Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto VI
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto sesto
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C A N T O VI.
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1Quando si parte il gioco de la zara,
Colui che perde si riman dolente,
Ripetendo le volte, e tristo impara.
4Coll’altro se ne va tutta la gente;
Qual va d’inanzi, e qual di rieto il prende,
E qual da lato li si reca a mente.
7El non s’arresta, e questo e quello intende:
A cui porge la man più non s’appressa;1
E così da la turba si difende.2
10Tale era io in quella turba spessa,
Volgendo a loro e qua e là la faccia,
E promettendo me sciogliea da essa.
13Quivi era l’Aretin, che da le braccia
Fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
E l’altro che annegò correndo in caccia.3
16Quivi pregava co le mani sporte
Federico Novello, e quel da Pisa,
Che fe parer lo buon Marzucco forte.
19Vidi il conte Orso, e l’anima divisa
Dal corpo suo per astio e per inveggia,
Com’ei dicea, non per colpa commisa;
22Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
Mentre è di qua, la donna di Brabante,
Sì che però non sia di peggior greggia.
25Come libero fui da tutte quante
Quell'ombre, che pregar pur ch’altri preghi,
Sì che s’avacci lor divenir sante,4
28Io cominciai: Ei par che tu mi neghi,
O Luce mia, espresso in alcun testo,
Che decreto del Ciel orazion pieghi;
31E questa gente prega pur di questo.
Sarebbe dunqua loro speme vana?
O non m’ è ’l ditto tuo ben manifesto?
34Et elli a me: La mia scrittura è piana,
E la speranza di costor non falla,
Se ben si guarda co la mente sana:
37Chè cima di giudicio non s’avvalla,
Perchè foco d’amor compia in un punto
Ciò che dè sodisfar chi qui si stalla.5
40E là dov’io fermai cotesto punto,
Non s‘ammendava, per pregar, difetto,
Perchè il prego da Dio era disgiunto.
43Veramente a così alto sospetto
Non ti fermar, se quella non tel dice,6
Che lume siè tra il vero e lo intelletto.
46Non so se intendi; io dico di Beatrice:
Tu la vedrai di sopra, in su la vetta
Di questo monte, ridente e felice.7
49Et io: Signor, andiamo a maggior fretta:
Chè già non m’affatico come dianzi,
Or vedi omai che il poggio ombra non getta.
52Noi anderem con questo giorno innanzi,8
Rispuose, quanto più potremo omai;
Ma il fatto è d’altra forma che non stanzi.
55Prima che sia lassù, tornar vedrai
Colui che già si copre co la costa,
Sì che i suoi raggi tu romper non fai.
58Ma vedi là un’ anima, che posta910
Sola soletta in verso noi riguarda:10
Quella ne insegnerà la via più tosta.
61Venimmo a lei: O anima lombarda,
Come tu stai altiera e disdegnosa,
E nel muover delli occhi onesta e tarda!
64Ella non ci dicea alcuna cosa;
Ma lassavano gir, solo sguardando11
A guisa di leon, quando si posa.
67Pur Virgilio si trasse a lei pregando,
Che ne mostrasse la millior sallita;
Ma quella non rispuose al suo dimando,
70Ma di nostro paese, e de la vita
Ci chiese. E il dolce Duca incominciava:
Mantova...; e l’ombra, tutta in sè romita,
73Surse ver lui del luogo ove pria stava,
Dicendo: Mantovano, io son Sordello
De la tua terra; e l’un l’altro abbracciava.
76Ahi serva Italia, di dolor ostello,
Nave senza nocchiero in gran tempesta,
Non donna di province; ma bordello!
79Quell’anima gentil fu così presta,
Sol per lo dolce suon de la sua terra,
Di far al cittadin suo quivi festa:
82Ora in te non stanno senza guerra12
Li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
Di quei che un muro et una fossa serra.
85Cerca, misera, intorno da le prode
Le tuoe marine, e poi ti guarda in seno,
Se alcuna parte in te di pace gode.
88Che vai, perchè ti rassettasse il freno13
Giustiniano, se la sella è vota?
Senz’esso fora la vergogna meno.
91Ahi gente, che dovresti esser devota,
E lassar seder Cesari in la sella,14
Se bene intendi ciò che Dio ti nota!
94Guarda com’esta fera è fatta fella,
Per non esser corretta da li sproni,
Poi che ponesti mano a la predella,
97O Alberto Tedesco, che abbandoni
Costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
E dovresti inforcar li suoi arcioni.
100Giusto giudicio da le stelle caggia
Sovra il tuo sangue, e sia nuovo et aperto,
Sì che il tuo successor temenzia n’aggia:15
103Chè avete tu e il tuo padre sofferto,16
Per cupidezza di costà distretti,17
Che il giardin dello imperio sia diserto.
106Viene a veder Montecchi e Cappelletti,18
Monaldi e Filippeschi, uom senza cura;
Color già tristi, e questi coi sospetti.
109Vien, crudel, vieni e vedi la pressura
Dei tuoi gentili, e cura lor magagne,
E vedrai Santafior com’è sicura.
112Viene a veder la tua Roma che piagne,18
Vedova, e sola e di’ e notte chiama:
Cesare mio, perchè non m’accompagne?
115Viene a veder la gente quanto s’ama;18
E se nulla di noi pietà ti move,
A vergognar ti vien de la tua fama.
118E se licito m'è, o sommo Giove,
Che fosti in terra per noi crocifìsso,
Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
121O è preparazion, che ne l’abisso
Del tuo consillio fai per alcun bene
In tutto da l’accorger nostro scisso?
124Chè le città d’Italia tutte piene
Son di tiranni, et un Marcel diventa19
Ogni villan che parteggiando viene.
127Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
Di questa disgression, che non ti tocca,20
Mercè del popol tuo, che si argomenta.
130Molti àn giustizia in cuor, e tardi scocca,21
Per non venir senza giustizia all’arco;22
Ma il popol tuo l’à in sommo de la bocca.
133Molti rifiutan lo comune incarco;
Ma il popol tuo sollicito risponde
Senza chiamar, e grida: Io mi sobbarco.23
136Or ti fa lieta: chè tu ài bene onde:
Tu ricca, tu con pace, tu con senno.
S'io dico ver, l’effetto nol nasconde.
139Atene e Lacedemona, che fenno
Le antiche leggi, e fuoron sì civili,
Fecero al viver ben un picciol cenno
142Verso di te, che fai tanto sottili
Provedimenti, che a mezzo novembre
Non giunge quel che tu d’ottobre fili.
145Quante volte nel tempo che rimembre,
Legge, monete, et offici, e costume
Ài tu mutato, e rinnovato membre?
148E se ben ti ricordi, e vedi lume,24
Vedrai te similliante a quella inferma,
Che non può trovar posa in su le piume;
151Ma con dar volta suo dolore scherma.25
- ↑ v. 8. C. M. e C. A. non fa pressa;
- ↑ v. 9. C. M. dalla carca si difende.
- ↑ v. 15. C. A. fuggendo.
- ↑ v. 27. C. A. in lor
- ↑ v. 39. C. A. s’astalla,
- ↑ v. 44. C. A. noi ti dice,
- ↑ v. 48. C. A. ridere e
- ↑ v. 52. Anderemo, anderò, anderei ec. voci comuni tra i Toscani e più naturali e più dolci delle sincopate andrò, andrai ec. E.
- ↑ v. 58. C. M. che è posta
- ↑ 10,0 10,1 v. 58, 59. C. A. che à posta Sola soletta, e verso
- ↑ v. 65. C. A. solo guardando
- ↑ v. 82. C. A. Ed ora
- ↑ v. 88. C. A. raccioncasse
- ↑ v. 92. Cesari. I nostri antichi davano anche ai nomi propri una diversa desinenza, come Cesare, Cesari; Fiesole, Fiesoli; Rimino, Rimini ec. E.
- ↑ v. 102. Aggia; oggi l’uso preferisce abbia, quantunque al poeta non si disdica neppure la prima, nata da aiere mutato in due gg l’i. E.
- ↑ v. 103. C. A. e il tuo sangue
- ↑ v. 104. C. M. Per cupidigia di costei distretti
- ↑ 18,0 18,1 18,2 vv. 106. 112. 115. C. M. Vieni
- ↑ v. 125. C. A. ed un Metel
- ↑ v. 128. C. A. che ci
- ↑ v. 130. C. A. ma tardi
- ↑ v. 131. C. A. senza consiglio
- ↑ v. 135. C. A. e dice:
- ↑ v. 148. C. A. Me se ben ti ricorda,
- ↑ v. 151. Scherma; da schermare, verbo dalla terza coniugazione ridotto alla seconda, come spesso costumavano i padri di nostra lingua. E.
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C O M M E N T O
Quando si parte il gioco de la zara ec. In questo canto sesto lo nostro autore continua de la preditta materia; cioè di quelli che ànno indugiato la penitenzia infine a la lor morte violenta, che sono stati morti; et incomincia a trattare de la penultima condizione, cioè di coloro che, occupati a le cure de le familie et alle scienzie, ànno indugiato la loro penitenzia o alcuno tempo, o infine a la fine de la vita. E dividesi questo canto principalmente in due parti: imperò che prima pone lo compimento de la precedente condizione, et incomincia a trattare de la penultima; ne la seconda parte fa l’autore una disgressione, ponendo una sua invettiva, o vero esclamazione contra più persone come apparerà in essa, et incomincia quive: Ahi serva Italia, ec. La prima parte, che serà la prima lezione, si divide in sei parti: imperò che prima pone come tutte quelle anime de la detta condizione; cioè che aveano indugiato la loro penitenzia infine a la morte violenta, che li erano intorno, lo richiedeano che le raccordasse ai suoi; e com’elli a tutte promettea, e così si spacciava da loro; et induce a ciò una bella similitudine; ne la seconda nomina alquanti di quelli, quive: Quivi era ec.; ne la terza pone com’elli mosse uno dubbio a Virgilio, quive: Come libero fui ec.; ne la quarta pone come Virgilio lo solve, quive: Et elli a me: ec.; ne la quinta pone come elli, diventato sollicito, conforta Virgilio dell’andare a la quinta condizione dei negligenti, e come Virgilio li risponde a questo conforto e mostrali un’anima de la quinta condizione; e così esce de la preditta condizione quarta et entra ne la quinta, quive: Et io: Signor, ec.; ne la sesta et ultima pone come andonno a quell’anima a dimandare de la via, et intrò Virgilio a parlamentare co lei, quive: Venimmo a lei: ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’allegorie e moralitadi.
C. VI — v. 1-12. In questi quattro ternari, primi del canto sesto, lo nostro autore facendo et inducendo una similitudine, finge come quelle animo de la condizione ditta di sopra, che li erano d’intorno, lo pregavano ch’elli le raccordasse ai parenti; e com’elli promettendo si spacciava da loro che li faceano grande calca. Unde dice così: Quando si parte il gioco de la zara; cioè quando si partono li giocatori, che ànno giocato a zara, del tavolieri. E nota che questo giuoco si chiama zara per li punti diventati 1 che sono in tre dadi da sette in giù e da quattordici in su; e però quando vegnano quelli punti, diceno li giocatori: Zara; quàsi dica: Nulla, come zero nell’Abbaco; e questi sono vietati, perchè non ànno tre parità come à sette e quattordici e li punti che sono in quel mezzo: ecco sette àe tre parità; cioè terno et asso, cinque et ambassi di uno 2 e tre; e così quattordici, seino e dua; quaderno e sei; cinquo 3 e quattro; e così l’altre volte che sono in quel mezzo: e questo non si trova in tre, in quattro, nè in cinque, nè in sei, nè in quindeci, nè sedici, nè dicesette, nè diciotto, li quali vanno una o due al più come può vedere chi li ragguarda; et in due dadi esclusive da quattro in giù, e da diece in su, perchè non possano venire se non in uno modo, come due ambassi; e tre, due et asso; undici, sei e cinque; dodici se non in uno modo, seino: e quelli che possano venire in due modi o in più sono acettati come quattro, tre, assa e duino, e così delli altri in fine a 10 che può venire sei, quattro, e cinquo 3. Colui che perde si riman dolente; perchè à perduto, Ripetendo le volte; dicendo innanti torno tre asso che sette, che ragionevilmente più dè tornare quel punto che v’è in più modi, che quello che v’è pure in un modo o in due; ecco in du’ dadi sette v’è in tre modi; cioè quattro e tre, sei asso, cinque e du’; e quattro v’è in due modi cioè tre asso e 4 du’ uno, e così in tre dadi, e tristo impara; cioè dandosi tristizia e malancolia 5 dice: Se io avesse chiamato tal punto, arei vinto; perch’io non chiamai bene, abbo perduto; e così impara, dicendo: Un’altra volta non chiamarò così. Coll’altro; cioè con colui ch’à vinto, se ne va tutta la gente; per avere da lui qualche dono, Qual va d’inanzi; perch’elli lo vegga, e qual di rieto il prende; dicendo: A me dà qualche cosa, E qual da lato; andando co lui, li si reca a mente; dicendo: Arricordati di me, che t’aiutai a tal punto. El; cioè colui ch’à vinto, non s’arresta; cioè non sta fermo: ma va tutta via, e questo e quello intende; cioè a ciascuno dà audienzia e promette: A cui porge la man; dandoli alcuna cosa, più non s’appressa; cioè no li fa più calca, E così da la turba; calca che àe d’intorno, si difende; ad alcuni dando, et ad alcuni promettendo. Ora adatta la similitudine, dicendo: Tale era io; cioè Dante, quale è lo giocatore che à vinto, in quella turba spessa; di quelli spiriti che mi pregavano, Volgendo a loro e qua e là la faccia; attendendo ad ogni una, E promettendo; cioè di fare quel che pregavano, me sciogliea da essa; cioè mi liberava da loro: imperò che a chi io promettea si rimanea contento.
C. VI— v. 13-24. In questi quattro ternari lo nostro autore ritorna a nominare di quelli ancora, che morti per morte violenta indugionno la penitenzia infine all’ultimo de la sua vita, dei quali fu detto di sopra; e contane qui sei, come apparrà nel testo. Dice così: Quivi era l’Aretin; questi fu messer Benincasa d’Arezzo giudice, lo quale fu morto da Ghino di Tacco da Turrita 6 del contado di Siena: imperò che messer Benincasa, essendo giudice, o vero vicario del podestà di Siena, condennò uno fratello che avea nome Tirtirno 7, et uno cavalieri zio del detto Ghino di Tacco, che avea nome Tacco, ad essere dicapitati, perchè questo Ghino con certi suoi compagni, come rubatori et omini violenti, aveano tolto al comune di Siena uno castello che era in Maremma, e quive stavano e rubavano chiunqua passava per la strada, non consentendo mai lo ditto Ghino che nessuno, che n’avesse in pregione morisse, con tutto che fusse fiero e violento omo. E niente di meno non s’attenne che del detto suo fratello e zio non facesse vendetta molto fieramente: imperò che, essendo ito lo detto messer Benincasa per giudice del tribuno di Roma al tempo di papa Bonifacio, lo detto Ghino andò là et in su la sala, dove stava lo detto messere Benincasa ad audienza, al banco de la ragione l’uccise e levolli la testa e vennesene scusa niuno impedimento; e però dice l’autore che tra li sei era l’Aretino; cioè messer Benincasa d’Aresso, che; cioè lo quale, da le braccia Fiere; cioè crudeli, di Ghin di Tacco; da Siena, ebbe la morte: però che fu morto da lui, come ditto è. E l’altro che annegò correndo in caccia; questi fu uno giovano8 delli Terlati d’Aresso che ebbe nome Ciaccio lo quale a la sconfitta di Monte Aperto, o di Campaldino, fu perseguitato da quelli da Rondina; unde fuggendo, e coloro cacciando pervenne al fiume dell’Arno, e volendolo passare per paura de’ nimici che ’l perseguitavano, annegò nel detto fiume. Quivi; cioè in quel luogo, pregava co le mani sporte; cioè Dante che lo raccomandasse ai suoi, facendo l’atto co le mani, Federico Novello; questi fu filliuolo del conte Guido dei conti Guidi da Casentino, lo quale fu morto da Fumaiuolo di messer Alberto de Bostuli d‘Arezzo, e quel da Pisa; questi fu Farinata filliuolo di messer Marzucco de li Scornigiani da Pisa; lo quale messer Marzucco fu cavalliere e dottore di legge, et essendo ito in Maremma cavalcando da Suvereto a Scherlino, ne la via si fermò lo cavallo per uno ismisurato serpente, che correndo attraversò la strada, del quale lo detto messer Marzucco ebbe grandissima paura; et avvotossi di farsi frate minore, e così fece poi che campato fu del periculo, non restato mai di correre lo cavallo in fine a le porte de Scherlino9. Lo quale serpente quelli de la contrada ucciseno, poi messo nel bosco molte troie coi loro porcellini, le quale vedendosi tolliere dal serpente li loro porcellini si li aggreccionno addosso tutte insieme et ucisello10. Fatto frate lo detto messer Marzucco, avvenne caso che Farinata sopra detto suo filliuolo fu morto da uno cittadino di Pisa; unde lo detto messer Marzucco colli altri frati di Santo Francesco, andati per lo corpo del detto suo filliuolo, come usansa è, fece la predica nel capitolo a tutti consorti, mostrando con bellissime autoritadi e verissime ragioni che nel caso avvenuto non era nessuno milliore remedio che pacificarsi col nimico loro; e così ordinò poi che si fece la pace, et elli volse baciare quella mano che avea morto lo suo filliolo; e però dice lo testo, Che fe parer lo buon Marzucco forte: ne la morte del filliuolo si vidde la bontà, la costanzia e fermessa del padre. Viddi il conte Orso; cioè io Dante tra li sopra ditti viddi lo conte Orso: questi fu delli Alberti di Fiorenza e fu ucciso da’ suoi consorti, e l’anima divisa Dal corpo suo; cioè e vidd’io Dante ancora l’anima che fu divisa dal suo corpo; e questo dice: però che fu, secondo che alcuni diceno, dicapitato; e secondo alquanti appiccato, sicchè ben fu l’anima divisa dal corpo, per astio e per inveggia; cioè per invidia, Com’ei; cioè come elli stesso, dicea; a me Dante, non per colpa commisa; cioè non perch’elli avesse commesso colpa, Pier da la Broccia dico; cioè io Dante: ecco che dichiara che era costui del quale àe parlato; cioè Piero da la Broccia. Questi fu uno cavallieri di Francia lo quale fu accusato, secondo che finge Dante ch’elli dicesse, per astio e per invidia; ma non perchè vero fusse ch’elli avea adulterato co la reina di Francia; unde lo re lo fece dicapitare et accusollo la duchessa di Brabante; e però seguita: e qui proveggia; cioè et a questo provegga, parla Dante, la donna di Brabante; cioè la duchessa di Brabante: Brabante è uno ducato che confina con l’Inghilterra; la quale donna accusò lo detto cavalieri falsamente; e però l’autore l’ammonisce ch’ella si provegga, Mentre è di qua; cioè mentre che è nel mondo, Sì che però; cioè per questo peccato commesso, non pentendose11 mentre che è nel mondo, non sia di peggior greggia; cioè di piggior brigata che quella del purgatorio; cioè non sia di quelli de lo inferno. E per questo dà ad intendere l’autore che, mentre che l’omo è nel mondo si può pentire et avere remissione del peccato commesso quanto a la colpa, e potrebbene fare tanta penitenzia in questa vita che anco li sarebbe perdonato la pena; ma passando, sensa pentimento e contrizione, di questa vita è dannato a lo inferno in perpetuo: imperò che di po’ la vita non è luogo di remissione.
C. VI — v. 25-33. In questi tre ternari lo nostro autore finge come elli, mosso da le cose ditte dinansi, mosse uno dubbio a Virgilio sopra alcuno suo detto, del quale susseguentemente porrà la dichiaragione, dicendo così: Come libero fui; cioè io Dante, da tutte quante Quell’ombre; de le quali detto è di sopra, che pregar pur ch’altri preghi; cioè per loro nel mondo. acciò che s’avacci la loro purgazione; e però dice: Sì che s’avacci lor divenir sante: non diviene mai l’anima santa, infine a tanto che non è purgata dal peccato per la penitenzia, Io; cioè Dante, cominciai; a dire a Virgilio: Ei par che tu; cioè Virgilio, mi neghi; cioè a me Dante et ad ogni uno che legge l’Eneida tua; cioè nel vi libro, O Luce mia; chiama Virgilio sua luce, perchè significa la ragione che è luce de l’omo, espresso; cioè manifestamente, in alcun testo; cioè del libro preallegato, Che decreto del Ciel orazion pieghi; cioè che ’l giudicio di Dio non si muti per orazione. E cusì dice lo testo di Virgilio u’ elli dice: Desine fata Deum flecti sperare precando. Finge Virgilio che Sibilla risponda a Palinuro che pregava Enea che ’l passasse Acheronte, e dica: Rimanti di sperare che l’ordine fatale de la providenzia divina si pieghi per prego; e ben che l’autore dica che questo dubbio li vegna per lo detto di Virgilio, a ciascuno questo ditta la sua ragione: imperò che Dio è immutabile, dunqua come si muta la sua sentenzia per li preghi? E questa gente; cioè quelli che noi abbiamo ora lassati, prega pur di questo; cioè che altri preghi per loro. Sarebbe dunqua loro speme vana; cioè ingannerebbesi la loro speransa? O non m’è ’l ditto tuo ben manifesto; cioè o non intendo io bene lo tuo testo? Imperò che seguitrebbe di queste due cose l’una; cioè o che coloro sperasseno quel che non può avere effetto, e che il testo di Virgilio non volesse dire quello che pare dire. Questo dubbio è grande e non s’intende la soluzione per ogni uno, e però Virgilio ammonisce Dante, come appare di sotto, che in sì fatti dubbi sì ardui come è questo, non si fermi se non a quello che12 determina la grazia di Dio illuminante, la quale àe dichiarato questo, come appare nella santa Teologia.
C. VI — v. 34-48. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che Virgilio risponda e solva lo sopra detto dubbio, dicendo così: Et elli; cioè Virgilio disse, s’intende, a me; cioè Dante: La mia scrittura; cioè lo mio testo che detto è di sopra, è piana; cioè è chiaro ad intendere, e così è risposto all’una parte del dubbio; cioè O non m’è ’l ditto tuo ben manifesto? Quasi dica: Elli è sì chiaro che ben s’intende al modo che tu dici, e non si può intendere altramente. E la speranza di costor; che pregano ch’altri preghi per loro, non falla; cioè non è vana; ma è adimpiuta: e così si tollie l’altra parte del dubbio, Se ben si guarda co la mente sana; cioè se bene si considera co la mente savia, non piena d’errore, nè di mattia: imperò che l’una parte non contradice all’altra, come appare che si contradica Dio essere immutabile, e per prego mancarsi la pena dell’anime da essere purgate. Et adiunge la ragione; che la pena debita al peccato per ragione di iustizia non si manca, benchè s’abbrevi lo tempo: imperò che tutta quella pena che dovesse sostenere in cento anni, sostiene in un punto; e però dice: Chè cima di giudicio; cioè che l’altessa e la dirittura del giudicio di Dio, non s’avvalla; cioè non si china, nè non si torce, Perchè fuoco d’amor; cioè ardore di carità, che è in colui che prega per li passati, compia in un punto; faccia compiere in uno punto, Ciò che dè sodisfar chi qui si stalla; cioè chi è iudicato al purgatorio. Altramente si può intendere lo detto dell’autore più sottilmente che quel che è detto13 alli omini comuni; cioè de la iustizia di Dio che vede ogni cosa ab eterno, vede che per alcuno dè esser pregato con sì fatto fervore di carità che quel fervore è sofficente ad annullare, mediante la grazia di Dio, la pena di colui che è a purgare del suo peccato posto in purgatorio o in tutto o in parte; e per tanto costituisce colui a starvi per quanto resta a sodisfare: imperò che per l’avanzo è sodisfatto per lo fervore de la carità: imperò che la Santa Scrittura dice: Caritas operit multitudinem peccatorum, e secondo questo intelletto si dè ordinare lo testo. Chè cima; cioè imperò che l’altessa, di giudicio; del Giudicio Divino, non s’avvalla; cioè non s’abbassa, nè torce da la sua dirittura, Perchè foco d’amor; cioè fervore di carità, compia in un punto: imperò che in uno atamo lo può avere colui che prega per colui che si purga, Ciò che dè sodisfar chi qui si stalla; cioè colui che è ordinato a star qui in purgatorio per la Divina Giustizia. E questo è per li meriti precedenti che ànno meritato che li valliano li preghi che si faranno di po’ la morte, secondo lo Maestro14 e così si dè intendere lo testo parlando dei passati di questa vita; ma parlando di quelli del mondo è chiaro lo testo: imperò che l’omo che è in stato di penitenzia può pregare Dio con tanto eccessivo ardore e desiderio di carità per la remissione dei suoi peccati, che sodisfa in uno punto quello che dovesse sodisfare in molti anni. E questo è per l’eccessivo grado de l’amore, e perchè chi guarda lo detto di Virgilio, per cui elli lo dice, vede che espressamente viene contra questa determinazione: imperò che Virgilio finge che Sibilla lo dica a Palinuro che dovea stare cento anni, innanti che potesse passare Acheronte, et elli pregava Enea che pregasse per lui che questo si finisse allora; però aggiunge la dichiaragione di questo, dicendo che Sibilla disse questo a Palinuro che era dannato a lo inferno; e per li dannati non ànno efficacia li preghi, sicchè precisamente vera è la sentenzia di Virgilio: imperò che Dio in verso di loro non accetta prego, nè non s’abbrevia tempo; e però dice: E la dov’io fermai cotesto punto; cioè come sentenzia vera puosi sensa niuna determinazione; pure generalmente dice Virgilio a Dante: Non s’ammendava, per pregar, difetto; cioè che non vale lo prego per li dannati; ma ritorna a colui che ’l fa, s’elli è ne la grazia di Dio, l’effetto del prego: imperò che niuno bene è irremunerato. Et intendendo di quelli del mondo che sono in peccato mortale, e per quello obligati a lo inferno: anco è vero che non vale loro prego quanto a la salute dell’anima, perchè sono privati de la grazia di Dio; può valere loro lo prego ai ben temporali et ad avere la grazia illuminante. Et aggiunge la cagione: Perchè il prego da Dio era disgiunto; cioè separato. Allora è lo prego separato da Dio, quando si fa per li dannati che sono nell’ira di Dio, o da persona che sia in peccato mortale che è privata de la grazia di Dio, come chi è in bando de la sua citta che non è udito a ragione, infine a tanto che non è remesso e ribandito. Veramente; ammonisce ora Virgilio Dante, dicendo che in sì alti dubbi non si fermi, se non a quella parte che determina la Santa Scrittura; e però dice: a così alto sospetto; cioè dubbio, Non ti fermar; tu, Dante, ad alcuna de le suoe parte, se quella non tel dice; ecco che la descrive, Che; cioè la quale, lume siè15 tra il vero e lo intelletto: lo vero è obietto de lo intelletto, e come la cosa veduta è obietto del vedere e non si può comprendere senza mezzo de la luce; così lo vero non si può comprendere da lo intelletto, se non per mezzo del lume naturale lo quale è messo nell’anima da Dio. Ma questo non basta a tutte le verità da essere cognosciute: però che sono certe cose, come sono le divine, che trascendeno lo nostro lume naturale; e però a questo è bisogno lo lume de la grazia di Dio illuminante, la quale è significata ora per Beatrice, e però descrittola la nomina, dicendo: Non so se intendi; dice Virgilio a Dante, io dico di Beatrice: ben si li conviene questo nome per propietà: imperò che ella è quella che beatifica l’anime nostre. Tu la vedrai di sopra; cioè da tutte le cose terrene: imperò che la grazia avansa ogni cosa terrena, dice Virgilio a Dante; cioè Beatrice, in su la vetta; cioè in su la cima, Di questo monte; cioè del purgatorio sopra la spera del fuoco, dove l’autore finge che sia lo paradiso delitiarum —, ridente e felice; cioè allegra e beata; e però finge l’autore questo: imperò che in tale luogo prima sì fatta grazia fu data da Dio a l’omo. E mentre che stette in essa, stette ridente e felice, et in tale luogo non sarebbe possibile che l’omo stesse sensa la detta grazia, e questo è quanto a la lettera; ma allegoricamente chi àe tale grazia perfettamente, elli è co la mente sempre levato a la contemplazione di Dio, dove sente tutti diletti che avere si possono che perfettamente contentino l’anima; sicchè sempre sta ridente e felice, levato col pensieri sopra tutte le cose terrene.
C. VI — v. 49-60. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che, fatto desideroso del sallire per la promissione di Virgilio, promessoli di sopra ch’elli vedrebbe Beatrice in su la cima del monte, sollicita ora Virgilio del sallire tosto, dicendo: Et io; cioè Dante: Signor; cioè dice a Virgilio: Signor, andiamo a maggior fretta; cioè andiamo più tosto: Chè già non m’affatico come dianzi; ecco che per l’affetto di vedere Beatrice dimostra esser fatto più forte, e dimostra sì vero lo ditto di Virgilio; cioè che quanto più si monta in su, più diventa l’omo leggieri e meno s’affatica. Or vedi omai; cioè in giù mai, che il poggio ombra non getta: però che ’l sole era calato et era l’occaso, e così era già passato un di’, poi che l’autore intrò nel purgatorio. Risponde Virgilio: Noi anderem; cioè tu et io, con questo giorno innanzi; cioè insù. Rispuose; Virgilio, s’intende, quanto più potremo omai; cioè ingiù mai che siamo a la sera, e di notte non si va in su al purgatorio: imperò che con ignoranzia non si può andare a l’apparazione a la penetenzia. Ma il fatto è d’altra forma che non stanzi; cioè che non pensi tu, Dante: imperò che si à a passare li balsi del purgatorio che sono 7, secondo li 7 peccati mortali; et a passare la spera del fuoco ch’è nel vii balso inanzi che sia al paradiso delitiarum e vegga Beatrice. Prima che sia lassù; cioè nel paradiso delitiarum — , tornar vedrai; cioè all’oriente, Colui che già si copre co la costa; cioè lo sole che già si corica, Sì che i suoi raggi tu romper non fai; dice Virgilio a Dante come facevi, quando era alto come è stato detto di sopra. Ma vedi; tu, Dante, là un’anima; dimostra Virgilio a Dante un’anima che potrà loro insegnare la via, e però dice: che posta Sola soletta; s’intende a sedere, in verso noi riguarda; cioè te Dante e me Virgilio: Quella ne insegnerà; cioè c’insegnerà, la via più tosta; cioè la via più corta. E questo mostra l’autore ch’elli sia pervenuto a la quarta16 specie dei negligenti li quali ànno indugiato la penitenzia o alcuno tempo, o in fine a la fine, per li peccati17 de la cura familiare, o d’alcuno loro singulare esercizio di studio e di scienzia; e di questi così fatti non ne nomina se non uno; cioè Sordello del quale si dirà di sotto: però che questi sono pochi; e costui studiosamente nomina, perchè fece uno libro che si chiama lo Tesoro dei tesori, nel quale nomina li signori dei quali dirà di sotto. E qui18 è altra esponizione che litterale.
C. VI — v. 61-75. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, secondo lo consillio di Virgilio, s’appressimonno a l’anima detta di sopra; e come Virgilio la prega che li dimostri la via, et ella non risponde a proposito; ma dimanda di che paese e vita elli erano, dicendo: Venimmo a lei; cioè a la detta anima, che si sedea, Virgilio et io Dante, dicendo a lei: O anima lombarda. Qui si muove uno dubbio, cioè come finge Dante che Virgilio cognoscesse che quell’anima fusse lombarda? A che si può rispondere che nelli abiti e ne le fisonomie del volto si possano cognoscere le genti di che contrada sono, sicchè a quello si può intendere che elli la cognoscesse; et anco si può dire che Virgilio la cognoscesse più, perch’era lombarda. Come tu stai altiera e disdegnosa; e questo finge, perchè forse tale era stato in sua vita, o per cagione del pensieri in che si può credere ch’ella fusse allora, secondo che l’autore finge per convenienzia de la persona: imperò che era stato omo che avea considerato le cose del mondo e li stati delli omini; e però col pensieri li dispregiava, e così mostrava nelli atti di fuora: questi era stato studiatore et avea composto uno libro che si chiama lo Tesoro dei tesori; e però finge ch’elli stesse in sì fatte condizioni come apparrà di sotto. E nel muover delli occhi onesta e tarda! Nel movimento delli occhi si nota l’onesta de la persona e la sua gravità. Ella; cioè la detta anima, non ci dicea alcuna cosa; cioè a Virgilio et a me Dante, Ma lassavane gir; cioè noi, solo sguardando; cioè solamente ragguardando noi, A guisa di leon; cioè come fa lo leone, quando si posa; cioè quando giace giù boccone co la testa alta. Pur Virgilio si trasse a lei; ben ch’ella non dicesse nulla a noi, pregando; cioè la detta anima Che ne mostrasse la millior sallita; cioè unde fosse miglior montata, Ma quella; cioè la detta anima, non rispuose al suo dimando; cioè al dimando di Virgilio. Ma di nostro paese, e de la vita Ci chiese; cioè ci dimandò unde eravamo e di che vita. E il dolce Duca; cioè Virgilio, incominciava; a parlare, s’intende, e dicea: Mantova..., e voleva dire più oltra; cioè è la patria mia, o altre parole in questa sentenzia; ma quell’anima non aspettò che compiesse suo dire; ma, come uditte mentovare Mantova, si levò e parlò; e però dice: e l’ombra, tutta in sè romita; cioè tutta in sè ristretta e commossa prima, Surse ver lui; cioè si levò in verso Virgilio, del luogo ove pria stava; cioè a sedere, Dicendo; a Virgilio: Mantovano, io son Sordello; questo Sordello fu mantovano e fu omo savio e fece uno libro che si chiama Tesoro dei tesori: però che raccolse tutto ciò ch’era nelli altri, o perchè disse mellio che li altri. Questi così fatti libri si chiamano tesori, perchè in essi è raccolto ogni virtuoso fatto del tempo che si cominciano al tempo che sè finisceno; e però finge l’autore che Virgilio volesse suo consillio, che si può presumer ch’elli cognoscesse inanti che si nominasse. De la tua terra; cioè di Mantova, come tu, e l’un l’altro abbracciava; per festa et allegressa. E qui finisce la prima lezione.
Ahi serva Italia, ec. Questa è la seconda lezione del canto sesto ne la quale l’autore fa disgressione de la materia, come usansa è dei Poeti; e presa cagione de l’amore che si mostronno Sordello e Virgilio ch’erano mantovani, pone una sua invettiva, o vero esclamazione in contra a più persone; e dividesi in cinque parti, perchè prima pone l’esclamazione sua incontra Italia; ne la seconda, incontra Alberto imperadore, quive: Guarda com’esta fera ec.; ne la tersa lo invita che vegna a vedere li danni che sono seguiti de la sua assenzia, esclamando contra lui, quive: Viene a veder Montecchi ec.; ne la quarta, esclamazione19 contra Dio, quive: E Se licito m’è, o sommo Giove, ec.; ne la quinta fa esclamazione contra Fiorensa, riprendendola d’alquanti vizi, quive: Fiorenza mia, ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia del testo coll’allegorie, o vero moralità.
C. VI — v. 76-93. In questi sei ternari lo nostro autore fìnge che, veduta la festa che fece Sordello a Virgilio per amore de la patria, elli si commovesse a dire contra Italia, riprendendola dell’odio che ànno l’Italiani tra loro; et usa qui uno colore retorico che si chiama esclamazione, o vero in greco apostrofa, del quale è stato detto di sopra ne la prima cantica, dicendo così: Ahi; questa voce è una parte d’orazione che in Grammatica si chiama interiezione esclamativa, e significa ira e corruccio, serva Italia: Italia è una parte d’Europa, la quale occupata in qua di rieto di Greci, fu chiamata la Grande Grecia; poi del nome del re Saturno, Saturnia; e poco stante fu chiamata Lazio, perchè in essa s’appiattò Saturno cacciato di Creta da Giove suo filliuolo; et all’ultimo fu chiamata Italia dal nome del re Italo re di Sicilia, lo quale venne a regnare in Italia di Sicilia. Lo sito d’Italia è più per lunghessa che per larghessa: stendesi da l’occidente, incominciando da la Provensa; cioè dall’alpe del monte Appennino che cingeno Italia dall’occidenti et incominciano tra Nissa e Savona; e l’uno braccio de le ditte alpi che si chiama Appennino si stende per mezzo d’Italia e li monti Silici e li termini de le fine di Pannonia infine a lo fiume Adda, et adiungesi con essa Istria in verso l’oriente infine a Reggio, che è incontra alla Sicilia, et anco la Sicilia si dice essere de l’Italia. E di Reggio, dove la terra finisce, si stende in verso settentrione e levante come un braccio de la mano in verso lo govito20; sicchè Reggio è in su la mano, et inde si stende e monta infine al govito, e quive è Taranto e poi è lo mare chiamato golfo di Venezia, o vero Adriaco; e da inde in giuso in fine a Venezia è lo detto golfo; e di sopra il braccio, dove finisce l’Italia, è lo mare Adriaco ancora per grande parte, et inverso oriente e mezzodi’ lo mare Ionio. E per larghessa si stende da le confine de la Francia per grande parte; cioè da l’alpe scende infine al mar Tirreno; et in verso l’oriente, cioè da Venezia in suso àe lo mare con golfo, o vero Adriaco, di verso settentrione, e lo mare Tirreno di verso mezzodi’: imperò che la Sicilia àe di sopra lo mare Ionio, et in verso occidente lo mare Tirreno. E dicesi avere Italia 17 province; la prima è Venezia21 da la parte settentrionale la quale àe cittadi Vincenzia, Verona, Mantova. La seconda è Lombardia, la quale àe Melano, Pavia et altre citadi a le fine della Francia che tramezzano l’Alpe. La tersa si chiamava Rezia prima. La quarta, Rezia seconda. La quinta, l’Alpe22 Stuzie detta; e questa è Terdona, lo Monisterio Bobbio23, Genova e Saona. La sesta è Toscana la quale àe Roma capo del mondo, Aurelia, l’Umbria e Perogia e laco Ditorio e Spuleto. La settima è detta Campania da Roma infine al fiume Siler; et èvi Capua, Napuli, Salerno. L’ottava si dice Lucania dal fiume Siler in fine al mare di Sicilia per le bocche del mare Tirreno, come la sesta e la settima, e dura infine al destro corno d’Italia; et èvi Reggio, Casino, Sentina, Pesti, Lanicunio24. La nona è dall’alpe di Appennino e detta Alpestuzia; le quali alpi andanti per mezzo l’Italia divide la Costanzia da Emilia, e L’Umbria25 da la Romagna, et èvi Forniano, Monte Bello, Bobbio e Gerdona. La decima, da la Lombardia tra l’alpe d’Appennino e lo fiume del Po, e va in verso Ravenna; et èvi Piagenza, Parma, Reggio, Modona, Bologna et Imola. L’undecima si chiama Romagna la quale è tra l’alpe d’Appennino e lo mare Adriaco; et èvi Ravenna e 5 altre città. La duodecima si chiama Campo Piceno et à da mezzo di’ l’alpe d’Appennino, e dall’altra parte lo mare Adriaco in fine a lo fiume Peschiera; et èvi Fermo, Asculi et Adria, e però si chiama mare Adriaco. La terzia decima si chiama Valeria, et èvi adiunta Narsia; et in mezzo tra la Campagna e la Romagna è Campo Piceno, et èvi Tiburi, Carseile, Reata, Fulcone, Mirteo e li Marsi e lago Fuscino. La quarta decima che si chiama Sannio è tra la Campagna e lo mare Adriaco e la Pullia, et incomincia da Peschiera; et èvi Benevento. La quinta decima è Pullia e Calabria, e dentro v’è regione Salettina; et àe di verso mezzodì’ lo mare Africo, e da occidente Sannio e Lucania, di verso oriente àe lo mare Adriaco; et àe cittadi Luceria, Siponto, Canusia, Agenzia, Brandigi, Taranto, e nel corno sinistro, Idrunto. La sesta decima è Sicilia ch’è di verso occidente; cioè lo mare Tirreno, e di verso oriente lo mare Ionio. La settima decima è la Corsica, et adiungesi per molti l’ottava decima la Sardigna; le quali insule sono intorneate dal mare Tirreno. E dice Solino De Mirabilibus che Italia da Roma infine a la punta sua dov’è Reggio dura per lunghessa mille vinti millia, e per larghessa, là v’è più larga, millia 410; e dov’è più stretta, millia 136; e tutto lo spazio sodo è 44000 di millia: ben si può dire che da Roma infine all’alpe di Provensa siano millia 500, e la larghessa via più che di sopra, sì che l’Italia serebbe tutta via più che 141000 di millia. Questa Italia per molte battallie fue tutta acquistata da’ Romani; e fattosela compagna, incomincionno i Romani insieme co li Italiani ad acquistare l’altre parti del mondo, sicchè uno tempo l’Italia per Roma fu ditta donna del mondo, e questo fu tanto tempo quanto duronno virtuosi. Poi diventati viziosi perdetteno lo dominio; e perchè al tempo dell’autore era perduta ogni virtù, però chiama Italia serva: imperocchè ogni vizioso si può dire servo, et anco tutte le città eran fatte serve o di tiranni o di poghi cittadini tiranneggianti la sua città, come si vede per esperienzia. di dolor ostello; cioè albergo et abitazione di dolore, Nave senza nocchiero; cioè sensa governatore, in gran tempesta; cioè turbamento di mare, Non donna di province; come solea essere in qua di rieto, quando li Romani funno signori del mondo, ma bordello; cioè ritenimento di meretrici. Quattro cose dice qui l’autore d’Italia; cioè che è serva, albergo di dolore, nave senza guida in tempesta grande, ritenimento di meretrici e non donna di province; e questo non dice sensa cagione, intendendo qui lo locato per lo luogo, et è colore retorico chè si chiama denominazione. Intende prima di dire l’autore delli Italici li quali tanto tempo funno liberi, quanto funno virtuosi e funno a compagnia coi Romani; poichè diventonno26 servi e sì dei vizi e sì dei tiranni e dei signorotti, che tanti ne sono ora et erano al tempo dell’autore in Italia, sicchè ben si può dire serva; e per consequente si può dire albergo di dolore: imperò che chi è servo non sta sensa dolore pensando che à perduto la libertà; nave sensa guida in grande tempesta; imperò che grande erano le guerre nel suo tempo ne l’Italia, e non era lo imperadore in essa che è guida de l’Italia e del mondo. E come la nave che è in tempesta è a periculo di sommergersi; così era l’Italia a periculo di destruzione; e li suoi abitanti, essenti divisi li cittadini delle citadi, e l’uno comune coll’altro menante guerra, li quali avendo lo imperadore in Italia, sarebbeno vinti27 e starebbeno in pace. Non donna di province dice, perchè li suoi abitanti erano mandati per le province subiette al romano imperio per vicari e per signori, et operavano iustizia e mantenevano le province con ragione e con iustizia in pace e buono stato; ora sono tutti diventati meretrici, acconci pure ad impiere le borse con moccobelli, furti e rapine facendo ricomprare li sudditi e vendendo la ragione e la iustizia, guadagnando con sosseza, come fa la meretrice che guadagna con sosseza del suo corpo. E di tutti questi mali è cagione l’odio nato tra li abitatori, venuta meno tra loro la carità; e però seguita: Quell’anima gentil; cioè Sordello, fu così presta; cioè sollicita, Sol per lo dolce suon de la sua terra; cioè udendo nominare a Virgilio Mantova, come appare di sopra, Di far al cittadin suo; cioè a Virgilio, quivi; cioè ne la sallita al purgatorio, festa; cioè allegressa. mostrandoli grande carità et amore. E questa è conveniente finzione: imperò che in purgatorio sono l’anime, che sono ne la grazia di Dio, tutte piene di carità. Ora; cioè in questo tempo, in te; cioè in Italia, non stanno senza guerra; dice l’autore ad Italia, continuando la sua esclamazione, Li vivi tuoi; cioè quelli che sono vivi tuoi abitanti, e l’un l’altro si rode; cioè consuma e divora, Di quei che un muro et una fossa serra; cioè di quelli che abitano una medesima città, non che dei coniunti e de’ lontani. Cerca, misera; continua l’autore la sua invettiva contra Italia, dicendo: Misera, cerca intorno da le prode Le tuoe marine; cioè de le sponde le tuoe marine; dice perchè n’à tre, cioè una di verso mezodi’ dov’è lo mare che si chiama Tirreno, e l’altra di verso settentrione dov’ò lo mare che si chiama Adriaco, e l’altra di verso oriente dove lo mare si chiama in parte Adriaco et in parte Ionio; sicchè l’Italia è in mezzo tra du’ mari; tra l’Adriaco e ’l Tirreno, e da capo àe l’Ionio in parte, et in parte l’Adriaco, e poi ti guarda in seno; cioè in fra terra nel mezzo di te, dove si stende lo monte Appennino per tutta l’Italia, come detto fu di sopra, Se alcuna parte; cioè o de le marine o terrene, in te di pace gode; e questo dice, perchè le cittadi marine guerreggiavano insieme e le mediterranee; et erano tutte le più divise28 come è anco ora più che mai. E per questo è da sapere che l’Italia à molte province, de le quali quale àe confine in sul mare di Venezia; cioè Adriaco; e quale è in sul Tirreno; cioè di Genova e di Pisa e di Roma et oltra infine a la Sicilia; cioè a Reggio che è incontro a la Sicilia; e quale infra terra che non à capo a marina. La prima che àe capo in sul mare di Venezia, che è una de le porzioni d’Italia, si è Romagna, ne la quale è Ravenna, Arimino et altre cittadi; poi si è la Marca anconitana; cioè Pesaro, Fano, Sinigaglia, Ancona, Fermo, le Grotte, San Fabiano, Pescaro, Morisi; poi si è lo Campo Piceno in fine al fiume Peschiera ch’è dov’è Fermo, Asculi et Adria; poi si è la Pullia che à Luceria, Siponto, Canusio; poi la Calavria è in capo con quelle città che sono ditte di sopra; cioè Brandigi, Taranto, Idrunto et altre cittadi; e poi girando a l’altra stanza del mare Tirreno, in prima Lucania dov’è Reggio e l’altre città; e poi la Campagna dov’è Gaeta e Napuli infine a Roma: e poi è Toscana infine a Pisa e la Magra, fiume presso a Sarzana; poi la riviera de Genova da levante infino a Genova; e poi la riviera da ponente infine a Nissa, a Saona presso; e dentro è ne la terra Lombardia tra lo monte Appennino e l’alpe, che incominciano da uno forcone da le confine de la Provensa e ’l Piemonte infine a Trivigi e la Marca Trivigiana e ’l Frivoli; e poi in su la marina nel fondo del golfo, Venezia; e tra ’l monte Appennino e lo mare Tirreno lo ducato, lo patrimonio, la Toscana o la Bavigiana29 et altre province che ànno mutato nome; e tutte sono in guerra, sicchè bene dice l’autore le parole dette di sopra; che à allato lo mare Tirreno e l’altro lato al monte Appennino, et incominciasi da la Magra et estendesi infine al Tevero nel quale è. Che val, perchè ti rassettasse il freno Giustiniano; cioè che giova, perchè Iustiniano imperadore compilasse le legge e correggessele; le quali leggi sono lo freno con che si governano le republiche, come lo cavallo col freno, se la sella è vota; cioè se lo imperadore non è lassato sedere ne la sua sedia, lo quale essendo presente le farebbe osservare, come comandano le legge? A che dunqua sono le legge, se non s’osservano per l’italici, e massimamente in mantenere lo imperadore ne la sua sedia che è in Italia? Senz’esso; cioè se le leggi non fusseno corrette, e lo freno non fusse stato rassettato per Iustiniano, fora; cioè serebbe, la vergogna meno; cioè sarebbe la vergogna minore a l’Italici che non è, che Italia sia diventata sì fatta come detto è di sopra, e che lo imperadore non sia lassato sedere ne la sua sedia. Ahi; questo è vocabulo d’esclamazione che usa l’autore verso l’Italici, dicendo: Ahi gente; cioè italica, che dovresti esser devota; cioè a l’obedienzia de l’imperadore, E lassar seder Cesari; cioè lo imperadore, in la sella; cioè in su la sedia sua, et esserli obediente, Se bene intendi ciò che Dio ti nota; cioè se bene intendi, tu gente d’Italia, ciò che Cristo disse ne l’Evangelio; cioè: Reddite quæ sunt Cæesaris Cæsari, et quæ sunt Dei Deo. E questo fa prova che Dio vuole che siano due signorie nel mondo; l’una ecclesiastica, l’altra civile; cioè lo imperadore e lo papa, ai quali dè obedire tutto lo mondo, come afferma ancora quella figura che è ne la passione, quando li Apostoli disseno a Cristo: Ecce duo gladii hic; et ei rispuose: Satis est; e questo notino quelli che non obedisseno nè l’uno, nè l’altro, de’ quali Dio iusto signore mostrerà ancora grande iustizia. Se l’autore s’è steso a questa materia non è maravillia, ch’elli fece uno libro che si chiama De Monarchia Mundi, nel quale elli prova con suoe ragioni che uno dè essere lo principe del temporale del mondo; cioè lo imperadore.
C. VI — v. 94-105. In questi quattro ternari lo nostro autore fa la sua invettiva contra Alberto imperadore, riprendendolo de la assenzia sua da l’Italia, parlando a lui e dicendo: Guarda; cioè tu, Alberto; e però si dè incominciare: Alberto tedesco, guarda; cioè pone cura, com’esta fera; cioè come questa fiera, cioè Italia, la quale chiama fiera, per servare la figura incominciata: chè l’à posta in similitudine di cavallo, è fatta fella; cioè restia e superba, come lo cavallo che non è obediente al cavalcatore e non si lassa cavalcare, Per non esser corretta da li sproni; cioè de la tua signoria punitrice dei mali, e subiugatrice dei superbi, come li speroni del cavallo, Poi che ponesti mano a la predella; cioè poi che accettasti lo imperio e pilliasti la signoria; e seguita la figura del cavallo: predella è parte del freno dove si tiene la mano quando si cavalca; cioè poi che ponesti mano al freno, che abbandoni; cioè lo quale abbandoni, Costei; cioè questa Italia, ch’è fatta indomita; cioè la quale è diventata non domata, e selvaggia; cioè salvatica; e sempre usa la figura del cavallo, parlando d’Italia. E dovresti inforcar li suoi arcioni: cioè dovresti cavalcare questo sì fatto cavallo; cioè Italia: inforcare l’arcioni è stare a cavallo: imperò che cusì si cavalca coll’una gamba dall’uno lato, e coll’altra dall’altro: arcioni sono le due altesse de la sella; l’una d’inansi, e l’altra di rieto; acciocchè non diventasse disobediente la dovresti signoreggiare e correggere co la iustizia e non lassarla in sua libertà: imperò che allora diventano li popoli disobedienti come li cavalli restii, quando non sono cavalcati; e però, come corrucciato, l’autore biastema30 lo detto Alberto, dicendo: Giusto giudicio da le stelle; cioè dal cielo dove sono le stelle; cioè da Dio che è prima cagione delli effetti che induceno le stelle, caggia Sovra il tuo sangue; cioè di te Alberto, e sia nuovo et aperto; nuovo dice, perchè innuova li omini: imperò che le cose nuove muoveno; aperto; cioè manifesto, sicchè ogni uno ne pilli esemplo e massimamente li successori; e però dice: Sì che il tuo successor; cioè colui che serà imperadore di po’ te, temenzia n’aggia; cioè abbia paura del iudicio, caduto sovra ’l tuo sangue; et assegna la cagione perchè, Chè avete tu e il tuo padre sofferto; cioè Alberto da Usterich eletto imperadore, e presa la corona si ritornò ne la Magna a casa sua e quive si stette et avea padre, e consentitteno che Italia si guastasse co le suoe divisioni, innanti che volesseno lassare lo loro ducato, Per cupidezza di costà distretti; cioè per avarizia, per non spendere, Che il giardin dello imperio; cioè Italia la quale chiama giardino de lo imperio, perchè è la più bella parte che abbia lo imperio, sia diserto; cioè disfatto, per li riei suoi abitatori.
C. VI — v. 106-117. In questi quattro ternari lo nostro autore sequendo la sua invettiva contra Alberto suddetto, particularmente tocca li mali d’Italia, dicendo: Viene a veder Montecchi e Cappelletti; queste funno due parti così nominate le quali funno in Lombardia in Cremona, che tanto si inimiconno insieme che si redusseno a disfacimento, Monaldi e Filippeschi; queste funno due parti così nominate in de la Marca; cioè in Ancona, le quali al tempo de l’autore viveano in grande sospetto, uom senza cura; dice l’autore ad Alberto, riprendendolo che sia sensa cura de lo imperio. Color già tristi; cioè le parti di Cremona; Montecchi e Capelletti, che si sono destrutti insieme per le loro parzialità, e questi; cioè Monaldi e Filippeschi d’Ancona, coi sospetti; d’esser offesi li uni dalli altri. Vien, crudel, vieni; ecco che lo sollicita a venire in Italia, chiamandolo crudele, perchè tanto indugia, e vedi la pressura; cioè lo gravamento, Dei tuoi gentili; cioè de’ conti, marchesi31 et altri gentili omini e signori d’Italia, che gravano li loro sudditi oltra modo, e cura lor magagne; cioè di quelli gentili, correggendoli e punendoli, E vedrai Santafior com’è sicura; questo è uno castello in Maremma tra lo terreno di Pisa e di Siena, dove sono conti li quali infine al tempo dell’autore male trattavano li loro sudditi e vicini: e puossi intendere in du’ modi; cioè, come è sicura; quasi dica: Non è sicura, che vi sono li omini rubati; e poi intendere come si cura; cioè si governa lo detto castello dai ditti conti. Viene a veder; cioè tu, Alberto, la tua Roma; e ben dice tua; imperò che lo imperadore è re de’ Romani, che piagne; cioè sè duole e lamenta, perchè sono li popolari romani oppressi dai gentili omini. Vedova; perchè è sensa lo suo sposo; cioè lo imperadore, e sola; perchè non v’è niuno suo vicario che mantegna ragione e giustizia, e di’ e notte chiama; cioè grida; Cesare mio; cioè imperadore mio: tutti imperadori sono chiamati Cesari dal primo imperadore che ebbe nome Cesari, perchè non m’accompagne; cioè perchè non stai tu meco? Finge l’autore che Roma si lamenti de la assenzia de lo imperadore. Viene a veder; ecco che anco sollecita che venga, et usa lo colore retorico che si chiama repetizione che àe a commuovere li auditori, et anco quell’altro che si chiama conduplicazione, la gente quanto s’ama; àe ditto infine a qui dei gentili omini, ora universalmente dice di tutti, mostrando che tra li Italici non è amore, nè carità. E se nulla di noi; cioè Italici, pietà ti move; cioè e se per pietà di noi non ti muovi, che ti dovresti muovere, A vergognar ti vien de la tua fama; cioè viene al meno, per mostrare che tu ti vergogni d’avere sì fatta fama; cioè che per avarizia tu stii ne le parti de la Magna e lassi disfare Italia.
C. VI — v. 118-126. In questi tre ternari lo nostro autore seguita la sua esclamazione in verso Iddio, et usa lo colore che si chiama licenzia, che l’usa lo retorico quando riprende li maggiori, dicendo così: E se licito m’è; quasi dica: In tanto riprendo te Iddio, in quanto m’è licito, non altramente, o sommo Giove; cioè Iddio: questo vocabulo si conviene a Dio: imperò che Giove è a dire aiutatore, e nessuno più veramente si può dire aiutatore che Iddio, e massimamente adiungendovi questo adiettivo sommo. E perchè altri non credesse ch’elli seguitasse l’errore dei pagani, tenendo quel Giove che tenevano essi per iddio, adiunge: Che fosti in terra per noi; cioè per noi omini tutti; e parla qui l’autore in comune per tutti li omini, crocifisso; e per questo dimostra ch’elli dirissi la sua esclamazione a la persona del filliuolo di Dio nostro signore Gesù Cristo, Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? Quasi meravilliandosi de la sua iustizia, dimanda ch’elli ragguarda in altro luogo, che non par curare d’Italia; et adiunge la disiunzione la quale è vera: imperò che la precedente sentenzia è falsa: imperò che Dio sempre iustamente vede e provede ogni luogo; e però dice: O è preparazion; cioè apparecchiamento che tu fai a fine d’alcuno bene, cioè questo lassare cusì male governare Italia, che ne l’abisso; cioè ne la profondità, Del tuo consillio; cioè de la tua providenzia la quale è tanto profonda, che lo intelletto umano non può tanto vedere, fai per alcun bene: sempre Iddio arreca tutte le cose a fine di bene, dice Boezio nel iv de la Filosofica Consolazione: Sola est enim divina vis, cui mala quoque bona sint, cum eis competenter utendo alicuius boni elicit effectum — . In tutto da l’accorger nostro scisso; cioè diviso quel bene dal nostro accorgere, cioè dal nostro vedere; cioè che ’l nostro intelletto nol può antivedere? E questo è vero: Chè le città d’Italia; ecco la cagione che à mosso l’autore ad esclamare inverso Iddio, tutte piene Son di tiranni; questo come sia vero ciascuno Italiano il vede, et un Marcel diventa; questo Marcello, secondo che pone Lucano32 che dicesse Cesari, fu uno grande parlatore quando elli dice: Marcellusque loquax, et nomina vana Catones, nel primo libro; e massimamente perchè parlava contra lui. E di lui dice Solino che 39 volte co le insegne ritte combattette, e Cesare 52 volte, e nelle battallie di Cesari undici volte 192 milliaia d’omini funno morti. E volendo Cesari assimilliare33 la sua virtù, perchè fu contro lui com Popeio34, dice che fu parlatore; e così dice l’autore che facevano li omini d’Italia di vile condizione, che tutti si faceano grandi parlando male de la contraria parte, et intrando in parte; e però dice: Ogni villan; cioè ogni uno di vile condizione, come sono quelli della villa, che parteggiando viene, cioè viene intrando in parte.
C. VI — v. 127-151. In questi otto ternari et uno versetto l’autore nostro, seguendo la sua invettiva, o vero esclamazione, dirissa lo suo parlare in verso la sua città, usando quello colore che si chiama da Tullio significazione, et al modo greco ironia; e bisogna questo colore35 quando si fa l’esclamazione in materia derisoria, come usa qui lo nostro autore, dicendo: Fiorenza mia: bene può dire mia; perch’elli era suo cittadino, ben puoi esser contenta; per lo contrario s’intendeno queste parole come richiede lo modo del parlare; cioè ben puoi essere mal contenta, Di questa disgression: come fu detto di sopra l’autore àe fatta lunga disgressione, partendosi da la materia e ponendo36 la sua invezione prima contra l’Italia, secondo contra lo imperadore Alberto, terzio contro Iddio; e però l’autore dice di questa disgressione, che non ti tocca; cioè te Fiorensa, e dèsi intendere per lo contrario; anco in ogni cosa ti tocca, Mercè del popol tuo; cioè questo è per merito del populo tuo, cioè di Fiorensa; e questo si dè intendere in diritto sentimento, cioè che questo merita lo populo tuo, che si argomenta; si dè intendere per lo contrario, cioè che non pillia argomento contra la tirannia dei grandi de la città come dovrebbe fare ogni virtuoso e vigoroso populo; e però questo si dè intendere per lo contrario. Molti àn giustizia in cuor. Qui pone l’autore una sentenzia molto notabile; cioè che molti col cuore diritto amano e desiderano la iustizia, e penano a publicarla co la lingua per non errare; o volliamo intendere che ànno la iustizia in cuore, e non la mostrano di fuori mai, o tardi co la lingua37, per non esser guasti e straziati de la persona dai grandi de la città contra iustizia; e però seguita, e tardi: cioè malagevilmente, o non mai, scocca; cioè esce, come lo strallo, o vero il verettone del balestro a essa38 iustizia fuor de la bocca loro, Per non venir senza giustizia; cioè iniustamente; o ver senza consillio trovo in alcuno testo; cioè sensa matura deliberazione, all’arco; cioè a la sentenzia. L’arco si pone per la sentenzia: imperò che come l’arco saetta e percuote dove vuole l’arcatore; così la sentenzia, quando esce fuor de la bocca; o volliamo intendere de la sentenzia dove sono posti al populo manifesti li dannati, quando si leggeno le condannagioni; e così si stanno cheti, per non essere iniustamente condennati e guasti; o volliamo intendere che penano a publicarla co la lingua, per non sentenziar inconsideratamente o iniustamente: imperò che scritto è: Omnia subita probantur incauta, et summum ius summa iniuria — . Ma il popol tuo; cioè di te Fiorensa, l’à in sommo de la bocca; cioè ne le parole grida: Iustizia, iustizia; e dentro è iniusto quanto all’animo. E qui nota l’autore la garrulità del populo fiorentino, unde si può dire quel che dice la Santa Scrittura per la iustizia: Populus hic labiis me honorat; intrinsecus autem cor eorum longe est a me; sicchè riprende qui l’autore la vanità di tal populo, che tutto è in ostentazione e demostrazione; et in opere e fatti, pogo; e questo detto si dè intendere pure direttamente, e non per lo contrario. Molti rifiutan39; cioè populi d’altri cittadi40 rifiutano, lo comune incarco; cioè la comune gravezza, che non volliano che vegna tutta sopra di loro. Ma il popol tuo; cioè di te Fiorensa, sollicito risponde Senza chiamar; cioè sensa essere chiamato, e grida: Io mi sobbarco; cioè io faccio di me barca, o io mi piego a sopportarlo e sofferirlo. E qui nota la viltà di sì fatto populo offerente sè ad esser cagione, se niuno male si fa in comune per l’altre cittadi, non curandosi a portanne41 tutta la infamia, la gravessa e l’odio; e questo detto non s’intende per lo contrario. Or ti fa lieta; tu, Fiorenza; cioè per lo contrario, attristati, che tu ài bene onde; farti lieta, cioè attristarti. Tu ricca; cioè se’ Fiorensa, e dèsi intendere per lo contrario; cioè tu se’ povera, eccetto pochi cittadini fiorentini, che sono sensa misura ricchi, tutti li altri sono estremamente poveri, tu con pace; se’ Fiorensa, cioè per lo contrario, sempre se’ in guerra o con teco o coi vicini: imperò che sempre ài usciti e cacciati de la città, o ammoniti, e vivesi da te a setta et a partite 42, tu con senno; se' Fiorensa: anco questo s’intende per contrario: imperò che dove quive è arrogansa, non può esser senno. Questo che seguita si dè intendere dirittamente e non per lo contrario. S’io dico ver; dice l’autore in quel ch’i’ ò detto, l’effetto nol nasconde; per l’effetto si cognosce le cagione. Et adiunge la prova, dicendo: Atene; questa fu città in Grecia abondante di molto senno, e per tanto fu dinominata Atene; cioè immortale, da la dia de la sapienzia, Pallade che è detta immortale: imperò che la sapienzia è immortale, e Lacedemona; questa fu un altra città in Grecia et abbondò molto in senno, sicché molto pugnonno insieme li Ateniesi e li Lacedemoni, et amburo queste cittadi feceno leggi; e però dice: che fenno Le antiche leggi; cioè Atene e Lacedemona, che per altro nome fu chiamata Sparte, come dice Paulo Orosio nel primo libro ne la fine, e fuoron sì civili; come diceno li autori che li Ateniesi sensa legge viviano 43 civilmente come se avesseno avuto le leggi; e così li Lacedemoni che ebbeno Ligurgo re che fece loro xii leggi, le quali acciò che mellio s’osservasseno disse che l’avea fatte l’oracolo d’Apolline, acciò che ’l populo più cautamente l’osservasse, Fecero al viver ben; cioè al viver virtuosamente, un picciol cenno; cioè un picciol atto, Verso di te; cioè per rispetto di te Fiorensa; e questo si de’ intendere per lo contrario, come dichiarano le parole seguenti, che fai tanto sottili Provedimenti; per lo contrario si dè intendere, che a mezzo novembre Non giunge quel che tu d’ottobre fili; cioè li statuti e li ordini e le leggi, Che tu fai d’ottobre, si rompeno inansi che sia mezzo novembre. Et usa qui quel colore che si chiama significazione per superlazione, quando s’avansa la verità nel modo del dire; a dimostrare la grande mutabilità dei Fiorentini, dice che non durano uno mese li statuti fatti per loro, e niente di meno pure durano più di uno mese. Quante volte; quasi dica infinite volte, nel tempo che rimembre; cioè ch’io mi ricordo, Legge, monete, et offici, e costume Ài tu mutato; cioè tu, Fiorensa, facendo ora una legge, ora un’altra, battendo ora una moneta, ora un’altra, facendo nuovi officiali, e così mutando nuovi costumi, e rinnovato membre 44; cioè mutando stati e parti? Quasi dica: Molte volte l’ài fatto. E se ben ti ricordi; tu, Fiorensa, e vedi lume; cioè collo intelletto, similliante; cioè tu, Fiorensa, a quella inferma; ecco che assimillia la sua città l’autore a la inferma: imperò che la viziosità è infermità dell’animo, Che non può trovar posa in su le piume; cioè in su la coltrici: quando lo corpo sta male, anco in su la coltrici dolliano l’ossa et i nervi; e così quando lo animo è vizioso, le cose virtuose45 nol contentano, Ma con dar volta; cioè volgendosi qua e là in su la coltrici, suo dolore scherma; cioè cessa suo dolore e difendesi da lui la inferma; e così tu, Fiorensa, non trovi luogo essendo in buono stato: sempre vai cercando mutamento, perchè non ài sano animo. E qui finisce il canto sesto.
Note
- ↑ C. M. punti divietati che sono in tre dadi esclusive da sette
- ↑ C. M. ambassi, duino e tre;
- ↑ 3,0 3,1 C. M. cinquino
- ↑ C. M. asso e duino, e così
- ↑ C. M. malanconia
- ↑ C. M. da Trunta
- ↑ C. M. nome Turino, et uno
- ↑ Presso gli antichi, ed in alcuni luoghi di Toscana, truovasi giovano pel genere maschile, e giovana pel femminile. Abbiamo nell’Ugurgieri En. lib. i «giovano felice». E.
- ↑ C. M. di Scherlino.
- ↑ Uccisello; uccisenlo, ucciserlo, perchè i nostri padri, incorporando alla terza persona del plurale il pronome lo, la, levata l’ultima vocale del verbo, per cagione di miglior suono mutavano l’n od r in l. E.
- ↑ Pentendose; dove il reciproco sè vedesi non alterato, il che usavano talora gli antichi eziandio coi nomi me e te, quando gli aggiugnevano al verbo. E.
- ↑ Con la scorta del Magliab. abbiamo supplito - non si fermi se non a quello che -; e così costumiamo solo, quando il senso non possa reggere. E.
- ↑ C. M. è ditto, benchè paia assai ragionevile a li omini
- ↑ C. M. lo Maestro delle sentenzie, e così
- ↑ Siè; siede, da sere frammessovi l’i, come in diè e cotali. E.
- ↑ C. M. a la quinta spezie
- ↑ C. M. a la fine, per l’impacci de la cura
- ↑ C. M. E qui non è altra esponizione litterale.
- ↑ C. M. ne la iiii esclama contra a Dio,
- ↑ C. M. lo gombito, - Govito; gomito; dal cubitus de’ Latini, mutato il c in g, e il b in v per l’affinità che esiste fra codeste lettere. E.
- ↑ C. M. la prima è veneziana dalla parte
- ↑ C. M. l’Alpe di Toscana. E questa si stende dalla Lombardia al mare, e finisce di verso l’occidente coi Franceschi: e in questa è Terdona,
- ↑ C. M. lo monasterio di Bobbio, — Secondo il nostro Codice vi può essere ellissi, come si trova — La città Dite — E.
- ↑ C. M. Lavinnio.
- ↑ C. M. da Emilia e l’Ombria e la Toscana dalla Romagna,
- ↑ C. M. diventonno viziosi, diventonno servi
- ↑ Tutti due i Codici leggono vinti; ma il senso richiederebbe uniti. E.
- ↑ Al presente, mercè la Providenza Divina, codeste divisioni sembrano quasi dileguate, e l’Italia tornerà potente e gloriosa. E.
- ↑ C. M. la Toscana è la Ungaria et altre provincie
- ↑ Biastemare, o biastimare odesi tuttavia tra il popolo toscano, e deriva dal blastimar dei Trovatori. E.
- ↑ Il conte o marchese oggi non riesce che ad un nome vano; ma in antico, il primo appellato eziandio Gastaldo, presedeva alla milizia e ministrava la giustizia al popolo, e dall’imperadore veniva eletto governatore d’una città. Il marchese era deputato al governo di una intera provincia, o marca. E.
- ↑ C. M. Lucano, fu uno Romano e fu grande prince. Dice Selino che xxxviii volte con le insegne
- ↑ C. M. Cesare annullare la sua virtù,
- ↑ C. M. Pompeio,
- ↑ Colore sta per figura, ad imitazione di Cicerone che nel secondo dell’Oratore al cap. xiv così esprimesi: Sentio orationem meam illorum tactu quasi colorari. E.
- ↑ C. M. rendendo la sua invezione
- ↑ C. M. mai, cittadini con la lingua,
- ↑ Aiutati dal Cod. M. abbiamo racconciato da - esce - fino - a essa. E.
- ↑ Si è aggiunto col Magliab. da - Molti rifiutan - a - Ma il popol. E.
- ↑ Altri cittadi. Chi è un po’ dimestico degli antichi non si meraviglierà che dei nomi od articoli oggi terminati in e al plurale feminile cadessero in i come arpi, fini, leggieri ec. A ciò li ebbe indotti la uniformità della desinenza. E.
- ↑ Portanne; portarne, perchè talora si è costumato di troncare l’infinito del verbo, e quindi raddoppiare la consonante dell’affisso o particella pronominale. Si à nella Tancia, Att. iv, scen. ix «S’un vuol del suo un capriccio cavassi»; cavarsi. E.
- ↑ C. M. a setta o a parte,
- ↑ Viviano; viveano, verbo della seconda coniugazione ridotto alla terza, come talfiata operavano gli antichi. E.
- ↑ Membre; dal singolare membra, come frutte, geste da frutta, gesta ed altri. E.
- ↑ C. M. le cose viziose nol contentano,