è da loro; che tosto finisca la loro pena, sì che possiate muover l’aia; cioè de la 13 leggeressa: imperò che alleggeriti del primo peccato volano su a sgravarsi del secondo, se in ciò ànno peccato; e radi sono che in ogni peccato non caggino per qualche modo, Che; cioè la quale ala, secondo ’l disio; cioè desiderio, vostro vi levi; suso in alto. Mostrate; voi, anime, da qual mano; cioè o da destra o da sinistra, in ver la scala; cioè da montare suso a l’altro balso, Si va più corto; cioè che sia più presso, e se ci à più d’un varco; cioè se ci à più montate d’una, Quel ne insegnate; voi, anime, a noi, che men erto cala; cioè che discende meno 14 ritto. Chè questi; ecco che assegna la cagione Virgilio, perchè vuole lo più piano. Chè questi; cioè Dante, che vien meco; dice Virgilio, per lo incarco De la carne d’Adamo; cioè de l’umanità, ond’ei; cioè de la quale elli, si [p. 257 modifica]veste: imperò ch’elli è col corpo, A montar su contra sua vollia è parco; cioè per la gravità de la carne è lento a montare a l’altessa de la penitenzia contra la sua volontà, quia spiritus pugnat adversus carnem, et caro adversus spiritum. Qui si dè notare una bella moralità; cioè che l’autore per questo dimostra che, chi viene a lo stato de la penitenzia di nuovo, dèsi consiliare co li esperti de’ più agevili montamenti, e quelli eleggere: chè l’omo non dè sopra sè pilliarc carico, ch’elli vi rimagna sotto o che li dia fatica importabile, considerato che noi siamo omini fragili per la nostra carne, che è corrotta per lo peccato.

C. XI — v. 46-57. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che una di quelle anime, che veniano verso loro, rispondesse a la dimanda di Virgilio; ma non vidde quale fu che rispondesse a loro, e però dice: Le lor parole; cioè di quelle anime, che rendero a queste Che ditto avea colui; cioè Virgilio, come appare di sopra, che io; cioè lo quale io Dante, seguiva, Non fur da cui venisser manifeste; cioè non viddi chi ’l dicesse. Ma ditto fu: A man destra per la riva; cioè de la cornice, Con noi venite; ecco che dichiara che andavano in verso mano ritta, e così confortano Virgilio e Dante che vadano, e troverete il passo Possibile a sallir persona viva; ecco che dichiara l’agevilessa de la montata. E s’io non fussi impedito dal sasso; ora dimostra colui che àe parlato come arebbe vollia di cognoscer Dante, e però dice che se non fusse impacciato dal sasso, Che la cervice mia superba doma; ecco che manifesta lo suo peccato; cioè la superbia in quanto dice che la cervice mia superba doma: cervice è propiamente lo collo, ponesi alcuna volta per lo capo e cusì si pone qui, che li superbi sempre vanno col capo alto; et in vendetta di questo finge l’autore che portino lo sasso in sul capo et in sul collo, per portare lo volto basso come prima l’ànno portato alto; e però dice: Unde portar conviemmi il viso basso; dice l’anima che prima avea parlato. Cotesti; cioè Dante, ch’ancor vive: però che era col corpo come avea manifestato Virgilio, e non si noma: imperò che Virgilio noll’avea nominato, Guardere’ io; dice quell’anima, per veder s’io il cognosco; ecco l’una cagione, E per farlo pietoso a questa soma; cioè per fare che preghi Iddio per me, che mi liberi da questo carico ch’io porto.

C. XI — v. 58-72. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che colui, che avea parlato di sopra si manifestò, dicendo: Io fui Latino; ecco che sensa essere addimandato si manifesta ch’elli fu d’Italia, e nato d’un gran Tosco; cioè fìlliuolo d’un grande omo di Toscana: imperò che fu Senese e la Toscana tiene per larghezza dal mare a l’alpe Appennino, e da la Magra in fine al Tevere, come dice lo verso: Etruriœ fines mare, Macra, Tiber et Alpes — , [p. 258 modifica]Guillielmo Aldobrandesco fu mio padre; ecco che nomina lo padre, Non so se ’l nome suo giammai fu vosco; cioè fu vostro, cioè che voi l’abbiate udito ricordare. l’antiquo sangue: imperò che era di sangue gentile, e l’opere leggiadre; cioè l’opere famose, De’ mie’ maggior; cioè di miei antichi, mi fer sì arrogante; cioè sì soperbo 15, benché arroganzia è specie di superbia come appare ne la prima cantica Che non pensando a la comune madre; cioè a la terra, che è madre di tutti li animali quanto al corpo: imperò che tutti sono, quanto a la carne, di terra; et Orazio parlando delli omini, ne l’Ode dice: Pulvis et umbra sumus; e la Santa Scrittura dice: Recordare, frater, quod cinis es, et in cinerem reverteris; sì che tutti siamo pari, poi che una è la madre d’ogni uno, Ogni uno ebbi in dispetto; cioè in dispregio, tanto avante; cioè tanto soperchievilmente, Ch’io ne mori’; cioè per questo io fui morto. Questi fu Omberto filliuolo di messere Guillielmo Aldobrandeschi dei conti da Santa Fiore, che sono nel contado di Siena o vicini; e fu sì superbo che ogni uno dispregiò, e massimamente li Senesi, sì ch’elli fenno ucciderlo per li dispiaceri fatti loro; e però dice: e i miei Senesi il sanno; che me feceno uccidere, E sallo in Campagnatico: Campagnatico è una contrada del contado di Siena, dove Omberto fu ucciso; e però dice: E sallo in Campagnatico ogni fante: in quella contrada solliono essere molti valenti omini d’arme, li quali si chiamano fanti, li quali o perchè funno ad ucciderlo, o forsi perch’erano con lui a fare dispiacere ad altrui, et era loro noto, e però dice che in Campagnatico lo sa ogni fante. Io son Omberto; ecco che si nomina, e non pur a me danno Superbia fe; cioè non à fatto pur male a me la superbia, ma tutti miei consorti; cioè tutti li altri conti, A ella; cioè la superbia, tratti seco nel malanno; cioè tirato con seco in pena et angoscia che vastrà 16 a tempo, e però dice nel malanno; e sì in questa vita che li à fatti periculare e morire innanti ora, e sì nell’altra che li a posti in pena. E qui 17; cioè in questo luogo, convien ch’io; Omberto, questo peso; cioè carico, porti Per lei; cioè per la superbia, tanto che a Dio si sodisfaccia; avendo portato la pena dovuta, Poi ch’io nol fei tra’ vivi; cioè poi ch’io non satisfeci al peccato essendo vivo, conviene ch’io satisfaccia, qui tra’ morti; cioè in purgatorio con li altri passati di questa vita, che qui sono. E qui finisce la prima lezione del canto undecimo.
     Ascoltando io chinai ec. Qui incomincia la seconda lezione del canto xi, ne la quale finge l’autore ch’elli ricognoscesse in quel luogo alquanti che ebbeno superbia di loro maesterio, et artifìcio; e [p. 259 modifica]dividesi in sette parti, perchè prima finge come elli si chinò per vedere uno e ricognovelo; e dimandolo 18 s’elli era quel che credea; ne la seconda finge come colui li risponde molto umiliato, quive: Frate, diss’ello ec.; ne la tersa fìnge come colui, intrato nel parlare de la vanagloria, dice cose molto notabili contra essa, quive: O vanagloria de l’umane posse ec.; ne la quarta finge che ancora lo sopra ditto continui suo parlare, esemplificando e confermando le suoe sentenzie, quive: Che voce avrai ec.; ne la quinta finge com’elli dimanda a colui, che à parlato in fine a qui, chi è colui che li va inanti, e colui risponde e manifestalo, quive: Et io a lui ec.; ne la sesta finge com’elli dimanda ancora colui d’uno dubbio, quive: Et io: Se quello ec.; ne la settima fìnge che colui che àe parlato in fine 19 li solve lo dubbio, quive: Quando vivea ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co la esponizione allegorica, o vero morale.

C. XI— 73-81. In questi tre ternari lo nostro autore finge come elli chinato cognove uno, et elli similmente lui; e parlonno molto insieme infine a la fine del canto. Dice così: Ascoltando; cioè colui che parlava prima, io; cioè Dante, chinai in giù la faccia; Et un di lor; cioè di quelli che andavano caricati, (non questi che parlava; cioè non colui che prima avea risposto a la dimanda di Virgilio; cioè Omberto conte di Santafiore) Si torse sotto ’l peso che lo impaccia; sicchè non potea alsare la testa. E viddemi; cioè me Dante, e cognovemi, e chiamava; cioè me, Tenendo li occhi con fatica fisi A me; cioè a me Dante, che tutto chin; cioè chinato, con lui andava; per poterli parlare et intenderlo. O, dissi lui; cioè a lui io Dante, or non se’ tu Oderisi; ecco che Dante finge d’averlo cognosciuto e nominalo. Questo 20 Odorisi fu d’Agobbio e fu buono miniatore di pennello, sicché al tempo suo non era niuno sì buono; e di questo prese tanta vanagloria, che l’autore finge che per questo stesse in purgatorio ne la prima cornice, dove si purgano li superbi e similmente li vanagloriosi: imperò che la vanagloria è filliuola de la superbia; e però dice: l’onor d’Agobbio; et in questo si dimostra che in Agobbio non sia stato persona di valore famosa, se non costui, nel miniare, poi che l’autore dice che costui è stato l’onore d’Agobbio, e l’onor di quell’arte; cioè del miniare, Che alluminar è chiamata in Parisi? Cioè in Parigi città reale del re di Francia lo miniare si chiama alluminare.

C. XI — v. 82-90. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Odorisi risponde a le parole sue, dimostrandosi già esser [p. 260 modifica]corretto de la sua vana gloria, dicendo cosi: Frate; ecco che chiama Dante fratello, in che si mostra la carità di quelli del purgatorio, diss’ello; cioè Odorisi a me Dante; tu, Dante, m’ài ditto ch’io sono l’onor d’Agobbio e dell’arte del miniare, a che ti rispondo che questa loda non è tutta mia, ch’ella si conviene più a Franco bolognese che a me, benché anco in parte si convegna a me: e però dice: più riden le carte; cioè più vegnano fiorite le carte e li libri, e più belli, Che pennelleggia 21 Franco bolognese; questo Franco Bolognese anco fu finissimo miniatore e lodalo sopra sè: e perchè dice pennelleggia 21 mostra che miniasseno con pennello. L’onor; cioè del miniare, tuttor; cioè tutto ora, è suo; perch’elli è tenuto maggior maestro di me, e mio in parte: imperò che anco sono lodato io; non è anco spenta la fama mia. Ben non serei io stato sì cortese; ecco che accusa lo peccato suo de la vanagloria, dicendo che nella vita nolli arebbe dato la loda che li dava, perchè l’arebbe volsuta per se; e però dice: Mentre ch’io vissi; et assegna la cagione, dicendo: per lo gran disio; cioè per lo grande desiderio, Dell’eccellenzia; cioè dell’avansamento: però ch’io arei volsuto esser tenuto che io avansasse ogni uno, e però dice: ove mio cuor intese; cioè a la quale eccellenzia intese lo mio cuore. Di tal superbia: imperò che volere avansare tutti li altri in fama et in reputazione è superbia; dilettarsi de la loda e desiderarla è vana gloria, sua filliuola, qui; cioè in questo primo balso del purgatorio, si paga il fio; cioè lo presso e lo merito. Et ancor non sarei qui; dice Oderisi a Dante che anco non serebbe in quello luogo, e di questo serebbe cagione la sua colpa, se non fosse, Che, potendo peccar; cioè quando io era in vita, dove si può meritare e demeritare, mi volsi a Dio; cioè lassai lo peccato e ritornai a Dio per confessione e contrizione del mio peccato, e così tornai in grazia a Dio et uscitti de la colpa. E qui sono da notare due cose; prima come l’omo quando è uscito del peccato de la superbia diventa umilissimo; appresso che lo ritornare a Dio si può fare, in fine al punto de la morte: più là non è luogo di remissione.

C. XI — v. 91-102. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che Odorisi, continuando suo parlare dica belle e notabili parole contra la vanagloria; et in prima pone una esclamazione contra quella; possa la prova per esempli, et all’ultimo la descrive, dicendo così: O vanagloria de l’umane posse; cioè de l’umane potenzie. E perchè l’autore fa menzione de la vanagloria, veggiamo che cosa è gloria: gloria è allegressa dell’animo e contentamento d’essere buono; e questa gloria è simplice et assoluta; cioè che non cerchi eccellenzia sopra 22 altrui, e non vollia essere reputato: questa [p. 261 modifica]è vera e buona gloria, in quanto l’omo non si glori in sè; ma ricognosca la grazia di Dio, che altramente serebbe superbia. E però dice santo Agostino: Omnia vitia in male factis tantummodo valent; sola autem superbia. etiam in recte factis, cavenda est. Et in ogni altro modo la gloria è vana: imperò che, se l’omo cerca per la sua virtù eccellenzia sopra li altri, pecca per superbia: imperò che ne la virtù io debbo desiderare parificamento e non eccellenzia; cioè ch’io debbo desiderare d’esser virtuoso quanto si può, e non però sopra stare li altri omini: anco volere che tutti siano pari a me o mellio di me e serebbe grado di umilità, e nelli esercizi mondani che io sia pari ai milliori e che’ minori siano pari a me: imperò che questo è grado di carità perfetta; e se la 23 gloria è respetta, cioè che io cerchi per le mie opere virtuose esser lodato, questa è vana gloria: imperò che non dura se non a tempo, e di questa gloria dice Papia: Gloria est de aliquo frequens fama; et altri dice: Gloria est clara notitia cum laude. E parlando de la vanagloria dice l’autore, esclamando: Com poco; cioè tempo, dura verde; cioè sta in sua vigorosità, in su la cima; cioè in su l’altessa sua; quasi dica: O come dura pogo la gloria delli omini del mondo in sua vigorosità in altessa: imperò che a mano a mano cade e secca, come l’arbore che non è bene appreso, che pogo dura verde la sua cima! Se non è giunta da l’etati grosse; cioè se non è trovata quella gloria dall’etadi ne le quali siano omini grossi di intendimento, sicché non vi sia nessuno omo che intenda ad avansare per suo ingegno colui che è in fama! Molte volte è addivenuto che uno omo è stato in fama alcuno tempo, perchè in quel tempo non à produtto la natura omini con ingegni valevili in quello esercizio, siccome Ennio poeta primo apo’ Latini durò in fama in fin che venne Virgilio, perchè quella età passò grossa in quello esercizio de la poesi; e così dura avale Virgilio, perchè non c’è chi studi, nè possa avansare. Potrebbe anco dire lo testo: Se non è iuta; cioè aiutata, et iuta vocabulo di Grammatica che viene a dire adiutata. E prova l’autore per esemplo quello ch’à ditto, dicendo che Odorisi parli e dica: Credette Cimabue; questo Cimabu’ fu uno dipintore et ebbe grande nome ne l’arte del dipingere, e tenne lo nome in fin che venne Giotto che fu molto eccellente più di lui ne la dipintura, et ora anco lo tiene Giotto, perchè la sua fama è stata vinta da l’età grossa in quella arte: imperò che nessuno è stato poi che in quell’arte sia valuto quanto elli, non che più che elli; e però dice: ne la pittura Tener lo campo; cioè avere la gloria, come lo cavalieri che sta in sul campo vincitore, et or à Giotto il grido; cioè la fama, Sì che la fama di [p. 262 modifica]colui; cioè di Cimabue, oscura; la fama di Gioito e falla parere nulla. Cosi à tolto l’uno; cioè messere Guido de’ Cavalcanti da Fiorensa, all’altro Guido; cioè da messere Guido Guinicelli da Bologna La gloria de la lingua; ecco che adduce l’altro esemplo, come la fama dura pogo ne la gloria del dire in rima: imperò che uno tempo durò la fama di messere Guido da Bologna, possa lie la tolse messere Guido da Fiorensa, e forsi è nato; ecco che l’autore induce che Odorisi profeti di lui, e per onesta la dà a Oderisi ch’elli ne sia il dicitore, et anco vi mette forsi per più onestà, Chi l’uno e l’altro; cioè quel da Bologna, e quel da Fiorensa, caccerà del nido; cioè de la gloria de la fama del dire in rima. Non è ’l mondan romor; cioè la mondana fama. Qui è da notare che romore e fama una medesima cosa significa, se non che fama si può intendere buona e ria la quale si chiama infamia; ma romore s’intende pure infamia; e però disse Virgilio: rumore accensus amaro. E che la fama si pillia per la ria anco lo dimostra Virgilio, quando dice: Fama, malum quo nona liud velocius ullum ec.; e per la ria si disfinisce, o vero descrive così: Fama est sine certo auctore inventio, cui malignitas dedit initium; fìdes vero incrementum. E per la buona si diffinisce come la gloria; e niente di meno li autori pognano alcuna volta l’uno vocabulo per l’altro, e così lo pone l’autore; cioè romore per fama, quasi dica: La fama mondana non è altro che un fiato Di vento; ecco che descrive che cosa è fama, per mostrare la sua viltà; e il Poeta greco, come recita Boezio, dice: O gloria, gloria in millibus mortalium nihil aliud facta, nisi aurium inflatio magna! — , ch’or vien quinci, et or vien quindi: imperò che la fama or viene da uno et or da uno altro, E muta nome, perchè muta lato; come lo vento è una medesima cosa; cioè movimento d’aire da qualunqua parte vegna, e niente di meno àe vari nomi secondo che da varie parti viene; così la fama è fiato de li omini che parlano, e muta nome: però che ora si parta d’uno et ora d’un altro; e così si dimostra la vanità de la fama.

C. XI — v. 103-117. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che Odorisi seguiti lo suo parlare, avvilendo la fama per ragione e per esemplo, dicendo: Che voce; cioè che fama, avrai tu più; inansi che sia mille anni; quasi dica: Nulla, se vecchia scindi Da te la carne; cioè se tu mori vecchio, che se fussi morto Anzi che tu lassiassi il pappo e ’l dindi; cioè in infanzia quando non sapendo parlare ancora, vollendo dire pane dicevi pappo, e volendo dire denari dicevi dindi, Pria; cioè inansi, che passin mille anni? Quasi dica: Inansi che passino mille anni la tua fama serà spenta e serà nulla; benché tu sii invecchiato sì, come serebbe ancora se fussi morto fanciullo, che serebbe anco nulla, che; cioè lo quale spazio di mille [p. 263 modifica]anni, è più corto Spazio a l’eterno; cioè per comperazione a l’eternità che non à principio, nè fine, che un muover di cillia; cioè che non è una alappata d’occhio, Al cerchio; cioè per comparazione 24 al movimento de l’ottavo cielo stellifero, dov’è lo zodiaco; cioè lo cerchio obliquo del Sole, lo quale è più tardo in suo movimento che niuno delli altri cieli: imperò che ogni cento anni va uno grado, sicché in 36 mila 25 d’anni arà dato una revoluzione; e però dice: che più tardo in cielo è torto: imperò che più tardo va in verso l’oriente, che è lo suo movimento naturale che li altri; bench’elli e li altri siano revoluti ogni di’ in 24 ore una revoluzione da oriente in occidente per lo moto violento del primo mobile. Poiché à dimostrato la vanità de la fama per ragione, dimostrala ora per esemplo di messere Provensale Silvana 26 da Siena, lo quale fu signore di Siena al modo che i cittadini solliono signoreggiare le città di Toscana et ebbe una grande fama, e massimamente al tempo che li Senesi sconfisseno li Fiorentini a la Pieve del Toppo; et era questa fama per tutta Toscana, et ora, cioè al tempo dell’autore, a pena in Siena era menzione di lui. E questo esemplo assai dimostra che la fama è nulla, e però dice: Colui; cioè messere Provinciale Silvani, che del cammin sì pogo pillia Dinanzi a me; cioè che va sì piano dinansi a me, dice Oderisi per lo gran peso ch’à addosso, perchè fu superbissima persona, in Toscana sonò tutta; cioè ebbe fama per tutta Toscana, Et ora a pena in Siena sen pispillia; cioè occultamente di lui si parla in Siena sua città, e prima sonò la fama sua per tutta Toscana, Ond’era sire; cioè und’elli era per patria, et erane signore, quando fu destrutta La rabbia; che aveano convocato li Fiorentini tutta la parte contra li Sanesi, e funno sconfitti da’ Senesi e da loro setta a la Pieve dal Toppo, e chi dice a Monte Aperto; non so se è un medesmo luogo; e però dice fiorentina; cioè di Fiorensa, che superba Fu a quel tempo; cioè Fiorensa, sì com’ora è putta: a quil tempo li Fiorentini erano superbi che voleano soprastare li loro vicini; ora sono putti: imperò che ogni cosa fanno per denari, come la meritrice che vende sé per sosso 27 guadagno; e questo era al tempo de l’autore; ma ora al tempo nostro ànno l’uno vizio e l’altro. Et adiunge Odorisi, secondo che finge l’autore, a la ragione et a l’esemplo una conclusione notabile, dicendo e conchiudendo: La vostra nominanza; cioè la vostra fama di voi omini, è color d’erba, Che viene e va; come fa lo colore de l’erba; et accordasi con quello che disse di sopra; cioè Com poco verde in su la cima dura — , e quei; cioè colui, cioè [p. 264 modifica]lo tempo, la discolora; cioè li fa perdere lo colore, Per cui; cioè per lo quale tempo, ella esce de la terra acerba; quasi dica: Lo Sole e lo tempo è cagione che l’erba e le piante escano de la terra acerba e possa 28 crescono e diventino verdi e mettano frondi; e così sono cagione, ch’ella poi muti colore e secchi e caschino le frondi; e così lo di’, lo mese e li anni e ’l tempo sono cagione che la fama vegna e cresca, e così lo tempo è cagione ch’ella vegna meno. Et è qui sottilmente ditto e dèsi leggere con intendimento, attendendo a la similitudine de l’erba.

C. XI — v. 118-126. In questi tre ternari lo nostro autore finge come elli dimanda Oderisi chi è colui lo quale elli indusse di sopra per esemplo; e come li rispuose che è messere Provensan Selvani del quale fu ditto di sopra, dicendo: Et io a lui; cioè io Dante dissi a lui, cioè ad Oderisi: Lo tuo ver dir; cioè lo vero che tu dici, m’incora; cioè mi mette in cuore, Buona umiltà; cioè d’essere buono et umile, e gran tumor cioè grande infiamento di superbia, m’appiani; cioè mi cessi del cuore co le tuoe parole. Ma chi è quei; ecco che dimanda, perchè manifesti colui che arrecò di sopra per esemplo che non fu nominato, e però dice: di cui tu parlavi ora; come appare di sopra? Quelli; cioè Oderisi rispuose: Colui è, rispose, Provenzal Selvani; del quale fu ditto di sopra. È qui: però che fu presuntuoso; ecco che manifesta la colpa perchè è in si fatto luogo; cioè per la presunzione, che è de le filliuole de la superbia. Et è presunzione pilliare a sè quil ch’è d’altrui, come quando l’omo si tiene lo milliore artista che si trovi, et aràci 29 de li altri più sofficienti di lui, et arrecasi la loda che è d’altrui: così quando l’omo pillia a fare quello che non s’appartiene a lui, e preoccupa quello che è d’altrui; e così questo messere Provensal fu presuntuoso ad arrecare a sè la maggioria de la sua città, ch’era più tosto dei cittadini che v’eran più virtuosi di lui; e però seguila: A recar Siena tutta in le sue mani; cioè a recar tutta la città di Siena nel suo governo, e ne la sua potenzia, Ito è così, e va senza riposo, Po’che morì: imperò che finge l’autore che sempre vadano al tondo coi carichi addosso, in fin che è compiuta la loro penetenzia. cotal moneta rende A sodisfar chi è di là troppo oso; cioè cotal pena porta e cotal cambio dà chi è nel mondo troppo malagevile a sodisfare per lo peccato; e puosi 30 intendere cotal moneta; cioè cotal cambio rende, A sodisfar; cioè per sodisfar, chi è di là; cioè nel mondo, troppo oso; cioè troppo superbo.

C. XI — v. 127-132. In questi due ternari lo nostro autore finge [p. 265 modifica]com’elli mosse uno dubbio ad Odorisi sopra la condizione di messere provensale, udito come fu nel mondo presuntuoso mentre ch’elli visse e superbo; e non erano molti anni ch’elli era morto, non certo tanti quanto era vissuto in quella superbia, quando l’autore finge ch’elli lo vedesse nel sopra ditto luogo: imperò che questo venia contra la finzione fatta da lui di sopra; che ogni uno errasse tanto per la piaggia e per lo monte di fuore dal purgatorio, quanto era vissuto contumace ne la vita inansi che tornasse a penitenzia; e però dice: Et io; cioè Dante dissi ad Odorisi: Se quello spirito che attende, Pria che si penta; cioè prima che torni a penitenzia, l’orlo de la vita; cioè l’estremo de la vita, cioè la morte, Qua giù; cioè al piè del monte e su per la costa, in fine al balso primo del purgatorio e per la piaggia, come ditto fu, dimora; cioè sta, e quassù; cioè dentro dal primo giro dd purgatorio; et adiunge l’eccezione, dicendo: Se buona orazion lui non aita: imperò che per l’orazione de’ vivi e per le limosine s’avacciava lo termine, come ditto è in più luoghi, non ascende; questo è con quello, e quassù con quel si dè ordinare, Prima che passi tempo quanto visse; questo si dè ordinare di po’ quello che seguita: imperò che, come ditto è, non entra d’entro dal purgatorio in fin che di fuora non à purgato la negligenzia de la penitenzia, che àe indugiato ne la vita: ecco che pone lo dubbio, dimandando: Come fu la venuta a lui largita; cioè come li è permesso d’intrare nel purgatorio et essere qui in questo primo balso: con ciò sia cosa ch’elli non si pentisse se non a l’estremo, e non sia tanto tempo ch’elli morì, quanto elli visse inansi a la penitenzia?

C. XI— v. 133-142. In questi tre ternari et uno versetto lo nostro autore finge che Oderisi rispondesse a quello dubbio, ch’elli avea mosso di sopra di messere Provensale, perchè era sallito così tosto a purgarsi nel purgatorio, e non era di sotto a purgarsi de la negligenzia. A che risponde che tanto fu l’umilità ch’elli ebbe, quando intese che l’amico suo era ne la pregione 31 del re Carlo, et aveali posto tallia di dieci mila fiorini che si dovesseno pagare in fra uno mese, altramente li sarebbe talliata la testa, che elli fece ponere uno banco in sul campo di Siena, et elli si puose al banco; et a chi passava, vergognosamente dimandava aiuto, per campare l’amico suo; e tanto vi stette ch’elli accattò questi denari e liberò l’amico suo de la prigione e de la morte. E perchè questa fu grandissima umilità, ammendò la grande superbia ch’avea avuta intanto, che sodisfece per la negligenzia de la penitenzia; c però dice: Quando vivea più glorioso; cioè lo detto messere [p. 266 modifica]Provensale, disse; cioè Oderisi, Liberamente nel campo di Siena; questa è la piassa maggiore di Siena, dove sta la signoria di Siena: liberamente dice, perchè non infìntamente; ma pur con animo libero, per dimandare da chi volesse dare liberamente e volesselo aiutare, promettendo di rendere poi ad ogni uno, Ogni vergogna deposta; cioè posta giù ogni vergogna, s’affisse; cioè si puose a stare e dimandare a chi passava che per l’amore di Dio l’aiutasse a campare l’amico suo de la prigione e de la morte. E lì; cioè et in quil luogo per trar l’amico suo di pena; cioè Vinea: chè così trovo ch’era chiamato, o vero Vinca; e la pena che sostenea potea essere de la paura de la morte che aspettava, o forsi che era tormentato, o pur la pregione che è cosa che dà pena all’animo che desidera libertà, Che sostenea ne la prigion di Carlo; cioè del re Carlo, lo quale li avea posto di tallia dieci mila fiorini, e se nolli pagava in fra uno mese, li dovea fare talliare la testa, come ditto è di sopra, ; cioè messere Provensale, condusse a tremar per ogni vena; cioè ad accattare; la quale cosa fu segno di grande umilità e di grande vergogna, unde elli ch’avea condizione superba, di vergogna tremava per ogni vena: dice vena: imperò che ogni membro dov’è vena tremava, fuggendone lo sangue e correndo al volto. Se queste istorie narrate non si diceno per me a pieno, abbimi scusato lo lettore, ch’io noll’ò trovate altramente, et io non vollio fingere da me. Più non dirò; finge Dante che Odorisi faccia fine al suo ragionamento e profeti a lui quello che li dè avvenire dicendo, che non dirà più che abbia ditto; et adiunge ch’elli cognosce bene che ’l dire suo, cioè che messere Provensale si condusse a tremare per ogni vena, è ditto oscuro che non s’intendrà così per ogni uno, e però dice: e scuro so ch’io parlo; dicendo com’è ditto di sopra. Ma poco tempo andrà; ecco che profeta a Dante l’esilio suo, che i tuo’ vicini; cioè li Fiorentini tuoi vicini, Faranno sì; cacciandoti di Fiorensa e privandoti del tuo 32, che tu potrai chiosarlo; cioè tu, Dante, potrai sponere questo detto: però che vedrai quanta vergogna e quanto timore di non essere esaudito è a chi dimanda l’aiuto altrui; unde per la vergogna e per la paura lo sangue fugge de le vene, e per la vergogna corre al volto, e per la paura al cuore soccorrendo le parti che vegnano meno, e così tremano tutte le vene da lui abbandonate. Quest’opera; cioè questo atto di grande umilità e pietà; cioè d’accattare così vergognosamente, li tolse; cioè a messere Provensale ditto di sopra, quei confini; cioè lo stare di sotto fuor del purgatorio a purgare la [p. 267 modifica]negligenzia d’essere indugiato al fine de la vita a venire a lo stato de la penitenzia. E qui occorre uno dubbio; cioè perchè l’autore finse 33 che Odorisi che fu uno miniatore, omo di non grande affare, abbia parlato sì notevilmente de la vanagloria e de la fama, come appare di sopra? A che si può rispondere che due cagioni lo movesseno; la prima che forse nc la vita questo Oderisi fu uomo d’ingegno, benché fusse miniatore, et ebbe buono sentimento come si trovano anco oggi dipintori, fabbri et altri artefici che ànno buono e sottile sentimento 34; unde, per dimostrarlo quale fu ne la vita, lo induce a parlare così qui; e questo si può comprendere per quello che l’autore disse di sopra, cioè: l’onor d’Agobbio. L’altra cagione può essere, per mostrare quanto l’anima separata del 35 corpo, essendo in grazia di Dio, acquista d’intelletto ricognoscendo la gravezza del suo peccato e l’altessa de la 36 virtù lassata da lei ne la vita, come si vede nel mondo nelli omini tornati a stato di penitenzia che, stati prima grossi d’ingegno, diventano sottili ne le cose virtuose per la grazia de lo Spirito Santo che sopra viene in loro. E qui finisce il canto undecimo, et incominciasi lo duodecimo.

Note

  1. L’edizione di Vindelino, il Codice Estense e qualche altro ne porgono questa variante - al tuo dolce vapore. E.
  2. C. M. lo secondo dimando,
  3. C. M. li contemplativi
  4. C. M. si dè considerare di pacificare — Il nostro Codice ci porge - desidera, desiderà - infinito privo dell’ultima sillaba, come si è talora usato. E.
  5. C. M. et è interpetrato;
  6. Altr. concinunt
  7. C. M. E questo à posto per lo terzo dimando; cioè fiat voluntas tua, sicut in Cœlo et in terra; e questo è lo terzo
  8. Albitrio; arbitrio, dove scorgesi lo scambio delle due liquide l ed r, come in albore per arbore e simili. E. — C. M. arbitrio,
  9. C. M. fare innanzi che si faccia, come ora. Potrebe l’omo dire a l’anime
  10. Ramogna può derivare da ramier; pellegrino, così appellalo dagli antichi Francesi a cagione del ramicello di palma che recava da Gerusalemme. E.
  11. C. M. loto o fango;
  12. Pata; patisca, da patere. E.
  13. C. M. dell’allegrezza: imperò
  14. C. M. meno ratto.
  15. Soperbo; superbo, pel solito mutamento delle due vocali o ed u. Folgore da San Gemignano in un sonetto dettò «Chè tu sai che soperbia m’è nimica». E.— C. M. superbo,
  16. C. M. vasterà
  17. Da E qui - a - qui sono - ci siamo valsi del Codice Magliab. E.
  18. Dimandolo; oggi dimandollo; ma in antico qualunque voce accentata sull’ultimo non raddoppiava, come ora, la consonante del pronome od affisso. E.
  19. C. M. parlato insieme li solvi
  20. C. M. Questi Oderisi
  21. 21,0 21,1 C. M. privilegia, mostra che miniasse con pennello;
  22. C. M. sopra tutti o sopra altrui,
  23. C. M. la grazia è respettiva; cioè
  24. C. M. comperazione
  25. C. M. milliaia d’anni
  26. Questo Silvani governatore de’ Senesi negli anni mille dugento sessanta nove da Giachetto Malespini viene denominato Provenzano, e Provinzano da G. Villani. E. — C. M. Silvani
  27. C. M. per lo suo guadagno;
  28. C. M. e poi crescano
  29. Araci; ci arà od avrà, dall’infinito are. E.
  30. Puosi; puossi. V. Dimandolo T. ii. pag. 259 E.
  31. Pregione; prigione, cambiato l’i in e come in enemico, vencere per inimico, vincere e simili. E.
  32. Chi non è nuovo della lettura de’nostri Classici ricorderà com’eglino adoperino di frequente i pronomi aggettivi possessivi assolutamente; suppostovi il sustantivo negozio, avere. Così qui - privandoli del tuo avere. E.
  33. C. M. finge
  34. C. M. intendimento;
  35. C. M. separata dal corpo,
  36. C. M. altezza della sua virtù
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