Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XIII

Purgatorio
Canto tredicesimo

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Purgatorio - Canto XII Purgatorio - Canto XIV
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C A N T O     XIII.

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1Noi eravamo al sommo de la scala,
     Ove segondamente si risega
     Lo monte, che salendo altrui dismala.
4Ivi così una cornice lega
     Intorno il poggio, come la primaia,
     Se non che l’ arco suo più tosto piega.
7Ombra non lì è, nè segno che si paia:1
     Par sì la ripa, e par sì la via schietta
     Col livido color de la petraia.
10Se qui per dimandar gente s’aspetta,2
     Ragionava il Poeta, io temo forse
     Che troppo avrà d’indugio nostra eletta.
13Poi fisamente al Sole li occhi porse;
     Fece del destro lato a muover centro,
     E la sinistra parte di sè torse:
16O dolce lume, a cui fidanza io entro
     Per lo nuovo cammin, tu me conduci,3
     Dicea, come condur si vuol quinci entro:
19Tu scaldi il mondo, tu sovr’ esso luci;
     S’ altra cagion in contraro non ponta,4
     Esser den sempre li tuoi raggi duci.

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22Quanto di qua per un millio si conta,5
     Tanto di là era vani noi già iti
     Con pogo tempo, per la vollia pronta;
25E verso noi volar fuoron sentiti,6
     Non però visti, spiriti parlando
     A la mensa d’ amor cortesi inviti.
28La prima voce che passò volando,
     Vinum non habent, altamente disse,
     E dietro a noi l’ andò reiterando.
31E prima ch’ ei del tutto non s’ udisse
     Per l’allongarsi, un’altra: Io sono Oreste,7
     Passò, gridando, et anco non s’ affisse.
34O, diss’ io, Padre, che voci son queste?
     E come dimandai, ecco la terza
     Dicendo: Amate da cui male aveste.8
37E il buon Maestro: Questo cinghio sferza
     La colpa de la invidia, e però sono
     Tratte d’amor le corde de la ferza.
40Lo fren vuol esser del contrario sono:
     Credo che l’udirai, per lo mio avviso,9
     Prima che vegni al passo del perdono.10
43Ma ficca il viso per l’ aire ben fiso,11
     E vedrai gente innanzi a noi sedersi,
     E ciaschedun lungo la grotta assiso.
46Allora più che prima li occhi apersi;
     Guarda’mi inanzi, e viddi ombre con manti
     Al color de la pietra non diversi.

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49E poi che fummo un pogo più avanti,
     Udia gridar: Maria, ôra per noi,12
     Ora, Michael e Pietro, e tutti i Santi.13
52Non credo che per terra vada ancoi14
     Uomo sì duro, che non fusse punto
     Da compassion di quel ch’ io viddi poi:
55Che quando fui sì presso di lor giunto,
     Che li atti loro a me venivan certi,
     Per li occhi fui da grave dolor munto.
58Di vil ciliccio mi parean coperti,
     E l’ un sofferia l’altro in su la spalla,15
     E tutti da la ripa eran sofferti.
61Così li ciechi, a cui la roba falla,16
     Stanno ai perdoni a chieder lor bisogna,
     E l’ uno il capo sovra l’ altro avvalla,
64Perchè in altrui pietà tosto si pogna,
     Non pur per lo sonar de le parole;
     Ma per la vista, che non meno agogna.
67E come alli orbi non approda il Sole;
     Così all’ombre, quivi ond’ io parlo ora,
     Luce del Ciel di sè largir non vole:
70Chè a tutti un fil di ferro il cillio fora,
     E cucesi, come a sparvier silvaggio17
     Si fa: però che queto non dimora.
73A me parea andando fare oltraggio,
     Veggendo altrui, non essendo veduto,
     Per ch’ io mi volsi al mio Consillio saggio.

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76Ben sapea el che volea dir lo muto;
     E però non attese mia domanda;
     Ma disse: Parla, e sii breve et arguto.
79Virgilio mi venia da quella banda
     De la cornice onde cader si puote,
     Perchè da nulla sponda s’ inghirlanda:
82Dall’ altra parte m’ eran le devote
     Ombre, che per l’ orribile costura
     Premevan sì, che bagnavan le gote.
85Volsimi a loro, et: O gente sigura,
     Incominciai, di veder l’ alto Lume,
     Che il disio vostro solo à in sua cura,
88Se tosto grazia risolva le schiume
     Di vostra coscienzia, sì che chiaro
     Per essa scenda de la mente il fiume,
91Ditemi (che mi fi’ grazioso e caro)18
     S’ anima è qui tra voi che sia latina;19
     E forsi lei serà buon s’ io l’ apparo.20
94O frate mio, ciascuna è cittadina
     D‘ una vera città; ma tu vuoi dire,
     Che vivesse in Italia peregrina.
97Questo mi parve per risposta udire
     Più inanti alquanto, che là dov’ io stava;
     Et io mi fei ancor più là sentire.
100Tra l’ altre viddi un’ ombra, ch’ aspettava
     In vista; e se volesse alcun dir: Come?
     Lo mento, a guisa d’ orbo, in su levava.21

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103Spirto, diss’ io, che per salir ti dome,
     Se tu se’ quelli che mi rispondesti,
     Fammiti conto o per loco o per nome.
106Io fui Sanese, rispuose, e con questi
     Altri rimendo qui la vita ria,
     Lagrimando a Colui che sè ne presti.
109Savia non fui, avvegna che Sapìa22
     Fossi chiamata, e fui delli altrui danni
     Più lieta assai, che di ventura mia.
112E perchè tu non credi ch’ io t’ inganni,
     Odi s’ io fui, com’ io ti dico or, folle:
     Già descendendo l’ arco de’ miei anni,
115Eran li cittadin miei presso a Colle
     In campo giunti coi loro avversari;
     Et io pregava Iddio di quel che volle.
118Rotti for quivi, e volti ne li amari
     Passi di fuga; e vedendo la caccia,
     Letizia presi a tutte altre dispari
121Tanto, ch’ io volsi in su l’ ardita faccia,23
     Gridando a Dio: Omi più non ti temo;
     Come fa il merlo per poca bonaccia.
124Pace volsi con Dio in su l’ estremo
     De la mia vita; et ancor non serebbe
     Lo mio dover per penitenzia scemo,
127Se ciò non fusse, che a memoria m’ ebbe
     Pier Pettinaro in suoe sante orazioni,
     A cui di me per carità rincrebbe.

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130Ma tu chi se’, che nostre condizioni
     Vai dimandando, e porti li occhi sciolti
     Sì come io credo, e spirando ragioni?
133Li occhi mi fino ancor diss’ io qui tolti;2425
     Ma piccol tempo: chè poca è l’ offesa
     Fatta, per esser con invidia volti.
136Troppa è più la paura, ond’ è sospesa
     L’ anima mia, del tormento di sotto,
     Che già lo carco di laggiù mi pesa.
139Et ella a me: Chi t’ à donque condotto
     Quassù tra noi, se giù ritornar credi?26
     Et io: Costui ch’ è meco, e non fa motto;
142E vivo sono, e però mi richiedi,
     Spirito eletto, se tu vuoi ch’ io mova
     Di là per te ancor li mortal piedi.
145Oh! questa è sì ad audir cosa nova,27
     Rispuose, che gran segno è che Dio t’ ami;
     Però col prego tuo talor mi giova.
148E chieggioti per quel che tu più brami,
     Se mai calchi più terra di Toscana,
     Che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami.
151Tu li vedrai tra quella gente vana,
     Che spera in Talamone, e perderalli
     Più di speranza ch’a trovar Diana;28
154Ma più vi perderanno li ammiralli.

  1. v. 7. C. A. Orma non
  2. v. 10. C. M. E qui
  3. v. 17. C. A. tu ne
  4. v. 20. C A. ragione in
  5. v. 22. C. A. migliaio
  6. v. 25. C. M. C. A. furon
  7. v. 32. C. A. Per allungarsi,
  8. v. 36. Amate, da cui male aveste. — Si consideri la grazia di codesto modo ellittico: Amate gli uomini, da cui male aveste. E.
  9. v. 41. C. A. per mio
  10. v. 42. C. A. che giunga al
  11. v. 43. C. A. gli occhi per
  12. v. 50. C. A. Udii
  13. v. 51. C A. Gridar’: Michele
  14. v. 52. Ancoi; anche oggi. In Lombardia e in Romagna dicesi tuttora ancu’ e viene dal provenzale anchoy, ancui, anc ui che è corruzione del latino hanc hodie. E.
  15. v. 59. C. A. l’altro con la
  16. v. 61. Fallo, da fallare dalla terza ridotto alla prima coniugazione. E.
  17. v. 71. C. A. E cuce sì,
  18. v. 91. C. A. Ditene che mi fia
  19. v. 92. Anima latina. Ecco una pruova novella del giudizio del sovrano Poeta sulla eccellenza della stirpe romana. E.
  20. v. 93. C. A. fia buon se io l’ imparo,
  21. v. 102. C. A. A guisa d’ orbo il mento
  22. v. 109. Donna Sapìa fu moglie di Ghinibaldo de’ Saracini, e con suo marito fondò un ospizio pe’ viandanti nel 1265. Ella risponde a Dante, non come latina; ma come italica, qualità allora distinte e per la diversità delle razze, e per quella delle leggi personali. E.
  23. v. 121. C. A. io in su levai l’
  24. v. 133. Fino; fieno, saranno, cagionato dalla terza persona singolare del futuro fi’ ed aggiuntovi no. E.
  25. v. 133. C. A. Gli occhi, diss’ io, mi fieno ancor qui tolti;
  26. v. 140. C. A. se laggiù tornar
  27. v. 145. C. A. Oh questo è a udir sì cosa
  28. v. 153. C. A. che trovar la diana;

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C O M M E N T O


Noi eravamo al sommo de la scala ec. In questo canto xiii lo nostro autore finge che elli, guidato da Virgilio, montasse in sul secondo balso del purgatorio, dove finge che si purghi l’anima dal peccato de la invidia. E dividesi questo canto in due parti: imperò che prima descrive lo luogo e la pena che finge essere ordinata a la purgazione di tale peccato; ne la seconda parte finge come ne ricognove alcuna dell’anime che quive si purgavano, e parlamentò con esse, quive: Virgilio mi venia ec. La prima parte, che serà la prima lezione, si divide in sei parti: imperò che prima descrive, fingendo come era fatto quel secondo balso; ne la seconda finge come Virgilio fece sua invocazione al Sole, quive: Se qui per dimandar ec.; ne la terza finge che, girati forse uno millio, uditte tre voci, quive: Quanto di qua ec.; ne la quarta finge come Virgilio lo dichiara di quelle voci, e dimostrali gente da lunga, quive: E il buon Maestro ec.; ne la quinta finge come elli vidde quelle genti, e descrive la pena che per loro peccato sostenevano quive: E poi che fummo ec.; ne la sesta, seguitando ancora la ditta pena, finge che elli volesse dimandare licenzia di parlare con esse; ma Virgilio lie la diede innanti che elli la dimandasse, quive: E come alli orbi ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co le suoe esponizioni litterali et allegoriche, o vero morali.

C. XIII — v. 1-9. In questi tre ternari lo nostro autore finge, descrivendo come era fatto lo secondo balso del purgatorio, a che finge essere montato, dicendo così: Noi; cioè Virgilio et io Dante, eravamo al sommo; cioè a la parte soprema, de la scala; che montava al secondo balso del purgatorio, Ove; cioè in sul quale balso, segondamente si risega 1 Lo monte; ecco che dichiara come era fatto quello secondo balso, e per questo dà ad intendere come era fatto lo primo; dice che era risegato lo monte et in su quella sega era la cornice seconda al sommo, in sull’estremo un pogo in fuora, che rende lo spazio più largo e darebbe impaccio a chi volesse montare su per la parete; e così la prima, acciò che s’intenda che fusse tutta fatta di pietre sporte in fuora, poi ch’elli la chiama cornice, e però dichiara come era fatta, che salendo; cioè lo quale ascendendo, altrui dismala; cioè l’anima peccatrice purga dal male e dal peccato, come è stato toccato di sopra più volte. Questo finge l’autore, secondo la lettera, del purgatorio, che allegoricamente intese del monte de la penitenzia, che si sallie di balso in balso da coloro che sono [p. 302 modifica]nel mondo in stato di penitenzia, che montano di grado in grado. Ivi; cioè in quel luogo, così una cornice lega Intorno il poggio; cioè la parete del terso balso; cioè in su la quale è lo terso balso, lega; cioè cinge, una cornice; cioè lo balso co la cornice intorno, come la primaia; cioè cornice lega intorno la parete, che sostiene lo secondo balso, Se non che l’arco suo; cioè di quella cornice, più tosto piega: impero che minore è lo giro de la seconda, che quello de la prima: imperò che quanto più si monta più viene mancando lo giro, come vuole la ragione del monte tondo, che sempre in su digrada et assottillia. E questa finzione è consona a la ragione: imperò che minore pena si conviene a minor peccato; sicché come digradano li peccati, denno degradare le pene. Ombra; cioè figura nessuna ne la parete, non lì è; cioè non è quive, come àe finto che fusse nel primo giro, nè segno che si paia; e questo finge l’autore, per mostrare la condizione del peccato, che finge che quive si purghi; cioè la invidia la quale sta solo appiattata nell’anima e non viene di fuora in atto, se non sotto specie d’altro peccato. Par sì la ripa; ch’ è d’intorno, e par sì la via schietta; cioè lo spasso che non v’è scolpito, nè dipinto, Col 2 livido color de la petraia; finge che la ripa e lo spasso sia fatto di petrina livida, perchè questo colore è conveniente a la invidia; unde Boezio in secondo Philosophicae Consolationis, dice la Filosofia, parlando a Boezio de la fortuna: Nunc te primum liventi oculo perstrinxit: la invidia è fredda, perch’è contraria a la carità, e lo freddo fa l’omo livido; e però finge l’autore che quive sia sì fatto colore.

C. XIII — v. 10-21. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Virgilio si mosse a girare su per lo secondo balso, e fece sua invocazione al Sole; ricognoscendo lo suo beneficio, gratificavali dicendo: Se qui; cioè in questo luogo, dove noi siamo, per dimandar; cioè del cammino, gente s’ aspetta; cioè che vegna verso noi, Ragionava il Poeta; cioè Virgilio, io temo forse Che troppo avrà d’ indugio; cioè troppo penerà ad averne effetto, nostra eletta; cioè nostra elezione, che abbiamo eletto di cercare questo balso e li altri. E questo dicea, perchè sapea che quelli che si purgavano in su quel secondo balso, stavano a sedere e non andavano; ma dice forse, perchè potrebbe esser venuto l’angiulo ad insegnare loro la via. Poi fisamente al Sole li occhi porse; cioè Virgilio, volgendosi inverso lui; e però dice: Fece del destro lato a muover centro; cioè che lo tenne fermo, E la sinistra parte di sè torse; cioè girò lo lato manco, fermato lo ritto, come conviene che faccia chi si volge per andare [p. 303 modifica]in verso mano ritta, come finge l’autore che sempre vadano per lo purgatorio; come per lo inferno in verso mano manca; e di questo è stato di sopra renduto ragione. E voltosi al Sole, parlò Virgilio in questa forma: O dolce lume: veramente lo lume del Sole è cagione che le cose si vedeno, ch’altramente non si vederebbeno 3, come non si vedeno di notte, e questo vedere è dolce cosa a l’omo, a cui fidanza io entro; cioè io Virgilio con Dante, Per lo nuovo cammin; cioè per lo purgatorio di sopra ditto, che sensa ’l Sole non si può andare per lo purgatorio, e renduta fu la cagione, tu me; cioè Virgilio, conduci, Dicea; Virgilio, come condur si vuol quinci entro; cioè in questo luogo del purgatorio. Tu scaldi il mondo; coi raggi tuoi, tu sovr’ esso luci; illuminandolo, S’altra cagion in contraro non ponta; cioè non stroppia, Esser den sempre li tuoi raggi duci; cioè conduttori e guida delli omini. Benché l’autore per la lettera parli del Sole materiale; allegoricamente intese de la grazia illuminante ili Dio, sensa la quale l’omo non esce del peccato, e viene a la penitenzia. E finge l’autore che Virgilio; cioè la ragione sua, la chiami non dimandando da lei alcuna cosa: imperò che già l’avea recevuta, come ditto è di sopra; ma congratulando e ricognoscendo lo suo beneficio, lo manifesta e mostra a Dio di ricognoscerlo, dicendo le parole preditte; cioè: O dolce lume; cioè o dolce grazia illuminante di Dio, a cui fidanza io entro Per lo nuovo cammin: nuovo cammin era intrare a la purgazione de la invidia, tu me conduci: imperò che la grazia di Dio è quella che ci conduce nell’opere virtuose, come condur si vuol quinci entro; cioè scaldandomi col tuo caldo de la tua carità et illuminandomi sì, ch’ io ricognosca quanto è lo bene de la carità, e quanto è lo male de la invidia, e lo modo come tal peccato si vuole purgare. Tu scaldi il mondo; cioè l’omo, che è lo minor mondo, co l’ardore de la tua carità, tu sovr’ esso luci; cioè sopra l’anima umana, infondendovi la tua luce e il tuo sapere, sicchè ricognosca l’offesa sua, e purghisi da essa, S’ altra cagion; qui dice che sempre la grazia di Dio c’ illuminerebbe, se noi non ce ne rendessimo indegni coi nostri vizi e peccati.

C. XIII — v. 22-36. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, girando ’l monte nel secondo balso, uditte tre voci che li denno ammirazione; e però ne dimanda Virgilio, come apparrà in quel che seguita. Dice così: Quanto; cioè spazio, di qua; cioè nel mondo, dove era Dante quando questo scrisse, per un millio si conta: millio è una lunghessa di terreno che sia mille pertiche, e chiamasi millio da mille, Tanto di là; cioè su per lo secondo balso del purgatorio, eravam noi; cioè io Dante e Virgilio, già iti; girando lo [p. 304 modifica]monte, Con pogo tempo: imperò che pogo avavamo 4 messo in andare quello millio, per la vollia pronta; cioè sollicita volontà. E verso noi; cioè me Dante e Virgilio, volar furon sentiti; ecco che finge che spiriti volasseno per l’aire invisibili, li quali diceano tre voci le quali erano incitamento a carità et amore, che è contra la invidia; e questi spiriti possiamo imaginare, che l’autore fingesse che fusseno angiuli, o vero spiriti che fosseno purgati di quel peccato, Non però visti; finge che fusseno invisibili quelli spiriti, per continuare la fizione; cioè che ’l peccato de la invidia come si cagiona per lo vedere: imperò che lo invidioso s’attrista e tribulasi 5 del bene che vede altrui; così finge che per l’opposito si purghi; cioè per non vedere: lo vocabulo manifesta l’effetto de la cosa; invidia cioè male vedere, o contra vedere: imperò che lo invidioso vede quello che non vorrebbe vedere: imperò che vede il bene al suo vicino, e non vorrebbe vederlo; e però finge l’autore, come apparrà di sotto, che quive le cose siano invisibili e l’anime siano purgate colli occhi chiusi, con uno filo di ferro, come si dirà di sotto, spiriti parlando; e che parlasseno ecco che ’l dichiara, A la mensa d’amor cortesi inviti; cioè inducimenti e confortamenti a carità et amore; è qui colore retorico che si chiama permutazione, quando si transume tutta l’orazione. La prima voce che passò volando; cioè lo primo spirito che passò volando, Vinum non habent; ecco l’autorità 6 dell’Evangelio di santo Luca, quando la Virgine Maria tutta piena di carità disse a le nosse di santo Giovanni: Vinum non habent; e Cristo fece lo miracolo, che mutò l’acqua in vino. Ecco che l’autore finge che uno spirito, volando dicesse questo, per mostrare secondo la lettera, che l’ anime del purgatorio che si purgano de la invidia s’arricordino di tutti i cristiani 7 di perfetta carità, per avere de la invidia debita contrizione; et allegoricamente, per dare esemplo alli invidiosi che diventasseno caritativi e desiderativi del bene, e de l’onore del prossimo, come fu la Virgine Maria de l’onore dello sposo che faceva le nosse; et anco che questa voce pregasse Iddio che desse del vino de la carità e de l’amore a coloro che non n’aveano, ch’erano freddi, e che mutasse la loro acqua in vino; cioè la loro freddura in carità: dire lo suo bisogno a Dio è pregarlo ch’Elli sovvegna al bisogno; e ben che ’l finga ditto per quelli del purgatorio, secondo la lettera; allegoricamente s’intende di quelli del mondo, come mostrato è. altamente; cioè con alta voce, disse; cioè lo spirito che passava, E dietro a noi; cioè a me Dante e Virgilio, l’andò [p. 305 modifica]reiterando; cioè dicendo anco un’altra volta. E così finge che questa voce vada in giro sopra ’l balso secondo, raccordando a quelle anime l’esemplo ditto di sopra, per inducerle a carità, o pregando Iddio che faccia loro come fece ne le nosse preditte; e così a quelli del inondo. E prima ch’ ei del tutto; cioè al tutto, non s’udisse Per l’allongarsi; cioè per la distanzia, un’altra; cioè voce: Io sono Oreste, Passò, gridando; cioè 8 la prima, et anco non s’affisse; cioè non si fermò come non si fermò la prima, perchè volava in giro. Questo Oreste, secondo che dice Tullio nel libro de la Amicizia, fu grandissimo compagno et amico di Pilade; e così Pilade d’Oreste in tanto, che secondo che finge Pacuvio 9 poeta, essendo accusato Oreste innanti al re del maleficio commesso (e credo che questo fusse quando uccise Pirro filliuolo d’Achille, perchè li avea levato Ermione ch’era stata promessa a lui per donna prima che a Pirro, per lo quale dovea perdere la persona) dimandando lo re quale di loro du’ fusse Oreste: imperò che amburo li erano dinanti et elli non cognoscea, dicea Pilade ch’ elli era Oreste, per campare lui e morire in suo scambio; et Oreste contendea e dicea anco: Sono io Oreste, perchè Pilade non morisse. Ecco perfetto amore, lo quale l’autore finge che sia ricordato sopra ’l balso dell’invidiosi, per inducerli a carità et amore. O; questa è interiezione che significa ammirazione, diss’ io; cioè Dante, Padre; ecco che chiama Virgilio padre, e dimandalo, che voci son queste; le quali io odo? E come dimandai, ecco la terza; cioè voce uditti ancora che passava, Dicendo: Amate da cui male aveste; de le ditte due voci io Dante. Questo è scritto ne l’Evangelio di santo Matteo: Diligite inimicos vestros; ecco che finge che questo dica lo spirito, per accenderli a carità perfetta, che se debbiamo amare l’inimici, molto maggiormente li amici, e coloro che non ci ànno offeso.

C. XIII — v. 37-48. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come elli, dimandato 10 Virgilio de le sudette tre voci, ebbe risposta da Virgilio dichiarativa de le ditte voci, dicendo: E il buon Maestro; cioè Virgilio, disse a me Dante: Questo cinghio; cioè secondo balso del purgatorio, sferza; cioè batte e punisce co la fersa de la iustizia di Dio, La colpa de la invidia: imperò che tale peccato finge l’autore che si purghi in questo secondo balzo. Del peccato de la invidia fu trattato per me ne la prima cantica, e però chi vuole ciò vedere, ritrovilo quive; et è invidia odio dell’altrui felicità; o volliamo de l’altrui felicità in de la mente d’alcuno innata tristizia. e però sono Tratte d’amor le corde de la ferza; la invidia: è peccato [p. 306 modifica]contra la carità del prossimo: imperò che lo invidioso è tristo del bene del prossimo; e però Co la carità si purga che è esser lieto del bene del prossimo, e pero chi vuole purgarsi de la invidia dè procacciare d’avere in sè carità. Lo fren vuol esser del contrario sono: a la purgazione del peccato si richiedeno due cose; cioè l’una che raffreni lo scorrimento nel peccato e la incitazione che muova a la virtù contraria; e però la incitazione è posta; cioè lo bene de la carità, in quelle tre voci ditte di sopra, e lo freno seranno li mali che sono seguiti de la invidia, e di questi dirà di sotto. Credo che l’ udirai; cioè le parole che raffrenano sì fatto peccato, per lo mio avviso: dice Virgilio a Dante, Prima che vegni al passo del perdono; cioè prima che vegni a la scala da montare all’altro balso, dove si cancella lo peccato de la invidia. Ma ficca il viso; cioè tu, Dante, dice Virgilio, per l’ aire ben fiso; cioè ben fermo lo tuo vedere 11 per l’aire E vedrai; tu, Dante, gente innanzi a noi sedersi; ecco lo modo del purgamento de la invidia, che si purga sedendo, E ciaschedun lungo la grotta assiso; cioè fermo a sedere lungo ’l monte. Allora; cioè quando Virgilio disse cusì, più che prima li occhi apersi; cioè io Dante, Guarda’mi inanzi; cioè Virgilio m’avea ditto, e viddi ombre con manti; cioè con mantelli addosso, Al color de la pietra non diversi; cioè lividi come era lo monte. Et è qui da notare lo modo, che l’autore finge che tegnano coloro che si purgano de la invidia: imperò che finge che stiano a sedere al lato a la grotta colli occhi chiusi, cuciti col filo di ferro, con mantelli lividi come la petrina, col cilicio in dosso, sotto ’l manto, appoggiati a la grotta e l’uno 12 la spalla all’altro, e che delli occhi scoppino lagrime continue e che gridino e cantino le letanie. Queste sono nove condizione 13 che conviene avere a chi si vuole purgare del peccato de la invidia; prima, che [p. 307 modifica]sia ferma a sedere, cioè che non vada discorrendo e veggendo cosa che ’l potesse muovere ad invidia; appresso, che sia appoggiato al monte livido et a la pietra dura de la penitenzia che si conviene al peccato de la invidia; appresso, ch’ elli regga lo capo in su la spalla delli altri invidiosi e sia retto da loro, cioè ch’elli corregga di tal vizio il prossimo suo invidioso e lassisi correggere; appresso, li conviene avere li occhi cuciti col filo di ferro, cioè con fortessa d’animo e duressa, cioè che più non apra li occhi suoi a vedere cosa che lo potesse muovere ad invidia; appresso, che porti lo cilizio a le carni, cioè che abbia pungimento del peccato suo continuo, sentendo la freddura la quale è stata in lui privato di carita sì, come lo cilizio punge continuamente chi lo porta, et è freddo; appresso, che delli occhi continuamente gocciulino lagrime che significano la contrizione del cuore, che continuamente dè avere in fin che sia sodisfatto per lo peccato; appresso, che abbia l’ammanto di sopra di colore livido come è la petrigna del monte che significa lo peccato della invidia, che dè essere cavato del cuore 14 co la revelazione de la bocca e manifestato al confessore, et anco all’altre persone, sicché pillino buono esemplo di loro, lo quale dè coprire lo cilicio: imperò che la confessione e manifestazione del peccato dè essere di fuora e la compunzione d’entro; e questo che gridano cantando le letanie significa che si debeno 15 mostrare corretti ad ogni uno del suo peccato, desiderando e chiamando l’aiuto de l’orazione dei santi per tutti, siccome prima erano stati dolenti del bene altrui e lieti del male; così ora dimostrino l’opposito; e questo anco si dichiarerà mellio, quando toccheremo le parti. E benché l’autore litteralmente dica questo di quelli del purgatorio; allegoricamente intende di quelli del mondo, come mostrato è.

C. XIII — v. 49-66. In questi sei ternari lo nostro autore finge come, fatto avveduto da Virgilio, andato più innanti, vidde li modi come si purgavano li invidiosi più chiaramente che non avea veduto infine a quive; e però dice: E poi che fummo un pogo più avanti; cioè Virgilio et io Dante andati, Udia; io Dante; et anco puoe dir lo testo: Udi 16 gridar; a quelle anime: Maria, óra per noi; cioè invidiosi peccatori; e così dimostra l’autore che la invidia si dè cessare da lo invidioso e dèsi tornare ad amore e carità. Ora, Michael; cioè santo Michaele Arcangelo, e Pietro; cioè santo Pietro e tutti i Santi; cioè orino per noi; e così mostra che cantassero le letanie, che avendo pur detto Maria, óra per noi, si potea intendere per l’ultima parte dell’Ave Maria; cioè Santa Maria, óra per noi. Non credo [p. 308 modifica]dice l’autore, che per terra vada ancoi; cioè anche oggi, Uomo sì duro; cioè sì crudele, che non fusse punto Da compassion; a quelli sì fatti peccatori, di quel ch’io viddi poi; che quil ch’è ditto di sopra io uditti. Chè quando fui sì presso di lor giunto; cioè a quelle anime io Dante e Virgilio, Che li atti loro; cioè di quelle anime, a me venivan certi; cioè a me Dante venivano manifesti, Per li occhi; cioè miei, fui da grave dolor munto; cioè premuto: come si preme lo latte da le puppule delli animali; così fui munto per li occhi miei lagrime per grave dolore ch’io ebbi de la loro pena, avendo loro compassione. Di vil ciliccio mi parean coperti; cioè che eran vestiti di ciliccio che si fa di setole di cavallo annodate; li quali nodi pungeno continuamente la carne, et è freddissimo a tenere in dosso: imperò che è fatto a mallie come la rete; e questo si conviene a l’invidiosi che sono stati freddi de l’amore del prossimo: de la quale cosa arricordandosi sempre, siano punti dai rimordimento de la coscienzia. E l’un; cioè di loro, sofferia; cioè sostenea, l’altro; che li era da lato, in su la spalla; sopportando la sua pena et aiutandolela a sopportare col buono conforto, E tutti da la ripa eran sofferti; cioè che tutti s’appoggiavano a la ripa; cioè che l’uno dè correggere l’altro deili invidiosi quando sono venuti a lo stato de la penitenzia, et accostarsi a la pietra dura de la penitenzia e forte di proposito di non raccadervi. Così li ciechi; qui induce una propria similitudine dei ciechi che stanno ad accattare, dicendo: Così li ciechi, a cui; cioè ai quali, la roba falla; cioè viene meno, che sono poveri, Stanno ai perdoni; cioè de le chiese, dove vanno le persone per li perdoni, a chieder lor bisogna 17; cioè ad accattare per lo loro bisogno, appoggiati l’uno a l’altro, et appoggiati ai muri. E l’uno il capo sovra l’altro avvalla; cioè inchina, Perchè in altrui pietà tosto si pogna; cioè per muovere a pietà e compassione, Non pur per lo sonar de le parole; le quali elli diceno, addimandando le limosine, Ma per la vista; cioè per l’atto di fuori, che non meno agogna; cioè non meno parla, che le parole.

C. XIII — v. 67-78. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come elli vidde che quelle anime di quil balso erano colli occhi chiusi, e però prese consillio con Virgilio di farsi cognoscere ad alcuno; e come Virgilio lo consilliò del sì, dicendo: E come alli orbi; cioè a coloro che sono ciechi, non approda il Sole; cioè non s’approssima la luce del Sole: imperò che non la possano vedere, e così non ne pilliano diletto, nè consolazione; e però si può dire che non s’approssimi loro, Così all’ombre; cioè all’anime de li invidiosi, [p. 309 modifica]quivi; cioè in quil luogo, ond’io; cioè del quale luogo, parlo ora; cioè avale, Luce del Ciel di sè largir non vole; cioè che non si lassa loro vedere; e questo è per purgazione del loro peccato: imperò che ben merita d’essere privato de la luce 18 del cielo chi à preso dispiacere del bene altrui; e questo è conveniente alla lettora 19. Puòsi intendere ancora che Iddio, che è luce del cielo, non si lassa loro vedere, infine che non sono purgati del loro peccato; e questo è milliore intelletto. Allegoricamente si dè intendere che la grazia di Dio illuminante, per la quale l’omo possa vedere lo bene del prossimo suo con allegressa e non tristandosene, come fa lo invidioso, non si vuole dare a chi è cieco che si duole del bene del prossimo, in fine a tanto che non è purgato di tale peccato co la penitenzia; poi ch’è purgato di tale peccato co la penitenzia, aperse li 20 occhi de la ragione e de lo intelletto, sicchè la grazia di Dio lo inlumina, sicché possa poi vedere lo bene del prossimo con allegressa. Chè a tutti; cioè quelli peccatori, un fil di ferro il cillio fora: cillio propiamente si chiama quive dove sono le lappule, che quello dove sono li peli si chiama sopracillio, E cucesi; cioè l’uno cillio coll’altro, come a sparvier silvaggio; cioè salvatico, Si fa; cioè si cuce: però che queto non dimora: così l’invidiosi debbeno tenere cuciti li occhi, per non vedere quello che li debbia muovere ad invidia, infine a tanto che non sono ben purgati del peccato, poi che l’animo loro non sta cheto a quil che Dio vuole fare alli altri omini dei suoi beni; e dè essere questo legame duro e forte com’è lo ferro, sicchè non s’aprino a vedere quello che è loro nocivo. A me; cioè Dante, parea andando, per quel luogo, fare oltraggio; cioè contra ragione, Veggendo altrui; com’io vedea, andando per quil luogo, non essendo veduto; cioè da quelle anime che aveano cucito li occhi, Per ch’io; cioè per la qual cosa io, mi volsi al mio Consillio saggio; cioè a Virgilio che significa la ragione, come ditto è. Ben sapea el; cioè elli Virgilio, che volea dir lo muto: la sensualità è mutula per rispetto de la ragione. E tocca qui l’autore latentemente l’ordine de le potenzie animali; cioè che la ragione comprende quello che la sensualità; ma la sensualità non comprende quello che la ragione, sicchè la ragione, dato che la sensualità taccia, comprende la sua potenzia. E però non attese; cioè non aspettò, mia domanda; cioè ch’io li dimandasse consillio; ma subitamente mutò consillio, dicendo ch’io parlasse breve e saviamente 21; e però dice: Ma disse; Virgilio a me Dante: Parla; tu, Dante, e sii breve et arguto; cioè sia breve la tua orazione e [p. 310 modifica]savia; e questo è notabile a chi à a parlare, che osservi queste due cose. Seguita l’altra lezione del canto xiii.
     Virgilio mi venia ec. Questa è la secunda lezione del canto xiii, ne la quale l’autore nostro finge come ricognoscesse alcuna delle anime del secondo balso del purgatorio, e parlamentasse con esse. E dividesi questa lezione in sei parti: imperò che prima l’autore nostro finge ch’elli parlasse a loro, et invitassele a manifestarsi; ne la seconda, come alcuna li rispuose correggendo lo suo dimando, quive: O frate mio ec.; ne la tersa, com’ elli prega lo spirito che si manifesti, e come elli si manifesta per nome e per patria, quive: Spirto, diss’io ec.; ne la quarta finge come esso spirito manifesta lo suo peccato e lo modo de la sua conversione, quive: E perchè tu non credi ec.; ne la quinta finge com’ella dimandò lui chi elli era, e com’ elli si manifesti a lei, e come si li proferisce, quive: Ma tu chi se’ ec.; ne la sesta finge com’ ella lo prega che la raccomandi ai parenti suoi senesi, quive: Et ella a me ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co la sposizione litterale et allegorica, o vero morale.

C. XIII — v. 79-93. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, di po’ la risposta di Virgilio elli, dimandò giunto a quelli spiriti, se alcuno ve n’era latino, dicendo cosi: Virgilio mi venia da quella banda; cioè da quello lato del monte; e però dice: De la cornice: chiama l’autore cornice lo spasso del monte talliato, onde cader si puote; come ditto è di sopra: l’autore finge che il purgatorio sia in sul monte e che sia fatto a giri intorno, sicchè lo lato di fuore è aperto, e nessuno riparo à l’altro lato a la ripa del monte. E per questo vuole significare per quelli del mondo allegoricamente, che lo stato de la penitenzia non à riparo a lo scendere o vero cadere d’essa, se non la ragione; e però finge che Virgilio li fusse da quella banda onde si potea cadere, dall’altro lato è lo monte che significa lo montare all’altessa de la penitenzia; la qual cosa richiede solo la volontà. Perchè da nulla sponda s’inghirlanda; cioè perchè non v’è nessuno riparo. Dall’altra parte; cioè del monte, che significa l’altessa de la penitenzia, m’eran le devote Ombre; cioè anime, che erano in purgatorio per purgarsi; e ben fìnge che le fusseno dal lato del monte, e stiano appoggiate a la pietra: imperò che chi è in purgatorio non può cadere de la penitenzia, e sta appoggiato a la grazia di Cristo, come dice la Santa Scrittura: Petra autem erat Christus; o ben dice devote: imperò che chi è in stato di penitenzia, viene devoto e dè essere devoto, che per l’orribile costura; cioè degli occhi che erano cuciti col filo di ferro, come ditto è di sopra, Premevan sì; le lagrime, che bagnavan le gote; piangendo per contrizione del loro peccato. Volsimi a loro; io Dante, et: O gente sigura, Incominciai; cioè feci nel mio parlare questo principio; cioè: [p. 311 modifica]O gente sigura di veder l’alto Lume; cioè Iddio, che è vero e supremo lume, Che il disio vostro solo à in sua cura; cioè che lo vostro desiderio solo cura di vedere: imperò che ogni omo desidera da vedere Iddio; unde Boezio lib. iii della Filosofica Consolazione: Est enim mentibus hominum veri boni naturaliter inserta cupiditas; e massimamente chi n’à certa speransa, come debeno avere quelli del purgatorio, Se tosto grazia risolva le schiume Di vostra coscienzia; come la schiuma significa la impurità dell’acqua, così la pone qui per la impurità de la coscienzia; cioè se tosto la grazia di Dio risolva e disfaccia la macchia del peccato rimasa ne la coscienzia: imperò che, benché l’anima sia tratta del peccato, pure rimane lorda 22 infin che non si lava et àe coscienzia de la sua fedità, sì che chiaro Per essa; cioè coscienzia; scenda de la mente il fiume: la mente umana è come una fonte unde nasce lo rivo de l’amore, lo quale, se pura e netta la trova quando passa per la coscienzia 23, e la coscienzia puro e chiaro, et essa rimane chiara e netta; se macchiata la trova, macchiato passa per la coscienzia, e la coscienzia rimane brutta e schiumosa. E questa schiuma significa la colpa del peccato che rimane ne la coscienzia, come lo invidioso che àe amato lo bene del prossimo a sè più ch’al prossimo; e per questo la 24 macchia, ch’ello dovrebbe amare al prossimo come a sè e non volerne spolliare lui per vestirne sè, o nessuno altro; e pertanto scende non netto lo fiume dell’amore per la coscienzia de la mente; ma quando questa schiuma del peccato è risoluta de la mente, allora scende da la mente e passa per essa puro. Poiché l’autore àe fitto 25 la sua osservazione, adiunge lo dimando dicendo: Ditemi (che mi fi’ grazioso e caro) S’anima è qui tra voi che sia latina: lo nostro autore era intrato a purgarsi del peccato de la invidia, se alcuna macchia n’avea; sì che già purgatone, grazioso li era e caro cognoscere li suoi latini esser degni d’esser posti in tale luogo; e perchè chi elli vi vuole inducere non è persona nota dalli autori, però finge ch’elli si nomini e ch’elli la induca a nominarsi. E forsi lei; cioè a sè, serà buon s’io l’apparo: imperò che io la farò nota nel mio libro e recherolla a la memoria ad altrui, sicchè forsi serà pregato Iddio per lei.

C. XIII — v. 94-102. In questi tre ternari lo nostro autore finge come a la dimanda sua fu risposto, e come fu corretta la sua dimanda dal rispondente, dicendo così: O frate mio; questo è nome di carità et amore; disse lo rispondente a Dante: ciascuna; anima, è cittadina D’una vera città; cioè di vita eterna; dice l’Apostolo: Non [p. 312 modifica]habemus hic manentem civitatem; sed futuram inquirimus. — ma tu; cioè Dante, che tu dimandi, vuoi dire; parlando corretto, Che vivesse in Italia peregrina; cioè come peregrina; e però quando tu dicesti se era tra noi anima che sia latina, non dicesti proprio, dovei dire, come ditto è: imperò che santo Agostino dice: Omnis homo, qui ad supernam pertinet civitatem, peregrinus est mundo; et dum temporali utitur vita, in patria vivit aliena etc. — Questo; che ditto è, mi parve; cioè a me Dante, per risposta udire Più inanti alquanto, che là dov’io stava; cioè che chi rispuose era più innanti, che quive n’era Dante, Et io mi fei ancor più là sentire; cioè fecimi più innanti, dimandando chi era lo rispondente. Tra l’altre viddi; io Dante, un’ombra, ch’ aspettava; cioè ch’io mi facesse inanti, In vista cioè all’atto della faccia, e se volesse alcun dir: Come; dice l’autore: Se alcuno volesse dire: Come dici tu, ch’ aspettava in vista? Diròtelo: Lo mento, a guisa d’orbo, in su levava: cotale atto fanno li cechi, quando aspettano; e sopra questa parte non è altro intelletto che litterale.

C. XIII — v. 103— 111. In questi tre ternari lo nostro autore finge come quello spirito ch’avea parlato, pregato da lui, si li diè a cognoscere e per nome e per origine, dicendo: Spirto, diss’io; cioè Dante, che; cioè lo quale, per salir; cioè per diventar degno di salire a vita eterna, montando di balso in balso, ti dome; cioè ti purghi del peccato de la invidia, Se tu se’ quelli che mi rispondesti; come ditto fu di sopra, Fammiti; cioè fa te a me, conto; cioè manifesto, o per loco; cioè de la tua origine, o per nome; tuo proprio. Io fui Sanese; ecco che si manifesta quanto a luogo de la sua origine, in quanto dice che fu da Siena, rispuose; cioè esso spirito, e con questi Altri; cioè che sono qui, rimendo; co la purgazione, qui cioè in questo luogo, la vita ria; cioè lo peccato ch’io commessi ne la vita, Lagrimando; cioè pregando con lagrime, a Colui; cioè Iddio, che sè ne presti; cioè conceda sè a me. Savia non fui: imperò che peccavi 26: chi è savio schifa lo vizio e ’l peccato; unde Orazio in Epistolis, epistola prima: Ad summam, sapiens uno minor est Jove: dives, Liber, honoratus, pulcher, rex denique regum ec.— , avvegna che Sapia Fossi chiamata; ecco che si nomina che ebbe nome Sapìa, e fui delli altrui danni Più lieta assai, che di ventura mia; ecco che manifesta la sua colpa; cioè che peccò per invidia, essendo lieta del male altrui più che non era del bene suo. Questa fu una donna senese, gentile donna, la quale vedendo male trattare li suoi da’ Senesi e stando in contado, perchè bene non potea stare ne la città che v’era sospetta; combattendo li Fiorentini a Colle di Valdelsa coi Senesi, vedendo la [p. 313 modifica]battallia di su una torre u’ella era, e vedendo sconfitti li Senesi dai Fiorentini, presene grandissima allegressa dicendo: Ingiù mai mi faccia Iddio lo peggio ch’elli può, ch’io non temo, perch’io ò veduto quello che sommamente desiderava. Ecco che in costei fu peccato non solamente d’invidia; ma di superbia, e però si dice che la superbia è madre de la invidia; unde l’autore non ne fa menzione qui, perché presuppone ch’ella fusse purgata del peccato de la superbia, nel primo balso: imperò che la finzione sua osserva questo ordine che, con ciò sia cosa che chi sta nel mondo e vive mondanamente, pecchi in tutti li peccati mortali per qualche modo o pogo o assai, vuole che l’anima ch’è uscita dal corpo e va a purgare li suoi peccati, prima purghi la negligenzia de la penitenzia ne la piaggia e ne la costa del monte, come ditto è, stando quive tanto, quanto è stata negligente nel mondo a venire a lo stato de la penitenzia; poi intrata nel purgatorio, si purghi nel primo balso del peccato de la superbia; poi purgata di quello, monti nel secondo e purghisi di quello che àe peccato per invidia; poi purgato di quello, monti nel terso e purghisi di quello che àe peccato per ira; poi purgata di quello, monti nel quarto e purghisi di quello che à peccato per accidia; e poi 27 monti nel quinto e purghisi di quello che àe peccato per avarizia; poi purgata di quello, monti nel sesto e purghisi di quello che àe peccato per gola; poi purgata di quello, monti nel settimo e purghisi di quello che àe peccato per lussuria; e così purgata, monti in cima del monte, et entri nel paradiso delitiarum, dove Cristo mena seco la grande moltitudine dell’anime purgate in vita eterna. E moralmente questo ordine intende di quelli del mondo che entrano ne la penitenzia, che gradatamente si purgano di tutti li loro peccati, incominciando da’ più gravi e procedendo successivamente, infine che vegnano a lo stato de la innocenzia, nel quale fu lo primo omo creato, e mentre che stette in paradiso delitiarum, stette in tale stato; e così sono in simile stato li omini santi che sono nel mondo, benché siano poghi.

C. XIII — v. 112-129. In questi sei ternari lo nostro autore finge che quello spirito, lo quale àe introdutto a parlare di sopra, li dica lo modo e le circustanzie del suo peccato, e lo suo ritornamento a Dio, dicendo: E perchè tu; cioè Dante, non credi ch’io t’inganni; dice questa Sapìa, Odi s’io fui, com’io ti dico or, folle: stolto è chi fa contra Dio. Già descendendo l’arco de’miei anni; in queste brevi parole lo nostro autore dimostra lo processo de la vita corporale essere circulare, come è quello dell’anima: imperò che la natura pillii delli umori 28 elementari a formare lo corpo umano, essenti nel [p. 314 modifica]seme de la generazione; cioè de’ melanconici che nasceno de la terra, dei flemmatici che nasceno da l’acqua, dei collerici che nasceno del 29 fuoco, e dei sanguinei che nasceno dall’aire; et incominciando debilmente a vegetare lo corpo, con quelli a pogo a pogo cresce e sallie l’uno di’ po’ l’altro, infine che viene a l’età de la consistenzia. E questo è lo mezzo dall’arco, e poi che àe passato quella età de la consistenzia. incomincia a descendere di di’ in di’, perdendo de la vigorosità l’uno di’ più che l’altro, infine a tanto che viene a l’altra punta dell’arco, dove si risolve lo corpo per la morte e li ditti quattro umori tornano ne le ditte quattro materie, e di quinde fanno l’altro arco, salliendo infine che vegnano ne la vigorosità paterna e materna, e quinde scendeno poi a la genitura ch’è la prima punta dell’arco vitale unde si ricomincia, e così questi due archi fannobuno tondo. E per tanto lo nostro autore vuole dire che avea passato, o vero che passava allora l’età de la consistenzia, che era già passata li 35 anni. Eran li cittadin miei; cioè li Senesi, presso a Colle; cioè di Valdelsa, dove fu la battallia, In campo giunti; cioè per combattere, coi loro avversari; cioè coi Fiorentini, Et io pregava; dice questo spirito, Iddio di quel che volle; cioè che i Senesi perdesseno. Rotti for quivi; cioè li Senesi, e volti ne li amari Passi di fuga: quanto siano amari li passi de la fuga e pieni di quanta angoscia chi li à provati lo sa, e vedendo la caccia; data loro dai Fiorentini, Letizia presi; io Sapìa, a tutte altre dispari; cioè che fu maggiore, che tutte l’altre ch’io avea avuto, Tanto, ch’io; Sapìa, volsi in su; cioè in verso ’l cielo, l’ardita faccia; mia, Gridando a Dio: Omai più non ti temo; ecco le superbe parole che usò, et in queste non stette la invidia; ma ne la letizia che prese del male dei suoi cittadini, Come fa il merlo; questo è uno uccello che teme molto lo freddo, e mal tempo, e quando è mal tempo sta appiattato; e come ritorna lo bono tempo, esce fuora e par che faccia beffe di tutti li altri, come si finge che dicesse ne la faula di lui composta; cioè: Non ti temo, Domine, che uscito son del verno; e però dice: per poca bonaccia; ch’elli à del tempo buono, che poco dura lo verno. Pace volsi con Dio; io Sapìa mi volsi riconciliare con Dio, in su l’estremo; cioè in su l’ultimo, De la mia vita; quando venni a morte, et ancor non serebbe Lo mio dover; cioè la mia offensa che io avea fatto verso Iddio, per penitenzia scemo; cioè mancato: non è tanto ch’io moritti, ch’io avesse ancora purgato la superbia, la quale io abbo passato, Se ciò non fusse, che a memoria m’ebbe Pier Pettinaro; questo fu omo di grande penitenzia fiorentino, devoto et [p. 315 modifica]amico di questa donna, unde pregò molto Iddio per lei; sicchè dimostra che per le suoe orazioni li fussi abbreviato lo tempo de la penitenzia, e però dice: in suoe sante orazioni; che fece per me, A cui; cioè al quale Piero Pettinaro, di me per carità rincrebbe: la carità del prossimo ci muove ad avere compassione al prossimo, che è appenato.

C. XIII — v. 130-138. In questi tre ternari lo nostro autore finge come la ditta anima lo dimandò chi elli era, e com’elli si li manifesta, dicendo: Ma tu chi se’; disse Sapìa a Dante, che nostre condizioni; cioè di noi, che ci purghiamo del peccato de la invidia, Vai dimandando; come apparve di sopra, e porti li occhi sciolti; questo dicea per rispetto di loro, che li aveano cuciti col filo del ferro, Sì come io credo; questo dice, per confirmare la finzione d’avere cucito li occhi: imperò che non vedea; parlava per credenzia, e spirando ragioni? Per questo significa che era vivo, secondo che apprendea Sapìa per l’audito, che l’udiva fiatare. Li occhi mi fino ancor, diss’io, qui tolti; ecco che l’autore si manifesta avere colpa nel peccato de la invidia, in quanto dice che li occhi li fino ancora quive; cioè in quil balso, tolti; ma dice che piccula colpa n’ avea, e però dice: Ma piccol tempo: imperò che, secondo la grandezza de la colpa, dura lo tempo de la pena: chè poca è l’offesa; ecco che ne rende la cagione: imperò che pogo n’avea offeso nel peccato de la invidia, Fatta, per esser con invidia volti; cioè li miei occhi volti per invidia non ànno fatto molta offesa; ma poca. Troppa è più la paura; ecco che manifesta d’ avere molto peccato più in superbia, ond’ è sospesa; cioè è sollicitata e sta in dubbio di potere portare quel carico, ch’io aspetto di portare, L’ anima mia, del tormento di sotto; cioè del primo balso, dove si purgano li superbi, Che già lo carco di laggiù mi pesa; cioè lo carico ch’ io aspetto di portare, quando serò morto, in sul capo per la mia superbia, già m’incresce e dà tormento a l’anima mia, come se io l’avessi addosso. E qui si può muovere uno dubbio; cioè come aspetta d’essere anco purgato de’ suoi peccati, che finge che ora si purghi di ciascuno, secondo che monta di balso in balso; et anco l’angiulo che ’l misse dentro a la porta, che li scrisse 7 P ne la fronte, li disse: Fa che lavi, Quando se’ dentro, queste piaghe, dunque monstrebbe che du’ volte dovesse essere purgato di quelli peccati, che serebbe contra la iustizia di Dio? A che si può rispondere che, come detto è, benchè l’autore, secondo la lettera paia parlare de la purgazione che fa l’anima separata dal corpo; allegoricamente intende di quella che fa l’anima unita col corpo, la quale al meno vasta a purgarci da la colpa, se non si facesse già eccessivamente che purgasse ancora de la pena, et assolvesse; e per tale modo finge l’autore di purgarsi ora da la colpa; ma di po’ la sua vita [p. 316 modifica]afferma sè dovere sodisfare 30 ora in tutto, nè si dovere vivere per innansi che niente resti a sodisfare.

C. XIII— v. 139-154. In questi cinque ternari et uno versetto lo nostro autore finge come Sapìa lo dimanda de la guida sua, e come elli li risponde, e come ella lo prega che preghi per lei e che porti buone novelle ai suoi di lei; et all’ultimo tocca lo vizio comune de’ Senesi, dicendo così: Et ella; cioè Sapìa, dicendo così, disse: a me; cioè Dante: Chi t’à donque condotto; cioè chi è stato tua guida a menarti, Quassù tra noi; cioè in questo balso, se giù ritornar credi; cioè nel balso primo de la superbia? Et io; cioè Dante, rispuosi: Costui ch’è meco; cioè Virgilio, e non fa motto: però che secondo la lettera non è introdutto in questo ragionamento a parlare Virgilio. E vivo sono; dice Dante di sè, e però mi richiedi, Spirito eletto; ecco che si proferisce a Sapìa, e chiamalo Spirito eletto, perchè chi è in purgatorio è de li eletti, se tu vuoi ch’io mova Di là per te ancor li mortal piedi; cioè se tu vuoi ch’io vada per te ad alcun luogo: e dice mortal piedi, a denotare che anco non era morto. Oh! questa è sì ad audir cosa nova; questo Oh è intergezione che significa ammirazione, e però la pone a denotare che Sapìa si meravilliò di ciò, che Dante fusse vivo ancora et andasse per lo purgatorio e dovesse anco tornare al mondo, Rispuose; cioè Sapìa, che gran segno è che Dio t’ami: però che, se non fossi ne la grazia di Dio, non potresti far questo. Però col prego tuo talor mi giova; cioè aiutami alcuna volta col tuo prego che fi’ 31 valevile, che Dio esaudisce li preghi di coloro che sono in sua grazia. E chieggioti; io Sapìa, per quel che tu più brami; ecco l’osservazione, Se mai calchi più terra di Toscana; cioè se mai ritorni più in Toscana, Che a’ miei propinqui; cioè ai miei parenti senesi, tu ben mi rinfami; cioè mi dii buona fama, dicendo loro dove tu m’ ài trovata, che forsi credeno ch’io sia in perdizione. Tu; cioè Dante, li vedrai; cioè li miei parenti, tra quella gente vana; cioè senese: perchè sia detta vana fu dichiarato ne la prima cantica nei canto xxix, Che spera in Talamone: Talamone è uno castello in sul mare dov’è lo porto chiamo 32 lo porto a Talamone, et è de’ Senesi: nel quale porto li Senesi ànno grande speransa, gredendo 33 per quello di venire grandi omini in mare, forsi come li Genovesi o li Veneziani; ma quello porto è poco usato, perchè non è in buono sito di mare et è in fermo et è molto di lunge da Siena, sicché mercanzie non v’ànno corso; e però adiunge l’autore: e perderalli; cioè la gente senese in quil porto Talamone, Più di speranza; ecco la vanità; avere [p. 317 modifica]speransa ne le cose, in che non è d’avere speransa, ch’a trovar Diana; questa Diana è un’acqua, o vero fonte, o vero fiume che li Senesi diceno che corre sotto terra sotto Siena; e più volte ànno fatto cavare per trovarla ora in uno luogo, ora in uno altro, perchè ànno speransa da 34 trovarla, et ànnovi perduto molta speransa; ma più ne perderanno in Talamone, che non ànno perduto in trovare Diana. Ma più vi perderanno li ammiralli: ammiralli si chiamano li capitani dell’armate de le galere, quando ànno sotto di loro da 26 35 galee in suso; sicchè l’autore vuole dire che in Siena sono molti cittadini che sperano ancora che Siena debbia fare armate di galee ancora, et ellino essere chiamati ammiralli di quelle galee, sicchè elli vi perderanno più di speransa che li altri Senesi non perderanno nel porto: imperò che già lo porto a’ nostri tempi è stato loro utile; ma inai non armonno pure una galea di loro. E qui finisce lo canto xiii.

Note

  1. Il Codice Estense e l’Edizione Vindeliniana variano cosi: rilega Lo monte. E.
  2. Col livido color; come il livido colore, usata la preposizione con alla guisa de’ Latini, i quali talvolta le facevano prendere gli uffici della somiglianza. E.
  3. Vederebbeno, voce primitiva e regolare dall’infinito vedere. E.
  4. Avavamo; avevamo. I verbi della seconda e terza coniugazione presero nelle prime persone plurali il finimento della prima; e quindi ebbesi corravamo, leggiavamo ec. E.
  5. C. M. e turbasi
  6. C. M. ecco la carità dell’ Evangelio
  7. C. M. di tutti esempli di perfetta
  8. C. M. gridando; come la prima,
  9. C. M. Pacunio
  10. C. M. da Virgilio delle suprascritte tre voci,
  11. C. M. vedere mette per l’ aire
  12. C. M. l’ uno col capo in su la spalla
  13. C. M. condizioni, le quali secondo la lettera si convegnano a coloro che sono in purgatorio per pena della colpa commessa. Prima, che stiano a sedere perchè sono andati ad investigare la felicità del prossimo dolendosene, e la miseria rallegrandosene; appoggiati a la pietra livida, perchè sono stati duri e freddi di carità inverso il prossimo; col capo in su la spalla l’ uno a l’altro in ristoro di quello che non ànno volsuto fare nel mondo, che non ànno sostenuto lo prossimo, anche aiutatolo a cadere; con li occhi cuciti col filo di ferro, perchè sempre nel mondo ànno avvisato lo bene del prossimo con freddezza di carità, e ’l male con dureza d’animo non avendo compassione; ma essendone lieti; col cillicio a le carni, cioè con la puntura della coscienzia che arricordi la freddezza loro continuamente; con le lagrime per mostrare la contrizione del cuore; con l’ammanto livido per manifestare quello che ànno tenuto occulto nel cuore, cioè l’ odio e la tristizia del bene del prossimo; cantano le letanie, per sconto del maladire di pregare male nel mondo a coloro i quali ànno invidiato. E queste viiii condizioni allegoricamente conviene avere chi si vuole purgare del peccato della invidia;
  14. Da - la petrigna - a - del cuore - è correzione sul Cod. Magliab. E.
  15. Debeno; da debere. E.
  16. Udi; udi’ o udii, come adoperavasi in antico. E.
  17. Bisogna; bisogno, come dimanda e dimando. In Frate Guidotto da Bologna si à «per la bisogna di tutto giorno parlare». E.
  18. Si è aggiunto - del cielo - sino alla fine del periodo, colla scorta del Magliabechiano. E.
  19. Lettora; lettera, rinviensi talora nei nostri antichi. E.
  20. C. M. co la penitenzia apresi li occhi
  21. C. M. suavemente;
  22. C. M. lorda e brutta infin
  23. C. M. coscienzia scende per la coscienzia
  24. C. M. lo macchia,
  25. C. M. à fatto
  26. Peccavi; peccai, come givi a pag. 270 di questo Volume. E.
  27. C. M. poi purgata di quello, monti
  28. C. M. delli omini elementari
  29. C. M. nasceno de l’aire, e de’ sanguinei che nasceno del fuoco; et incominciando debilemente
  30. C. M. sodisfare ai suoi peccati con la pena purgatoria, non sentendosi da potere ora sodisfare in tutto,
  31. Fi’: fie, sarà. Vedi in questo stesso Tomo a facc. 57. E.
  32. C. M. chiamato
  33. C. M. credendo
  34. C. M. speranza di
  35. C. M. sotto loro da xxv galee
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