Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto VII
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto settimo
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C A N T O VII.
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1Poscia che l’accollienze oneste e liete
For iterate tre e quattro volte,1
Sordel si trasse, e disse: Voi chi siete?
4Anzi che a questo monte fosser volte
L'anime degne di salire a Dio,
For l’ossa mie per Ottavian sepolte.
7lo son Virgilio; e per null’altro rio2
Lo Ciel perdei, che per non aver fè:
Così rispuose allora il Duca mio.
10Qual è colui che cosa inanzi a sè
Subita vede, ond’ ei si meravillia,
Che crede e no, dicendo: Ell’ è, non è;
13Tal parve quelli, e poi chinò le cillia,
Et umilmente ritornò ver lui,
Et abbracciollo ove il minor s’appillia.3
16O gloria de' Latin, disse, per cui
Mostrò ciò che potea la lingua nostra,
O pregio eterno del loco und‘ io fui,
19Qual merito, o qual grazia mi ti mostra?
S’io son d’udir le tuoe parole degno,
Dimmi se vien d’Inferno, e di qual chiostra.
22Per tutti i cerchi del dolente regno,4
Rispuose lui, son io di qua venuto:
Virtù del Ciel mi mosse, e con lei vegno.
25Non per far; ma per non far ò perduto
Di veder l’alto Sol che tu disiri,
E che fu tardi da me cognosciuto.
28Luogo è laggiù non tristo di martiri;
Ma di tenebre sole, ove i lamenti
Non suonan come guai; ma son sospiri.
31Quivi sto io coi parvuli innocenti,
Dai denti morsi de la morte, avante
Che fusser dall’umana colpa esenti.
34Quivi sto io con quei che le tre sante
Virtù non si vestir, e senza vizio
Cognover l’altre, e seguir tutte quante.
37Ma se tu sai, o puoi, alcuno indizio
Dà a noi, perchè venir possiam più tosto
Là dove Purgatorio à dritto inizio.
40Rispuose: Loco certo non c’è posto:
Licito m’è andar in suso e in torno:5
Per quanto ir posso, a guida mi t’accosto.
43Ma vedi già come dichina il giorno,
Et andar su di notte non si puote;
Però è ben pensar d’un bel soggiorno.6
46Anime sono a destra qua remote:
Se mi consenti, io ti merrò ad esse,78
E non senza diletto ti fier note.9
49Com’è ciò? fu risposto: chi volesse
Salir di notte fora elli impedito
D’altrui? o non saria che non potesse?10
52E il buon Sordello in terra fregò il dito,
Dicendo: Vedi, sola questa riga
Non valcheresti di po’il Sol partito:
55Non però che altra cosa desse briga,
Che la notturna tenebra, ad ir suso:
Quella col non poter la vollia intriga.
58Ben si poria con lei tornar in giuso,
E passeggiar la costa intorno errando,
Mentre che l’orizonte il di’ tien chiuso.
61Allora il mio Signor, quasi ammirando,
Menane donque, disse, là ove dici
Che aver si può diletto dimorando.
64Poco allungati c’eravam di lici,
Quando m’accorsi che il monte era scemo
A guisa che i vallon si sceman quici.
67Colà, disse quell’ombra, n’anderemo,
Dove la costa face di sè grembo,
E là il nuovo giorno attenderemo.11
70Tra erto e pian era un sentero ghembo,12
Che noi condusse al fianco de la lacca,
Là dove più che a mezzo muore il lembo.
73Oro et argento fino, cocco e biacca,
Indico, legno lucido e sereno,
Fresco smiraldo allora che si fiacca,
76Dall’erba e da li fior dentro a quel seno
Posti, saria ciascun di color vinto,
Come da suo maggior è vinto il meno.
79Non avea pur natura ivi dipinto;
Ma di soavità di mille odori
Vi facea un incognito indistinto.
82Salve, Regina, in sul verde e in su’ fiori
Quindi seder, cantando anime vidi,13
Che per la valle non parean di fori.14
85Prima che il poco Sole ornai s’annidi,
Cominciò il Mantovan che ci avea volti,
Fra color non volliate ch’io vi guidi.
88Da questo balzo mellio e li atti e’ volti
Cognoscerete voi di tutti quanti,
Che ne la lama giù tra essi accolti.
91Colui che più siede alto e fa sembianti
D’aver negletto ciò che far dovea,
E che non muove bocca alli altrui canti,
94Rodolfo imperador fu, che potea
Sanar le piaghe ch’ànno Italia morta,
Sì che tardi per altri si ricrea.
97L’altro, che nella vista lui conforta,
Resse la terra dove l’acqua nasce,
Che Molto in Albia, et Albia in mar ne porta:15
100Ottachero ebbe nome, e ne le fasce
Fu mellio assai che Vinceslaio suo fillio
Barbuto, cui lussuria et ozio pasce.
103E quel Nasetto, che stretto a consillio16
Par con colui che à sì benigno aspetto,
Morì fuggendo e disfiorando il gillio:
106Guardatelo, com’ ei si batte il petto.
L’altro vedete che à fatto a la guancia
De la sua palma, sospirando, letto.
109Padre e socero fu del mal di Francia:17
Sanno la vita sua viziata e lorda,
E quinde viene il duol che sì li lancia.
112Quel che par sì membruto, e che s’accorda
Cantando con colui del maschio naso,
D’ ogni valor portò cinta la corda.
115E se re di po’ lui fusse rimaso
Lo giovinetto che dietro a lui sede,
Ben andava il valor di vaso in vaso;
118Che non si può dir sì dell’altre erede.
Iacopo e Federico ànno i reami;
Ma il retaggio millior nessun possede.
121Rade volte risurge per li rami
L’umana probità; e questo vuole
Quei che la dà, perchè da lui si brami.18
124Anco al Nasuto van le mie parole,
Non men che all’altro Pier, che con lui canta,
Unde Pullia e Provenza già si dole.
127Tanto è del seme suo minor la pianta,19
Quanto più che Beatrice e Margarita,
Gostanza di marito ancor si vanta.
130Vedete il re de la simplice vita
Seder là solo; Arrigo d’Inghilterra:
Questi à ne’ rami suoi millior uscita.20
133Quel che più basso tra costor s’atterra,
Guardando in su, è Guillielmo marchese,
Per cui et Alessandria e la sua guerra
136Fa pianger Monferrato e Canavese.21
- ↑ v. 2. For; foro, forono, terze plurali del perfetto, risultanti dalla terza persona singolare fo, unitovi ro o rono. E.
- ↑ v. 7. Rio; reità, come al canto iv, v. 46 dell’Inferno, e presso Fra Guittone « Quanto maggiore è rio, maggio si mostra ». E.
- ↑ v. 15. C. A. ove il nudrir
- ↑ v. 22. C. A. dello eterno regno,
- ↑ v. 41. C. A. n’è andar suso
- ↑ v. 45. C. A. è buon
- ↑ v. 47. Merrò; menerò, dove la sincope chiaramente apparisce dal raddoppiamento dell’r, come altrove misurrebbe. E.
- ↑ v. 47. C. A. Se ’l mi consenti, menerotti
- ↑ v. 48. Fier; fiero, fieno, cambiato l’n in r, e tratto dal futuro latino fient. E.
- ↑ v. 51. C. M. non seria
- ↑ v. 69. C. A. E quivi il
- ↑ v. 70. C. A. sghembo,
- ↑ v. 83. C. A. Cantando li sedere anime vidi,
- ↑ v. 84. C. A. per la valle parevan di fori.
- ↑ v. 99. C. A. Che monta in Albia — E così pure legge il Codice Estense. L’edizione di Vindelino à — Molta in Albia. E.
- ↑ v. 103. C. A. Nasuto,
- ↑ v. 109. C. M. e C. A. socero son del mal
- ↑ v. 123. C. A. da lui si chiami.
- ↑ v. 127. C. A. miglior la pianta,
- ↑ v. 132. C. A. minore uscita
- ↑ v. 136. C. A. e Carrarese.
COMMENTO
Poscia che l’accollienze ec. Questo è lo settimo canto nel quale l’autore tratta dell’ultima setta dei negligenti; cioè de’ signori che per le signorie temporali, quali impediti, ànno indugiato la penitenzia infine a la fine; e fa due cose principalmente: imperò che prima, tornando a la materia lassata, dice li ragionamenti che Virgilio ebbe con Sordello; ne la seconda descrive lo luogo dove li menò Sordello, dove trovonno li signori, quive: Tra erto e pian ec. La prima si divide in sei parti: imperò che prima finge l’autore come Sordello dimanda Virgilio chi elli è, e Virgilio si li manifesta; ne la seconda, come Sordello rallegrandosi a Virgilio, lo dimanda com’è venuto quie, e come Virgilio liel manifesta, quive: O gloria de’ Latin ec.; ne la terza manifesta Virgilio a Sordello lo luogo u’elli è deputato, e dimanda la via da montar suso, quive: Luogo è laggiù ec.; ne la quarta Sordello risponde a Virgilio al dubbio che mosse, e dimostra come di notte non si può sallire lo monte, e Virgilio dimanda de la cagione, quive: Rispuose: Loco certo ec.; ne la quinta finge come Sordello risponde a la dimanda di Virgilio, quive: E il buon Sordello ec.; ne la sesta finge come Virgilio, meravilliandosi, lo prega che li meni dove prima avea detto, quive: Allora il mio Signor ec. Divisa la lezione, è ora da vedere lo testo co la esposizione litterale et allegorica, o vero morale dove occorrerà.
C. VII — v. 1-15. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che Sordello, fatte le ricevute con Virgilio come si convenia e fu ditto di sopra, dimandò Virgilio chi elli era; e Virgilio si li manifestò, dicendo così: Poscia che l’accollienze; cioè li ricevimenti, oneste e liete: due cose tocca che si denno osservare quando li amici si riceveno insieme; prima che li atti siano onesti, abbracciandosi onestamente, chinandosi l’uno all’altro, e lo minore più che ’l maggiore; appresso che li volti siano lieti; cioè li occhi moderatamente aperti, la bocca ridente, e la faccia aperta, For iterate tre e quattro volte; cioè poi che Sordello e Virgilio s’ebbeno abbracciato e ricevuto l’uno l’altro tre e quattro volte, che sono sette volte. Questo numero puose l’autore, non perchè così fusse, nè perchè si debbia fare; ma finge questo, seguitando Virgilio che disse nel primo dell’Eneide: O terque, quaterque beati, Queis ante ora patrum ec. et in iv. Terque quaterque manu pectus percussa decorum; e nelli altri autori similmente si trova. E questo non fìnseno li autori sensa cagione: imperò che questi due numeri pognano, quando volliano importare o felicità, o miseria dell’omo; e così quando volliano importare o allegressa, o dolore, a mostrare la plenitudine de la passione: imperò che per lo numero ternario s’intendeno le tre potenzie dell’anima che la mostrano perfetta; cioè razionalità, irascibilità e concupiscibilità; et alcuna volta, memoria, intelletto e volontà. E per lo quaternario s’intendeno le 4 passioni dell’anima, che sono speransa, timore, allegressa e dolore, o vero li quattro umori di che è composto lo corpo; cioè melancolia che l’à de la terra, flemma da l’acqua1, sangue dall’aire, gollera del fuoco; li quali umori contemperati da la natura, sicchè bene che alcuno signoreggi, è sì contemperato co li altri che il corpo sta sano, danno denominazione a le complessioni; e quindi si dice complessione sanguinea, collerica, flegmatica, e melanconica. E quando questa temperanzia si stempera, che incomincino a soperchiare lo modo dato da la natura, allora informa lo corpo e conviensi reducere a sanità, ritornando al temperamento usato; unde, volendo mostrare che l’anima sia perfettamente felice o misera, o abbia allegressa o dolore, dimostrano che sia secondo le 3 potenzie, e secondo le 4 passioni suoe, o vero secondo le complessioni corporali; unde dice Macrobio, Super somnio Scipionis: Unde Virgilius nullius2 expers disciplinæ plene et per omnia beatos exprimere volens, ait: O terque quaterque ec. E così lo nostro autore, volendo mostrare che Virgilio e Sordello avesseno piena letizia di trovarsi insieme, finge che s’abbracciasseno tre e quattro volte, seguitando la poesi delli altri Poeti, la quale si dè intendere che, secondo luogo, si denno sponere quando per uno modo e quando per uno altro. Ecco Virgilio, quando finse che Enea dicesse dei morti a Troia, beati tre e quattro volte, intese che erano beati tre volte, perchè le tre potenzie; cioè memoria, intelletto e volontà erano fatte più acute in atto, separata l’anima, che quando era coniunta col corpo; e quattro volte, perchè erano liberati da le distemperanzie de le quattro complessioni; cioè sanguinea, collerica, flegmatica e melanconica. E quando disse Didone nel ìv: Terque quaterque manu pectus percussa decorum, intese; tre volte pentendosi et incolpando la concupiscienzia che fu troppo ardente, l’irascibilità che fu troppo tenace, la ragione che fu troppo debile; e per le quattro intese le quattro passioni; cioè l’allegressa incolpando che l’avea ingannata, e la speransa altresì, e lo timore che non l’avea rattenuta, e lo dolore che non l’avea occupata quando dovea. E così ora lo nostro autore intende per l’altra cagione tre volte e quattro volte, attendendo che la ricevuta dell’amico si dè fare lietamente et onestamente; e perchè l’allegressa àe prima movimento ne l’anima, e chiamasi iubilo; e poi esce nel volto e dilatasi per la faccia, e chiamasi letizia; e poi si sparge per tutto lo corpo e muovelo, e chiamasi esultazione; però fìnge che fusseno iterate tre volte per li tre atti dell’allegressa; e perchè a questo si richiedono quattro moderamenti acciò che sia onesta, però finge che fusseno iterate quattro volte. Dè essere moderato lo iubilo de la mente, altramente serebbe dissoluzione; dè essere moderata la letizia de la faccia, altramente serebbe stoltia; dè essere moderata l’esultazione del corpo, altramente serebbe pazzia o buffunaria; e dè essere moderazione ne l’adiunto che a queste tre cose s’adiunge alcuna volta; cioè nel parlare, che altramente parrebbe, o sarebbe o vanità o adulazione. E però finge l’autore che l’accogliense fussero iterate tre e quattro volte, per mostrare che le3 fusseno oneste e liete. Sordel si trasse; cioè in dirieto come denno fare le savie persone, che non denno stare con volto a volto; ma fatto li atti amichevoli si denno tirare in dirieto e poi parlare, e disse; cioè Sordello a Virgilio: Voi chi siete? Ecco che dimanda a Virgilio chi elli è, che ben che sapesse che fusse Mantovano, non sapea chi elli fusse; e parla in plurali per farli onore, e non si dè intendere che dimandasse di Virgilio e di Dante: imperò che la risposta lo dichiara. Anzi che a questo monte; cioè del purgatorio: ecco la risposta di Virgilio alla dimanda di Sordello ne la quale li dichiara, prima la condizione sua, e poscia lo nome dicendo: fosser volte L’anime degne di salire a Dio; cioè innanti che l’anime de’ iusti andesseno4 al purgatorio; cioè innanti a la passione di Cristo: imperò che innanti a quella tutte l’anime de’ iusti andavano al limbo, For l’ossa mie; dice Virgilio dell’ossa sue, per Ottavian sepolte; cioè per comandamento d’Ottaviano imperadore: secondo che l’autore disse di sopra, Virgilio moritte a Brandigi che è ne le fine d’Italia tra la Pullia e Calavria in sul mare Adriaco; o pure in Calavria, poscia per comandamento d’Ottaviano funno recate l’ossa suoe a Napuli, unde si disseno essere scritti questi versi nel suo sepulcro: Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua, rura, duces. E però si mostra che Virgilio morisse durante lo imperio d’Ottaviano; ne lo quale tempo Cristo nacque, e poi, imperante Tiberio, sostenne passione. Io son Virgilio; ecco si nomina Virgilio; secondo ch’io trovo, lo proprio nome del prefato autore fu Marco, e ’l sopra nome Virgilio, detto così dal padre che ebbe nome Virgilio, e la madre Maia come dice Servio; lo cognome fu Publio: imperò che fu d’una famillia mantovana chiamata Publia, e lo agnome suo fu Partenia; cioè commendato in tutta la vita. Ma perchè con questo nome Virgilio è più nominato che per li altri, però finge l’autore che si nominasse così. e per null’altro rio; cioè per nessuno altro peccato, Lo Ciel perdei; cioè la beatitudine del cielo perdetti, che per non aver fè; cioè per lo peccato de la infideltà: imperò che adorò l’idii dei Gentili. E qui occorre uno dubbio; cioè come potea Virgilio essere fedele: chè al tempo suo non era anco seminata la fede nel mondo: imperò che Cristo non predicava ancora? A che si dè rispondere che dovea credere in Cristo venturo, che era stato revelato per li Profeti; e chiunqua si salvò innanti l’avvenimento di Cristo, si salvò perchè credette in Cristo venturo; ma niente di meno stette nel limbo, infine a tanto che Cristo resuscitò. Così rispuose allora; cioè a Sordello, dice l’autore, il Duca mio; cioè Virgilio, che mi guidava per lo purgatorio; e bene lo chiama ora Duca, perchè seguitava la sua poesi. E fatta questa risposta, finge l’autore che Sordello si meravilliasse e tornasse ad abbracciare Virgilio con maggiore reverenzia, che non avea fatto prima, dicendo: Qual è colui; ecco che fa una similitudine, dicendo che tale si fe Sordello, quale è colui, che cosa inanzi a sè Subita vede; che non è proveduta, ond’ei; cioè unde elli, si meravillia; di quel che vede subito, Che crede e no; cioè nè ben crede, nè bene screde, dicendo: Ell’è, non è: cioè dentro a sè affermando e negando. Tal parve quelli; cioè Sordello, e poi chinò le cillia; quasi dolendosi de la condizione di Virgilio; cioè che tanto omo fusse privato de la beatitudine, Et umilmente ritornò ver lui; cioè Sordello verso Virgilio, Et abbracciollo; cioè Sordello Virgilio, ove il minor s’appillia; cioè dove lo minore; cioè l’omo di minore condizione s’appillia, quando s’abbraccia colui che è di maggiore. Et intorno a questo debbiamo sapere che, quando li maggiori abbracciano li minori, abbracciano al collo, e li minori abbracciano giuso li maggiori; cioè li non molto minori al ventre, e li molto minori a le cosce; e li pari amici s’abbracciano a le spalle. Potrebbesi dare una altra esponizione al testo, non mutando la sentenzia; cioè ove il minor; cioè lo fanciullo s’appillia, quando è nel ventre de la madre; cioè al bellico, unde l’omo quando è infante nel ventre de la madre, riceve lo nutrimento, e per quello sta coniunto co la matrice. O volliamo intendere ove lo minore; cioè lo fanciullo s’afferra, quando vuole abbracciare l’omo, che non aggiungendo più su, l’abbraccia a le cosce.
C. VII — v. 16-27. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Sordello dimanda Virgilio, se viene de lo inferno e di quale luogo; e come Virgilio a la dimanda risponde, dicendo così: O gloria de’ Latin, disse; cioè Sordello a Virgilio, chiamandolo gloria dei Latini: imperò che lo nome di Virgilio è gloria di tutti quelli che sono de la lingua latina, come Omero di tutti i Greci, per cui; cioè per lo quale Virgilio, Mostrò ciò che potea; mostrare, la lingua nostra; cioè latina d’eloquenzia e di poesi, O pregio eterno: imperò che in lungo tempo serà lodata et appregiata Mantova per lo nome di Virgilio, del loco und’io; cioè Sordello, fui: imperò che Sordello fu mantovano, come detto fu di sopra: imperò che speciale onore è di Mantova sì fatto nome come àe Virgilio, che appresso tutti li savi si dice Summus poetarum Virgilius —, Qual merito, o qual grazia mi ti mostra? Quasi dica Sordello: Io non abbo meritato di vederti: chi m’à conceduto tanta grazia e tanto meritato àe per me ch’io ti vegga? Quasi meravilliandosi di ciò, S’io son d’udir le tuoe parole degno; dice Sordello a Virgilio, secondo che finge l’autore per onore di Virgilio, Dimmi; tu, Virgilio, se vien d’Inferno, e di qual chiostra; cioè di qual chiusura: chè chiostra tanto vale quanto chiusura; e di qual luogo de lo inferno; unde l’autore aggiunge la risposta di Virgilio, dicendo: Per tutti i cerchi del dolente regno; cioè de lo inferno, dove stanno coloro che ànno pena e dolore, Rispuose lui; cioè Virgilio a Sordello, son io; Virgilio, di qua; cioè nel purgatorio, venuto; come tu vedi: Virtù del Ciel mi mosse; e qui conferma l’autore finalmente5 la finzione fatta da lui ne la prima cantica, e sposta per me quive, e con lei vegno; cioè co la grazia di Dio venia la ragione di Dante, significata per Virgilio. Non per far; alcuno peccato, s’intende, abbo perduto di vedere Iddio, ma per non far; cioè l’opre meritorie de le virtù teologiche, ò perduto; io Virgilio, Di veder l’alto Sol; cioè Iddio, che è il Sole dei Soli, che tu; cioè Sordello, disiri; cioè desideri, E che fu tardi da me cognosciuto; dice tardi, perchè nol cognove, se non poi che l’anima fu separata dal corpo. E dèsi intendere che l’autore alcuna volta prende Virgilio per la ragione sua e per lo intelletto suo col quale elli veda lo purgatorio, come ne le parole dette di sopra del suo venire de lo inferno al purgatorio, che non fu se non mentalmente trattando de le ditte materie; alcuna volta sè6 pillia pur Virgilio, come appare ne le dette parole; cioè Non per far ec. E qui debbiamo notare che li omini tutti si possano dividere in tre maniere: imperò che o elli sono virtuosi e fedeli, e questi vanno prima in purgatorio a purgarsi de la labe del peccato commesso nel mondo, e poi purgati vanno in paradiso; o elli sono viziosi e infideli, e questi sensa mezzo vanno a lo inferno dove seranno tormentati in perpetuo; o elli sono virtuosi et infideli, e questi se sono sensa peccato oltra quello de la infidelità, secondo la finzione dell’autore, vanno al limbo, che intese allegoricamente di quelli che sono nel mondo. Ma secondo la Santa Chiesa, passati di questa vita, vanno allo inferno: imperò che santo Agostino dice: Omnis7 infidelium vita peccatum est; et nihil est bonum sine summo bono: ubi enim deest agnitio æternæ et incommutabilis veritatis, virtus falsa est etiam in optimis moribus; ma l’autore seguitò ne la sua finzione quello che si tiene dei parvuli, che muoiano sensa battesimo, che si tiene che vadano al limbo; e però poeticamente finse l’autore che li omini scienziati virtuosi, che moritteno sensa battismo, siano nel limbo, e così Virgilio come appare in quil8 che seguita.
C. VII — v. 28-39. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che, poi che Virgilio ebbe manifestato la cagione del suo privamento de la beatitudine a Sordello, li manifestò lo luogo de lo inferno u’ elli era deputato per la Divina Iustizia, e dimandalo de la diritta via d’andare al purgatorio, dicendo così: Luogo è laggiù; cioè ne lo inferno, non tristo di martiri: imperò che nel limbo non sono tormenti; ma è come una pregione, Ma di tenebre sole: imperò che quive non riluce la grazia di Dio; ma stannovi li parvuli, che sono privati de la grazia di Dio che non ànno avuto lo battesimo, ove i lamenti; di coloro che vi sono imprigionati, Non suonan come guai; cioè non gridano, perchè non sono tormentati, ma son sospiri: imperò che sono dolori mentali, che ànno li parvuli, d’avere perduto in perpetuo di vedere la faccia di Dio, e di questo ànno sì grande dolore che sempre sospirano. Quivi; cioè in quel limbo; e chiamasi limbo: imperò ch’è intorno a la entrata de lo inferno, come ’l fregio si mette intorno all’estremità de le vesti, sto io; cioè Virgilio, secondo la finzione dell’autore, e li scentifici e valenti omini che sono stati al mondo virtuosi, coi parvuli innocenti: questo è vero, secondo che tiene la Chiesa che quive stiano li parvuli non batteggiati, Dai denti morsi de la morte, avante Che fusser dall’umana colpa; cioè dall’originale peccato, esenti; cioè liberati per lo battesimo. Quivi; cioè in quel luogo, sto io; cioè Virgilio, con quei che le tre sante Virtù; cioè fede, speranza e carità che sono virtù teologiche, de le quali tratterà l’autore, ponendo la loro diffenizione ne la tersa cantica, e però le lasso, non si vestir; cioè che noll’ebbeno, perchè infedeli, e senza vizio; cioè che non ebbe vizio, nè peccato oltra la infedelità, Cognover l’altre; cioè virtù cardinali; cioè iustizia, prudenzia, fortessa e temperanzia e le loro specie, e seguir; cioè seguitonno, tutte quante; non lassandone niuna. E per questo volse intendere, l’autore che questi così fatti, nel mondo non ànno altro mancamento che non cognoscere Iddio. Ma se tu sai, o puoi; ecco che dimanda che insegni la via del purgatorio; et onesta è la sua dimanda co la condizione, dicendo: Se sai o puoi: imperò che stolta cosa è dimandare quel, che si può negare ragionevilmente. Alcuno non si dè dimandare quel che non sa e quel che non può; e veramente chi è stato negligente a la penitenzia si può presumere che sia stato o per non sapere o per non potere, perchè s’àe lassato occupare dall’impacci del mondo, sicchè non si dè intendere precisamente non potere, alcuno indizio; cioè alcuno mostramento, Dà a noi; cioè a me Virgilio e Dante, perchè venir possiam più tosto Là dove Purgatorio à dritto inizio; cioè diritto principio. Lo diritto principio del Purgatorio a quelli del mondo è lo intramento a la penitenzia, lo quale è ignoto alli omini del mondo per le molte specie de la negligenzia; e per dimostrare questo, finge l’autore che Virgilio ne dimandi Sordello.
C. VII — v. 40-51. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che Sordello risponda a la dimanda di Virgilio; e come Virgilio li muove un dubbio, dicendo così: Rispuose; cioè Sordello a Virgilio: Loco certo non c’è posto; quasi dica: Noi negligenti stati a la penitenzia non abbiamo luogo certo: però che non si sono ordinati ad alcuno grado di quella. Licito m’è; dice Sordello, andar in suso; cioè per lo monte in verso lo purgatorio, e in torno; cioè per lo giro del monte; ma non d’entro infine a tanto che non è passato lo tempo de la negligenzia: e veramente così è; infine che l’omo non si costituisce d’andare ordinatamente per li gradi de la penitenzia, elli va errando quando in su, quando in giù, e quando d’intorno, Per quanto ir posso; cioè per quanto io posso montare, a guida mi t’accosto; cioè io ti vegno al lato per guida e come guida. Ma vedi già come dichina il giorno; cioè che si fa sera: imperò che ’l sole va a basso, Et andar su di notte non si puote; dice che di notte non si può montare lo monte in su; ma ben si può scendere e girare d’intorno. E questo si dè intendere allegoricamente di quelli del mondo che, mentre che ànno il giorno; cioè lo Sole ch’è cagione del giorno, che significa la grazia di Dio, possano montare in suso in verso il purgatorio; cioè in verso lo stato de la penitenzia; ma, venente9 notte che significa privamento de la grazia di Dio, si può scendere e mancare de la virtù acquistata, o andare intorno; cioè stare in uno medesimo stato. Però è ben pensar; cioè è buono a pensare, d’un bel soggiorno; cioè d’una bella dimora dove noi possiamo aspettare lo di’; cioè la grazia di Dio che venga sopra noi: allora è bella la dimora quando qualche cosa utile si fa in quel mezzo, sicchè non si perda lo tempo. Et adiunge quel che possano fare, dicendo: Anime sono a destra; cioè verso man ritta, qua remote; dall’altre, perchè sono l’ultima specie dei negligenti; cioè quelli che sono stati occupati ne le signorie temporali, Se mi consenti; cioè tu, Virgilio, se sè contento, io; cioè Sordello, ti merrò ad esse; cioè te Virgilio conducerò a loro, E non senza diletto ti fier note; cioè che pillierai diletto di cognoscerle. Com’è ciò? fu risposto; da Virgilio; cioè come è questo che tu dici? E muove lo dubbio, dicendo: chi volesse Salir di notte; cioè chi volesse andare in suso di notte, fora elli impedito D’altrui; cioè sarebbe elli impacciato da altrui, e pertanto non potrebbe sallire? E cusì sarebbe la cagione del non potere d’altrui, o non saria che non potesse; cioè o sarebbe ch’elli potesse; ma non volesse, s’intende: imperò che due negazioni importano affirmazione? Questa dubitazione muove l’autore per quelli del mondo, che di quelli del purgatorio non si dè intendere: imperò che sarebbe contro la verità: imperò che, come è ditto di sopra, l’anime passate di questa vita come sono passate in stato di penitenzia, vanno a purgarsi de la negligenzia e de li altri peccati commessi ne la vita presente nel purgatorio; ma quelli del mondo tanto tempo aspettano, quanto penano a venire a lo stato de la penitenzia. Et è ragionevilmente mosso questo dubbio: imperò che, se l’omo fusse impacciato d’altrui e non potesse venire a lo stato de la penitenzia, sarebbe scusato, quia ad impossibilia nemo tenetur; ma non è che non possa se elli vuole, e però iustamente è punito di tale negligenzia. La soluzione di questo dubbio è posta di sotto dall’autore.
C. VII — v. 52-60. In questi tre ternari lo nostro autore finge che Sordello risponda al dubbio da Virgilio mosso di sopra, dicendo: E il buon Sordello; cioè quel mantovano del quale fu ditto di sopra, in terra fregò il dito; facendo una riga col dito ne la polvere, Dicendo: Vedi; cioè tu, Virgilio: finge l’autore che Sordello parli pure a Virgilio, che significa la ragione: imperò che queste cose non può comprendere la sensualità, sola questa riga; cioè quella ch’avea fatta col dito in terra, Non valcheresti; cioè tu, Virgilio, di po’ il Sol partito; cioè poi che fusse fatto notte; e per questo Sole intende la grazia di Dio illuminante la quale illumina l’anima più, che il Sole non illumina lo mondo. E dice vero che, partita la grazia di Dio da l’anima, l’anima non può fare niuno atto meritorio; e però lo passare de la riga si dè intendere in suso all’opre meritorie; e, come detto è, si dè intendere di quelli che sono del mondo in stato di penitenzia, che sensa la grazia di Dio non possano sallire ai gradi meritori et alti de la penitenzia: imperò che l’anime del purgatorio non possano meritare, nè peccare; e solve lo dubbio posto di sopra, dicendo: Non però che altra cosa desse briga; cioè impaccio a chi volesse montare, Che la notturna tenebra; cioè la cechità che induce lo peccato: la grazia non può stare col peccato, e però quando l’anima è in peccato, è sensa la grazia di Dio; et essendo sensa la grazia, è cieca e non può montare all’opre meritorie; e però dice: ad ir suso; e così diventa impotente per sè medesmo per la cechità del peccato, del quale l’anima può uscire dimandando la grazia di Dio. E però la impossibilità non è assoluta; ma è condizionata; cioè che se l’omo è in peccato mortale, non può fare opra meritoria; ma non è che l’omo non possa assolutamente: et anco può l’omo cessare e rimovere la condizione, come detto è di sopra; cioè lo peccato, dimandando la grazia di Dio; e così si solve lo dubbio mosso di sopra, e questo è quello che dice l’autore. Quella; cioè la cechità del peccato, col non poter; che cagiona lo peccato: imperò che ’l non potere viene dal peccato, la vollia intriga; cioè impaccia la volontà e falla negligente, e non curasi di sallire a la penitenzia. Ben si poria con lei; cioè co la tenebra notturna, tornar in giuso; cioè descendcre dal monte; et allegoricamente si dè intendere che da l’altessa de la penitenzia si può descendere con la cechità del peccato: ma non sallire, E passeggiar la costa; cioè del monte, intorno errando; cioè andando intorno al monte errando; e per questo dà ad intendere che, stante la cechità del peccato, l’omo può anco errare nel grado de la penitenzia, a che elli è pervenuto, Mentre che l’orizonte il di’ tien chiuso; cioè mentre che il Sole sta sotto l’orizzonte nell’altro emisperio. Che sia orizonte è stato sposto di sopra, quanto alla lettera; ma quanto all’allegorie, orizonte significa lo peccato: imperò che come l’orizonte è circulo terminativo de la nostra vista: imperò che da l’orizonte in giù possiamo vedere; così lo peccato termina la vista dell’anima che non può vedere la grazia di Dio, sensa la quale ella diventa cieca et inabile a montare all’altezza de la penitenzia.
C. VII — v. 61-69. In questi tre ternari lo nostro autore finge che Virgilio dimandasse a Sordello che ’l menasse, ove l’avea preditto di menarlo, dicendo: Allora; cioè quando Sordello ebbe ditto le preditte cose, il mio Signor10 quasi ammirando; cioè meravilliandosi di quel che detto avea Sordello: finge l’autore che Virgilio si meravilli, per mostrare che la ragione umana, intesa per Virgilio, si meravillia, quasi che il peccato faccia l’omo così inabile al montare; ma non a lo scendere, o a lo stare in uno medesimo grado et in quello errare. Menane dunque, disse; a Sordello, là ove dici; tu, Sordello, Che aver si può diletto dimorando; cioè stando e non montando lo monte si può avere alcuno diletto; e così si misseno in via, unde dice: Poco allungati c’eravam di lici; cioè del luogo dove prima eravamo in via; unde dice l’autore: Quando; cioè io Dante, m’accorsi che il monte era scemo; cioè avea concavità e valle, sicchè non girava tondo; e però dice: A guisa che i vallon si sceman quici; cioè nel mondo. Questa finzione è conveniente, secondo la lettera: imperò che li monti ànno nel mondo tutti valle; ma allegoricamente intese di quelli che sono nel mondo in stato di penitenzia, che non montando descendeno: imperò che perdeno quel tempo che stanno sensa montare a la virtù più alta; e così vanno a stare ne la valle, che significa descenso. Colà, disse quell’ombra; cioè Sordello, dimostrando la valle, n’anderemo; cioè noi tre, Dove la costa; del monte, face di sè grembo; cioè fa valle, E là il nuovo giorno attenderemo; cioè aspetteremo lo di’ di dimane; cioè, allegoricamente, lo nuovo avvenimento de la grazia illuminante: imperò che, se Iddio continuamente non illuminasse le nostre menti co la sua grazia, noi erreremmo11 sempre.
Tra erto e pian era un ec. Questa è la seconda lezione del canto settimo, ne la quale descrive lo luogo dove li menò Sordello: e finge come quive trovasse quella brigata di negligenti, che erano stati occupati de le signorie mondane, e contane assai. Dividesi la lezione in sei parti: imperò che prima l’autore descrive la via e lo luogo molto dilettevile, dove erano li signori stati negligenti a la penitenzia per l’occupazione de le signorie; ne la seconda finge che Sordello, d’uno balso alto sopra la valle, mostra loro li signori che erano nella valle, e prima lo imperadore Rodolfo, quive: Prima che il poco Sole ec.; ne la terza finge che mostri loro alquanti, che funno regi nel mondo, quive: L’altro, che nella vista ec.; ne la quarta, come Sordello mostra loro alcuni dei re di Ragona, quive: Quel che par sì membruto, ec.; ne la quinta finge l’autore che Sordello risponda ad uno dubbio, che si può muovere per lo ditto di sopra, quive: Rade volte risurge ec.; ne la sesta finge l’autore che Sordello dimostri loro lo re d’Inghilterra, chiamato Arrigo e il marchese Guillielmo di Monferrato: Vedete il re ec. Divisa la lezione, ora è da vedere l’esposizione litterale col testo et allegorie.
C. VII — v. 70-84. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che lo luogo, dove li menò Sordello, era molto dilettevile; e descrive la via per la quale v’andonno e lo luogo, dicendo così: Tra erto e pian; cioè in quel mezzo era la via nè ben ritta, nè ben piana, come convien che sia nei monti, o in parte ritta, et in parte piana; prima ritta e poi piana, e così è mellio, era un sentero; cioè una via piccula e stretta come sono le vie de’ monti: è sentero sincopato del semitiero, diminutivo de la semita, che è piccula via posta al lato a le fine dei campi; cioè secus metas, vel segregans metas — , ghembo; cioè torto come conviene che girino le vie dei monti, come girano li monti; ghembo è torto in su e curvo, e lembo è torto in giù e curvo in giù, Che noi; cioè Virgilio e Sordello e me Dante, condusse al fianco; cioè all’altessa, de la lacca; cioè de la valle, dove lo monte incomincia a chinare ne la valle, Là dove più che a mezzo muore il lembo; cioè in quel luogo nel quale, il lembo; cioè lo curvo in giù ch’era ne la valle, muore; cioè incomincia a venire meno in verso l’altessa de la12 via, più che a mezzo; cioè passata la metà de la sua concavità: lembo in questa parte significa piegatura in giuso; cioè concavità, unde si dice gualembo. E per questo dà ad intendere l’autore che elli montonno in suso e poi andonno per piano, infine al fianco de la valle; e per questo intende che la condizione de la quale àe a trattare è più alta che la passata: però che qui si tratta dei signori, e quive si trattò de li uomini privati. E poi ch’à descritto la via per la quale andonno e dove si fermonno, descrive lo luogo dicendo che era bellissimo alla vista siccome di vari preziosissimi colori, dicendo: Oro et argento fino; questi due metalli ànno due colori con splendori più preziosi che si trovino; cioè l’oro, lo giallo; e l’argento fino, lo bianco, cocco; è colore vermillio, e biacca; che è bianchissima cosa: archimiata13 è la biacca che si fa del fungo del piombo, appiccato sopra l’aceto, Indico; questo è uno colore azurro, legno lucido; questo è la quercia fracida che, quando è bagnata, riluce di notte come fanno molti vermi, e sereno; cioè come lo colore dell’aire chiaro e puro; cioè non macchiato, del legno s’intende quando è ben puro e chiaro, Fresco smiraldo; cioè spiccato di nuovo dall’altra pietra, allora che si fiacca; dice, perchè stando, perde del suo chiarore: questa è pietra verde; e così à toccato l’autore tutti li più belli colori che si trovino; cioè giallo, bianco con splendore, bianco puro, vermillio, azurro, lucido, puro e verde: tutti questi colori Posti, dentro a quel seno; cioè dentro in quella valle a la quale erano venuti, saria ciascun; de le preditte cose, vinto di color; cioè avansato, Dall’erba e da li fior; che in quella valle erano; e per questo mostra la belessa dei colori che dilettavano la vista, Come da suo maggior è vinto il meno; cioè come lo più vince lo meno; e così mostra che fusseno avansate dall’erba e da’ fiori le preditte cose. E come àe ditto dei colori che dilettano la vista; così dice ora delli odori che dilettano l’odorato, dicendo: Non avea pur natura ivi dipinto; cioè non solamente la natura avea quive colorato di vari colori, come fa chi dipinge; Ma di soavità di mille odori; cioè che quine olivano14 mille soavi odori, e tutti tornavano in uno composto odore, che non si potea cognoscere distintamente di che fusse; e però dice: Vi facea; cioè la natura facea quive, un; cioè odore, incognito indistinto; cioè meschiato che propiamente non si cognoscea, sicchè si potesse dire: Questo odore è di rose, o di viole, o di niepita, o di timo; ma era d’ogni erba e fiore ulimoso15 insieme. Salve Regina; questa orazione canta la Santa Chiesa la sera a Compieta. E però finge l’autore che la cantasseno quelle anime quando già si facea sera, per dimostrare che allegoricamente intendea di quelli del mondo, che sono ine l’apparecchio de la penitenzia che sono de la congregazione de la Santa Chiesa; e così finge che cantino la mattina: Iam lucis orto sidere — . in sul verde; cioè dell’erbe, e in su’ fiori; che erano ne la valle, Quindi; cioè del fianco alto de la valle, seder, cantando; cioè stare a sedere e cantare: Salve, Regina misericordiœ ec. ch’è salutazione devotissima a la Vergine Maria, e preghiera come appare in essa, anime vidi; cioè io Dante che cantavano la detta orazione, e sedeano in su l’erbe et in su’ fiori, Che; cioè le quali anime, per la valle; che era bassa giuso, non parean di fori; cioè non si vedeano di fuori innanti che s’accostasseno ad essa. Et è da notare che non sensa cagione finge l’autore questo luogo così dilettevile più a questi negligenti, che alli altri. Anco se ne può rendere questa ragione; cioè che l’autore a volsuto dimostrare che li stati dei signori sono atti a tutte le virtù politiche e teologiche, mostrando per le cose nominate eccellenti in colori le dette virtù; cioè per l’oro la iustizia, per l’ariento la prudenzia, per lo indico la fortessa, per lo legno lucido e sereno la temperansa, per la biacca la fede, per lo cocco la carità, per lo smiraldo la speransa. Li quali colori erano16 iunti dai colori de le dette virtù; e per li odori, li atti virtuosi li quali ulimisceno17 sopra tutti li odori; e sono sì collegate le virtù insieme, che li loro atti non possano essere distinti; anco sono meschiati di tutte le virtù. E per questo dimostra che coloro, ch’elli finge essere in questo luogo, funno omini che potetteno essere adornati di virtù politiche e teologiche, e per l’occupazione di signorie funno negligenti a la penitenzia; sicchè convenientemente finge a loro lo luogo dilettevile; e per mostrare allegoricamente che quelli che sono nel mondo in sì fatto stato ulimire18 denno e risplendere a tutto ’l mondo co le loro teologiche virtù politiche, e per aver la grazia di Dio illuminante ogni di’ chiamare l’aiuto de la Vergine Maria, salutandola e pregandola ch’avvochi per loro, e denno stare ne la valle; cioè umiliarsi lassando l’arroganzia de la signoria.
C. VII — v. 83-96. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che Sordello mostri loro di sul balso di quelli signori che erano ne la valle uno imperadore, dicendo così: Prima che il poco Sole; questo dice, perchè poco restava del di’, omai; cioè ingiummai, s’annidi; cioè si corrichi, secondo li vulgari che così parlano, Cominciò il Mantovan; cioè Sordello; e perchè s’intenda di lui e non di Virgilio, aggiunge: che ci avea volti; cioè me Dante e Virgilio da la montata, e menatoci al balso. E questo finge l’autore, per confermare quel che è ditto di sopra; cioè che sensa la grazia illuminante di Dio niente potremmo comprendere, nè ricordarci. Questi non mostrava Sordello a Virgilio et a Dante, quanto a la verità; ma la ragione e lo intelletto di Dante si ricordava di loro, o forsi Dante li avea letti nel suo Tesoro; cioè di Sordello; e però finge ch’elli lie nomini e dimostri. Fra color; cioè tra quelle anime che sono ne la valle, non volliate; cioè tu, Virgilio, e Dante, ch’io; cioè Sordello, vi guidi; cioè innanti che si faccia sera, non volliate ch’io vi meni giuso, ch’io vi menerò poi che s’è fatto sera. Et assegna la cagione perchè, dicendo: Da questo balzo; cioè da questa altessa che è sopra la valle, mellio e li atti e’ volti Cognoscerete voi; cioè tu, Virgilio, e Dante, di tutti quanti; cioè coloro che sono ne la valle, Che ne la lama; cioè nel luogo basso: lama e lacca è luogo concavo e basso, giù tra essi accolti; cioè stando con loro. Colui che più siede alto; fìnge che segga più alto che li altri, perchè ebbe la maggior dignità che si possa dare nel mondo, e fa sembianti; cioè viste et atti, D’aver negletto; cioè d’aver per negligenzia lassato, ciò che far dovea; cioè quando era nel mondo: li atti e li sembianti de la negligenzia avuta nel mondo erano, ch’elli stava pensoso e malanconoso col capo chinato e co la mano a la gota, E che non muove bocca alli altrui canti; cioè che non canta Salve Regina, benchè vegga cantar li altri, Rodolfo imperador; questi fu de la casa dei duci d’Austerich; e fu imperadore per li Alamanni e non passò in Italia, secondo che altri scrive; ma io credo che passasse: imperò che non si chiamerebbe imperadore, se non fusse coronato. Ma perchè non dirissò Italia come potea e dovea, stando in essa, e però dice: fu, che potea Sanar le piaghe; cioè le divisioni, ch’ànno Italia morta; cioè disfatta, Sì che tardi per altri; cioè per altro imperadore, si ricrea; cioè si riduce Italia ne lo stato buono e felice19 che ebbe prima. E per questo che dice l’autore, pare che questo imperadore avesse lo destro di sanare Italia, come l’ebbe lo imperadore Carlo di Boemia al tempo nostro, se avesse volsuto: chè tutte le città l’obbedivano et aprianoli le porte, salvo che Fiorenza, che anco liel arebbe aperte se fusse stato fermo: chè già li aveano incominciato a dare tributo li Fiorentini; ma elli non ebbe animo a ciò, come sa chi fu a quel tempo; cioè nel 1355. E così fece Rodolfo, che non ebbe animo d’acconciare Italia; e fìnge che non s'accorda colli altri a cantare, per mostrare che nel mondo non seguitò le maniere delli altri virtuosi signori; ma indugiò molto e fu negligente a la penitenzia, come alli altri atti virtuosi.
C. VII — v. 97-111. In questi cinque ternari finge lo nostro autore che Sordello mostri loro alquanti; cioè tre che funno regi del mondo, dicendo così: L’altro, cioè re, che è a parlamento co lo imperadore detto di sopra, che; cioè lo quale, nella vista; cioè come appare, lui; cioè Rodolfo detto di sopra, conforta; cioè dandoli buona speransa che tosto finirebbe la purgazione de la sua negligenzia, per li preghi fatti per lui nel mondo, si può convenientemente intendere. E questo finge l’autore, per mostrare che li negligenti che sono nel mondo confortano ne la vista l’uno l’altro, quando per uno buono esemplo che l’uno fa muovere l’altro; et anco si può intendere che lo confortasse, quando era nel mondo nei fatti de lo imperio. E però finge questo l’autore, e massimamente perchè questo re Ottachero di Boemia fu valoroso signore, Resse la terra; cioè Boemia: imperò che fu re di Boemia; e descrive Boemia per due fiumi, che l’uno si chiama Molto, e l’altro Albia; e Molto entra in Albia, et amburo se ne vanno in mare insieme meschiati; e però dice: dove l’acqua nasce, Che; cioè la quale, Molto; cioè quel fiume così chiamato, in Albia, cioè in quell’altro fiume ne porta, s’intende, perchè seguita poi, et Albia; cioè lo detto fiume, in mar ne porta; perchè in mare cade Albia, e Molto in Albia, Ottachero ebbe nome; dice che questo re di Boemia ebbe nome Orrachero, o vero Ottachero; e fu virtuoso omo a rispetto del suo fìlliuolo Vinceslaio, che era re di Boemia al tempo che l’autore finge che avesse questa fantasia, lo quale fu omo molto lussurioso e mondano; e però dice: e ne le fasce; cioè quando fu picculino infante, Fu melilo assai; cioè Orrachero, che Vinceslaio suo fillio Barbuto; cioè quando fu fatto omo co la barba, cui; cioè lo quale Vinceslaio, lussuria et ozio pasce; come detto fu ne la prima cantica, lussuria non sta solamente nel coito; ma in ogni superchio uso de le cose naturali: ozio è pigressa, e massimamente dall’opere virtuose, benché alcuna volta si pillia per ]a quiete de la mente. E quel Nasetto; ora Sordello dimostra a Virgilio et a Dante lo re Filippo di Francia, lo quale fu nasello: imperò che ebbe picculo naso, e però dice Nasetto, che stretto a consillio Par con colui che à sì benigno aspetto; cioè col re Gullielmo di Navarra, che fu fìlliuolo del buon re Tebaldo, re di Navarra del quale fu detto ne la prima cantica, Morì fuggendo: imperò che in una battallia che ebbe, fuggendo fu morto lo detto re Filippo, e disfiorando il gillio: lo gillio è l’arme de la casa di Francia; cioè gillio e rastello d’oro nel campo azzurro, e però si dice sfiorare lo gillio: imperò che fece vergogna a la casa sua, fuggendo in battaglia. Guardatelo; dice Sordello a Virgilio et a Dante, com’ei; cioè come elli, si batte il petto; come fa chi si rende in colpa. L’altro vedete; voi, Virgilio, e Dante; cioè lo re Gullielmo sopra ditto, che à fatto a la guancia De la sua palma, sospirando, letto; cioè che si tenea la gota in su la mano, e sospirava e portava dolore de la sua negligenzia avuta nel mondo. Padre e socero fu; questo dice, perchè lo detto re Filippo 20 lassò di po’ la sua morte uno suo fìlliuolo, che fu chiamato re Filippo secondo che fu genero del detto re Guillielmo di Navarra; e però dice 21 quando funno padre; cioè lo re Filippo primo, del re Filippo secondo; e suocero, lo re Guillielmo di Navarra, del re Filippo di Francia, del mal di Francia; cioè de le guerre e de le disensioni che sono, in Francia, Sanno; costoro du’; lo re Filippo primo e lo re Gullielmo di Navarra, la vita sua viziata e lorda; essendo stati cagione de le guerre e de le divisioni; ma pentittensi a la fine, come finge l’autore, e però non funno perduti; ma ora aveano dell’opere loro grande pentimento e dolore, e però dice: E quinde viene il duol che sì li lancia; cioè lo dolore che sì li tormenta.
C. VII — v. 112-120. In questi tre ternari lo nostro autore finge che Sordello mostrasse loro lo re di Ragona, e lo re di Sicilia, dicendo: Quel che par si membruto; dice Sordello a Virgilio et a Dante; questi fu don Petro re di Ragona, che fu hello omo de la persona e formato e virtuoso, e che s’accorda Cantando con colui del maschio naso; questo fu lo re Carlo primo di Pullia, aulo del re Roberto, ditto Carlo primo, conte di Provenza e padre di Carlo secondo, lo quale fu sciancato, padre del re Roberto et ebbe grande naso, e però dice del maschio naso, perchè li omini ànno maggior naso che le femmine; e dice che s’accorda cantando: imperò amburo funno d’uno valore e d’una virtù. D’ogni valor portò cinta la corda; cioè fu valoroso re in ogni cosa: la corda, come fu sposto ne la comedia prima nel canto xvi, significa legamento, sicché per questo si dà ad intendere ch’elli era legato et obligatosi ad ogni valore. E se re di po’ lui; cioè di po’ questo don Petro, fusse rimaso Lo giovinetto che dietro a lui sede; cioè don Alfonso suo filliuolo, lo quale moritte giovane innanti che fusse re, Ben andava il valor di vaso in vaso; cioè bene seguia lo valore dell’animo del fìlliuolo lo valore del padre, Che non si può dir sì; cioè come si dice di don Alfonso, dell’altre erede; cioè di don Iacopo re di Ragona e don Federico re di Sicilia, li quali funno anco fìlliuoli del detto don Petro re di Ragona; ma nessuno di questi fu valoroso come lo padre; e però dice: Iacopo e Federico ànno i reami; cioè sono regi, cioè Iacopo de Ragona; e Federico di Sicilia, Ma il retaggio millior nessun possede; cioè ma nessuno di loro, benché abbiano lo retaggio de’ reami, à lo retaggio de la valoria e de la virtù ch’è milliore che quello de’ reami. Può anco dire lo testo: Che il retaggio ec. et allora s’intende, dei quali nessuno possiede lo retaggio milliore de la vaioria e virtù, benché abbia quello de’ reami; e questo dice, perchè questi du’ regi funno viziosi.
C. VII — v. 121-129. In questi tre ternari lo nostro autore finge che Sordello, per la materia detta di sopra, dica uno bello notabile; e poscia ritorni a dire del re Carlo sopra ditto, dicendo così: Rade volte; questo dice, perchè alcuna volta avviene che il fìlliuolo simillia ne la virtù al padre, benché di rado; e però dice: risurge per li rami L’umana probità; cioè l’umana virtù rade volte si rileva nei fìlliuoli, come la virtù del troncone de l’albaro nei suoi rami; et è qui comparazione da l’affirmativa a la negativa; cioè che, benché la virtù de lo stipite de l’arbaro risurga nei suoi rami, rade volte risurge la virtù del padre nei filliuoli, benché pur alcuna volta si trovi; et assegna la cagione, dicendo: e questo vuole; cioè che così sia, come ditto è, Quei che la dà; cioè Iddio che è datore di tutte le virtù, perchè da lui si brami; cioè si desideri e dimandisi: et altro testo dice: si chiami; cioè si reputi avere da lui; cioè da Dio: e così è veramente che, benché il filliuolo sia virtuoso come il padre, da Dio l’à, e non dal padre. Anco al Nasuto; cioè al re Carlo primo di Pullia, van le mie parole; dice Sordello che quello che àe ditto dei du’ filliuoli di don Piero di Ragona, dice del filliuolo del re Carlo primo di Pullia, re di Sicilia e conte de Proensa, lo quale ebbe uno fìlliuolo che fu re di Pullia, padre del re Roberto e conte di Proensa come detto è di sopra, e similliò in virtù al re Carlo primo come li filliuoli di don Piero di Ragona non simillionno al detto don Piero, lo quale ebbe per donna madonna Gostanza filliuola del re Manfredi di Sicilia, e per lei venne lo regno di Sicilia al filliuolo; cioè a Federico lo quale ebbe per donna Beatrice filliuola di ...... 22 e l’altro; cioè Iacopo re di Ragona ebbe per donna Margarita filliuola di ....... Non men che all’altro Pier; ditto di sopra; cioè don Piero re di Ragona, che con lui; cioè col re Carlo primo re di Pullia, ditto di sopra, canta: imperò che amburo àe finto che cantasseno insieme, Unde Pullia e Provenza; che erano sotto li filliuoli del ditto re Carlo primo; cioè sotto Carlo Marcello secondo, già si dole; cioè del suo male reggimento che fa lo ditto Carlo secondo. Tanto è del seme suo minor la pianta; questo dice di don Piero re di Ragona e dei filliuoli, facendo una comparazione; cioè che tanto è minore la pianta; cioè li filliuoli di don Piero di Ragona; cioè don Iacopo e don Federico, del seme suo; cioè del detto don Piero loro padre, Quanto più che Beatrice e Margarita; che funno donne dei filliuoli di don Piero, Gostanza; che fu donna del detto don Piero, di marito ancor si vanta; cioè d’avere avuto sì fatto marito, cioè don Piero. E dennosi ordinare le parole in questa forma; tanto più sono stralignati li filliuoli di don Piero dal ditto don Piero, quanto più si vanta Gostansa, donna del ditto don Piero, di marito che Beatrice e Margarita, donne dei ditti suoi filliuoli, dei lor mariti.
C. VII — v. 130-136. In questi due ternari et uno versetto finge lo nostro autore che Sordello mostri a Virgilio et a lui Arrigo d’Inghilterra, e Guillielmo marchese di Monferrato, dicendo: Vedete; cioè tu, Virgilio, e Dante, il re de la simplice vita: vita simplici 23 è quanto al corpo, quando l’omo vive simplicemente di quello che è necessario alla vita, come d’una vivanda, d’una veste, e così dell’altre cose; quanto all’animo, quando l’omo non è doppio nel suo parlare e nell’operare simplicimente dice lo vero, e simplicemente opera quel che è virtù, e non mostra una cosa per un’altra; e di questa vita fu lo re Arrigo d’Inghilterra lo quale fu virtuoso omo secondo le virtù politiche, et ebbe virtuosi filliuoli; e però dice: Seder là solo; per mostrare ch’elli nel mondo ebbe vita singulare; e però fìnge che quive segga solo, perchè non v’era re di vita simile stato nel mondo, secondo la memoria dell’autore. Arrigo d’Inghilterra; ecco che ’l nomina: Inghilterra è una isula nel mare oceiano, più a settentrione che ad occidente, chiamata anticamente Britagna, e pogo è di lungi da la terra ferma. Questi; cioè lo re Arrigo, à ne’ rami suoi; cioè ne’ filliuoli che sono dal padre usciti, come il ramo dall’arbore, millior uscita: però che seguitonno li costumi del padre; e però dice che ebbe millior uscita, perchè riuscitteno milliori che’ filliuoli di don Piero di Ragona, e del re Carlo di Pullia. Quel che più basso tra costor s’atterra; cioè s’accosta più a la terra sedendo più basso che li altri, perchè non fu del grado loro: chè li altri erano stati regi, e questi fu marchese, Guardando in su: imperò che vuole mostrare l’autore che avea desiderio di montare al purgatorio, e però finge l’autore che guardasse in su, è Guillielmo marchese; ecco che lo nomina: questi fu marchese di Monferrato e fu preso dalli Alessandrini suoi sudditi e messo in pregione e quive morì, e però molta guerra fu fatta da quelli del Monferrato e del Canavese, che era del suo destretto 24, colli Alessandrini in vendetta del loro signore; e però dice: Per cui; cioè per lo quale Guillielmo marchese, et Alessandria; questa è una città ch’è nel Piemonte vicina a Monferrato, e la sua guerra; questo dice, perchè li filliuoli feceno guerra colli Alessandrini per vendetta del padre, Fa pianger; cioè dolere et avere tribulazione: però che de le guerre s’àe pianto e tribulazione, Monferrato; questo è uno monte dell’alpe d’Appennino, da che si nomina tutta la contrada, e Canavese; questa è anco una contrada sotto lo ditto marchese di Monferrato, che anco ebbe tribulazione per la ditta guerra. E qui si può muovere uno dubbio, perchè finge l’autore che Sordello mostrasse loro questi signori? A che si può rispondere che Sordello nel suo Tesoro fece menzione dei ditti signori, lo quale l’autore vidde e lesse; e però finge che Sordello ora li dimostrasse a Virgilio et a lui. Seguita lo canto ottavo, finito lo canto settimo.
Note
- ↑ C. M. da l’acqua, collera da l’aire, sangue dal fuoco
- ↑ C. M. Virgilius non expers
- ↑ Le; per elle od elleno, accorciamento sempre vivo in molti luoghi della Toscana. Il simile è a dire del singolare gli, la in vece di egli ed ella. E.
- ↑ Andesseno; da andare, verbo della prima ridotto alla seconda coniugazione. E.
- ↑ C. M. l’autore similmente la fizione
- ↑ C. M. si pillia
- ↑ C. M. Omnium infidelium
- ↑ C. M. in quel che — Il Riccardiano legge quil che noi lasciamo, perchè non raro si rinviene appo i Classici, i quali forse lo tolsero da’ Siciliani, come quisto in cambio di questo. Matteo Spinello «In questo tiempo»; anzi quillo è voce primitiva, da hic ille. Si à presso il Faggiuoli Com. «Come potev’io darvi quil ch’io aveo bisogno per mene?».
- ↑ C. M. ma, essendo notte
- ↑ C. M. Signor; cioè Virgilio, quasi
- ↑ C. M. erreremo
- ↑ C. M. della valle, più
- ↑ Archimiata, alchimiata, per la mutazione delle due liquide r ed l. E.
- ↑ C. M. quine ulivano
- ↑ C. M. fiore ulissimo insieme.
- ↑ C. M. erano vinti alle ditte virtù e del coloro loro; e per li odori,
- ↑ C. M. utisceno
- ↑ C. M. ulire
- ↑ Doveano scorrere più di cinque secoli, prima che il voto del sommo Poeta e d’ogni cuore gentile si adempisse, e non per un imperadore di Germania; ma di Francia, natio della medesima Italia. E.
- ↑ C. M. Filippo però ch’elli lassò
- ↑ C. M. dice che funno
- ↑ I nostri Codici non ci danno il nome del padre di Beatrice, e di Margarita, il quale fu re Carlo II il Zoppo, che ebbe in moglie la figliuola del conte Raimondo Berlinghieri. E.
- ↑ Simplici, colla desinenza in i al singolare, come leggieri, pari, tardi ec. E.
- ↑ C. M. distretto, con li Allessandrini