Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto V

Purgatorio
Canto quinto

../Canto IV ../Canto VI IncludiIntestazione 14 marzo 2024 100% Poemi

Purgatorio - Canto IV Purgatorio - Canto VI
[p. 98 modifica]

C A N T O     V.

___________


1Io era già da quelle ombre partito,
     E seguitava l’orme del mio Duca,
     Quando dirieto a me, drizzando il dito,
4Una gridò: Ve’, che non par che luca1
     Lo raggio da sinistra a quel di sotto,
     E come vivo par che si conduca.
7Li occhi rivolsi al suon di questo motto,2
     E viddili guardar per meravillia
     Pur me, pur me, e lume ch’era rotto.3
10Perchè l’animo tuo tanto s’impillia,
     Disse il Maestro, che l’andar allenti?
     Che ti fa ciò che quivi si pispillia?
13Vien dietro a me, e lassa dir le genti:
     Sta come torre ferma, che non crolla
     Giammai la cima per soffiar de’ venti:
16Chè sempre l’omo, in cui pensier rampolla
     Sovra pensier, da sè dilunga il segno,
     Perchè la foga l’un dell’altro insolla.
19Che poteva io dir, se non: Io vegno?4
     Dissilo, alquanto del color cosperso,5
     Che fa l’om di perdon tal volta degno.

[p. 99 modifica]

22Intanto per la costa da traverso
     Venien gente dinanzi a noi un poco,6
     Cantando Miserere a verso a verso.
25Quando s’accorser, ch’io non dava loco,
     Per lo mio corpo, al trapassar de’raggi,
     Mutar lor canto in uno O lungo e roco;
28E du’ di lor in forma di messaggi
     Corsero incontra noi, e dimandarne:
     Di vostra condizion fatene saggi.
31E il mio Maestro: Voi potete andarne,
     E ridir a color che vi mandaro,7
     Che il corpo di costui è vera carne.
34Se per veder la sua ombra restaro,
     Com’io avviso, assai è lor risposto:
     Faccianli onore, et esser può lor caro.8
37Vapori accesi non vidd’io si tosto
     Di prima notte mai fender sereno,
     Nè, sol calando, nuvule d’agosto,
41Che color non tornasser suso in meno;
     E giunti là, colli altri a noi dien volta,910
     Come schiera che scorre senza freno.
43Questa gente, che preme a noi, è molta,
     E vegnonti a pregar, disse il Poeta;
     Però pur va, et in andando ascolta.11

[p. 100 modifica]

46O anima, che vai per esser lieta,
     Con quelle membra co le quai nascesti,
     Venian gridando, un poco il passo queta.
49Guarda se alcun di noi unqua vedesti,
     Sì che di lui di là novelle porti:
     Deh perchè vai? deh perchè non t’arresti?
52Noi fummo tutti già per forza morti,
     E peccatori infine a l’ultima ora:
     Quivi lume del Ciel ne fece accorti,
55Sì che, pentendo e perdonando, fora
     Di vita uscimmo a Dio pacificati,
     Che del disio di sè veder ne accora.
58Et io: Perchè ne’ vostri visi guati,
     Non ricognosco alcun; ma se a voi piace
     Cosa ch’io possa, spiriti ben nati,
61Voi dite, et io farò per quella pace,
     Che dietro a’ piedi di sì fatta Guida,
     Di mondo in mondo cercar mi si face.
64Et uno incominciò: Ciascun si fida
     Del beneficio tuo senza giurarlo,
     Pur che il voler non posse non ricida.12
67Und’io, che solo, inanzi alli altri parlo,13
     Ti prego, se mai vedi quel paese
     Che siede tra Romagna e quel di Carlo,
70Che tu mi sii de’ tuoi preghi cortese14
     In Fano, sì che ben per me s’adori,
     Perch’io possa purgar le gravi offese.
73Quindi fu’ io; ma li profondi fori,
     Unde uscì il sangue, in sul quale io sedea,
     Fatti mi funno in grembo alli Antenori,15

[p. 101 modifica]

76Là dove più siguro esser credea:
     Quel da Esti il fe far, che m’avea in ira16
     Assai più là che il dritto non volea.17
79Ma s’io fusse fuggito inver la Mira,
     Quando fu’ sopraggiunto a Doriàco,18
     Ancor serei di là dove si spira.
82Corsi al padule, e le cannucce e il braco
     M’appigliar sì, ch’io caddi, e lì vidd’io19
     De le mie vene farsi in terra laco.
85Poi disse un altro: Deh se quel disio
     Si compia che ti tragge all’alto monte,
     Con buona pietade aiuta il mio.
88lo fui di Montefeltro, io son Bonconte:
     Giovanna, e li altri non àn di me cura;20
     Perch’io vo tra costor con bassa fronte.
91Et io a lui: Qual forza, o qual ventura
     Ti traviò sì fuor di Campaldino,
     Che non si seppe mai tua sepultura?
94Oh, rispuose elli, a piè del Casentino
     Traversa un’acqua che à nome l’Archiano,
     Che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
97Dove il vocabul suo diventa vano,
     Arrivai io, forato ne la gola,
     Fuggendo a piede, e sanguinando il piano.21
100Quivi perdei la vista, e la parola
     Nel nome di Maria finio; e quivi
     Caddi, e rimase la mia carne sola.

[p. 102 modifica]

103Io dico il vero, e tu il ridì tra’ vivi:
     L’Angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
     Gridava: O tu del Ciel, perchè me privi?
106Tu te ne porti di costui l’eterno
     Per una lagrimetta ch’el mi tollie;
     Ma io farò dell’altro altro governo.22
109Ben sai come nell’aire si raccollie
     Quell’umido vapor che in acqua riede,
     Tosto ch’ei sale dove il freddo collie.23
112Giunto quel mal voler, che pur mal chiede,24
     Co lo intelletto mosse e il fumo e il vento25
     Per la virtù, che sua natura i diede.
115Inde la valle, come il di’ fu spento,
     Da Pratomagno e il gran giugo coperse
     Di nebbie, e il giel di sopra fece intento
118Sì, che il pregno aire in acqua si converse:
     La pioggia cadde, et ai fossati venne
     Di lei ciò che la terra non sofferse:
121E come ai rivi grandi si convenne,
     Ver lo fiume real tanto veloce
     Si ruinò, che nulla la ritenne.
124Lo corpo mio gelato in su la foce
     Trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
     Nell’Arno, e sciolse al mio petto la croce,
127Ch’io fei di me, quando il dolor mi vinse:
     Voltommi per le ripe e per lo fondo,
     Poi di sua preda mi coperse e cinse.
130Deh quando tu serai tornato al mondo,
     E riposato de la lunga via;
     Seguitò il terzo spirito al secondo,

[p. 103 modifica]

133Ricorditi di me, ch’io son la Pia:
     Siena mi fe, e disfecemi Maremma:
     Salsi colui che innanellata pria,
136Disposando, m’avea co la sua gemma.

  1. v. 4. Ve’; vedi, è un accorciamento di vei da veere o veire. E.
  2. v. 7. C. A. drizzai
  3. v. 9. C. A. e il lume
  4. v. 19. C. A. io più dir,
  5. v. 20. C. A. di dolor
  6. v. 23. C. A. Venivan gente innanzi
  7. v. 32. C. A. E ritrarre a
  8. v. 36. Faccianli onore. In antico terminavasi in no la prima persona plurale ad imitazione de’ Trovatori, e tale desinenza oggi torna acconcia, quando al verbo s’incorpora l’ affisso o il pronome. E.
  9. v. 41. dien. Dall’infinito dere nacquero dò, deno o denno, derono, o dero, alle quali s’interpose l’ i per una tale comodità di pronunzia. E.
  10. v. 44. C. A. con gli altri dieder volta,
  11. v. 45. in andando. Il gerundio unito alla particella in è una pretta imitazione de’ Latini. E.
  12. v. 66. C. M. il voler la possa non ricida. — Posse è l’infinito latino trasportato nell’ italiano, come altrove velle, frui e simili. E.
  13. v. 67. C. A. Ed io,
  14. v. 70. C. A. tu mi sia
  15. v. 75. C. A. furo
  16. v. 77. Fare; per uccidere si truova adoperato da’ nostri Classici. Franco Sacchetti, Nov. 98 « Facendosi una vitella grassa e bella ». E.
  17. v. 78. C. A. Forse più
  18. v. 80. C. A. ad Oriaco,
  19. v. 83. C. A. Mi pigliar
  20. v. 89. C. A. ed altri non à
  21. v. 99. C. A. appiè.
  22. v. 108. C. A. altro mal governo.
  23. v. 111. C. A. il freddo il coglie.
  24. v. 112. C. A. Giunse
  25. v. 113. C. A. e mosse il fumo e

___________


C O M M E N T O


Io era già da quelle ombre partito. In questo quinto canto lo nostro autore 1 si parte da quella tersa condizione d’anime che erano state negligenti, e per sola negligenzia aveano indugiato lo debito emendamento de la penitenzia in fine a la fine; et incomincia a parlare de la quarta condizione; cioè di coloro che a la umilità de la penitenzia sono volti per morte violenta. E dividesi questo canto in due parti, perchè prima dimostra come si partì da quelle anime di che fu detto di sopra; e come giunse all’altre de la quarta condizione in sul terso balso; e poi dimostra come venne a parlamento co loro, e ricognovene alquanti che si li feceno cognoscere, et incomincia quive la seconda: Et uno incominciò ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide in parti sei, perchè prima finge come la gente detta di sopra si meravilliava di Dante, che vivo cercava lo purgatorio, e com’elli allora si rivolse; ne la seconda, come Virgilio di ciò lo riprende et ammoniscelo che seguiti lui, et incomincia quive: Perchè l’animo ec.; ne la tersa finge come nuova gente apparisce; cioè quelle de la quarta condizione, e manifesta loro condizione, incomincia quive: Intanto per la costa ec.; ne la quarta finge come Virgilio risponde a la dimostrazione loro, et incomincia quive: E il mio Maestro: ec.; nella quinta fìnge come una di quelle anime incomincia a parlare a lui, et incomincia quive: O anima, che vai ec.; ne la sesta finge com’elli risponde a la detta anima, et incomincia quive: Et io: Perchè ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co la sua esponizione litterale et allegorica, o vero morale.

C. V— v. 4-9. In questi tre ternari lo nostro autore finge che anco fusse occupato lo suo andare per l’ammirazione che si faceano quelle anime di lui, che era col corpo, dicendo: Io; cioè Dante, era già da quelle ombre; de le quali fu detto di sopra, partito; per andare a la mia via, E seguitava l’orme; cioè le pedate, del mio Duca; cioè di Virgilio, Quando dirieto a me; Dante, drizzando il dito; cioè [p. 104 modifica]in verso me, come fa chi mostra col dito, Una; di quelle anime, gridò; verso l’altro: Ve’; cioè vedi, che non par che luca; cioè risplenda, Lo raggio; cioè del sole, da sinistra; cioè che fiere da la mano sinistra, a quel di sotto; cioè a Dante che andava di rieto a Virgilio, e Virgilio montava, sicchè Dante venia di sotto; ma dèsi intendere che la montata fusse in andata in verso mano ritta: altramente l’ombra di Dante arebbe ombrato d’inansi, e non da lato. E come vivo par che si conduca: però che ’l corpo di Dante faceva ombra; ma lo corpo di Virgilio che era aereo non facea ombra,et in ciò apparea 2 che era morto. Li occhi rivolsi; cioè io Dante, al suon di questo motto; cioè quando uditti sì parlare, per vedere chi era et a cui dicea, E viddili guardar per meravillia Pur me, pur me: imperò che di me si meravilliavano, e lume; cioè del sole, ch’era rotto; per l’ombra che facea il mio corpo. In questa parte, perchè l’autore fa speciale menzione dell’ombra che rendeva lo suo corpo, e de l’ammiramento che si faceano di ciò quelle anime, debbiamo sapere che, ben 3 questa sia verisimile finzione secondo la lettera; niente di meno elli ebbe altra intenzione, come apparrà per allegorico intelletto: imperò ch’elli intese per sè di quelli che sono nel mondo in stato di penitenzia, li quali lo sole; cioè la Grazia Divina e la carità di Dio riscalda dal lato sinistro, dov’è propiamente lo cuore che fa ombra al destro; cioè all’esercizio delle cose mondane, sicchè lo fa apparire nulla, come l’ombra che dimostra quel che non è; di che si meravilliano li mondani e tal le commendano. Unde elli commendato, benchè vada di rieto a la ragione, pur s’arresta a tale commendazione: però che si dice: Nulla est tanta humilitas, quae dulcedine gloriae non tangatur, unde elli si pone a cura d’essere posto niente, et impedisce perciò lo suo processo; unde la ragione lo riprende come finge l’autore che Virgilio riprendesse lui.

C. V— v. 10-21. In questi quattro ternari finge lo nostro autore come Virgilio lo riprende de l’attendere, ch’avea fatto a quello che di lui si dicea, dicendo così: Perchè l’animo tuo tanto s’impillia; cioè ad attendere quello ch’altri dice di te, Disse il Maestro; cioè Virgilio a me Dante, che l’andar allenti; cioè suso al purgatorio? E per questo intende l’allentare che l’omo fa d’andare per li gradi de l’apparazione de la penitenzia in alto, attendendo a le vanaglorie. Che ti fa ciò che quivi si pispillia; cioè quello che coloro diceno tra loro? Vien dietro a me; tu, Dante, seguita me Virgilio; cioè la sensualità seguiti la ragione, e lassa dir le genti; cioè lassa dire chi vuole dire, non te ne curare: Sta come torre ferma, che non crolla Giammai la [p. 105 modifica]cima per soffiar de’ venti; ecco bella similitudine al proposito nostro; cioè che come la torre ferma non dimena la cima per li fiati de’ venti; così l’omo, che è in apparazione 4 di montare a stato di penitenzia, dè stare fermo nel suo proposito e non dè dimenare lo capo; cioè non dè mutare sua buona sentenzia per lo dire altrui. Et assegna la cagione: Chè sempre l’omo; cioè imperò che l’uomo, in cui pensier rampolla; cioè si leva, Sovra pensier; cioè che quando l’uno pensier viene sopra l’altro, da sè dilunga il segno; cioè dilunga il fine al quale dè con deliberazione intendere, e svalorisce 5 e non intende a quel che dè come ’l balestrier che, quando dilunga la posta, meno acconciamente dà nel segno. Perchè; ecco che assegna la cagione, continuando la similitudine, la foga l’un dell’altro; cioè perchè l’uno pensiero sopra veniente, insolla; cioè rende vano, la foga dell’altro; cioè lo sollicito esercizio del primo quello che v’è adiunto da lunghessa, come insolla la foga del balestro, quando è più di lungi la posta che non suole. Ora dice l’autore: Che poteva io; cioè Dante, dir; cioè rispondere a Virgilio, se non: Io vegno? E questo è notabile che, quando l’omo è ripreso ragionevilmente del suo fallo, dè essere umile a ricevere la riprensione; e per tanto dice l’autore che non potea, se non rispondere con obedienzia. Dissilo; io Dante: Io vegno, alquanto del color cosperso; cioè di vermillio rossore la faccia, Che fa l’om di perdon tal volta degno: veramente la vergogna fa l’omo meritare perdono del fallo. Chi si vergogna àe pentimento del fallo e ricognosce lo fallo suo; ma è da notare ch’elli dice tal volta, per salvare la sua sentenzia: imperò che non sempre lo rossore significa vergogna; alcuna volta significa ira, et allora non fa degno di perdono; et anco non sempre la vergogna fa l’omo degno di perdono, che sono certi peccati che richiedono altro che vergogna.

C. V— v. 22-30. In questi tre ternari lo nostro autore finge come venne su per la costa a la quale montavano; cioè all’altro balso terso nuova gente, dicendo: Intanto; cioè in quel mezzo che Virgilio sì mi riprendea, per la costa; cioè del monte a la quale montavano Virgilio et io Dante: dice, da traverso; cioè a denotare che andavano intorno, girando il monte, però dice da traverso; e dicesi da traverso a loro che montavano suso, e così si dè intendere, che altramente arebbe ditto incontra a noi, Venien gente d’inanzi a noi un poco; questo inanzi s’intende quanto a tempo: imperò che giunseno inansi, al luogo ritto ’l quale montavano, che giungesseno quive Virgilio e Dante, Cantando Miserere a verso a verso: come cantano li chierici in coro; così finge che costoro cantassero: Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam, che è [p. 106 modifica]uno dei salmi penitenziali: imperò che costoro grande misericordia aveano ricevuto da Dio. Quando s’accorser; cioè quelle anime, ch’io; cioè Dante, non dava loco, Per lo mio corpo; che io avea meco, al trapassar de’raggi; del sole ai quali lo mio corpo faceva ombra, Mutar lor canto in uno O lungo e roco; cioè lassando di cantare Miserere mei, Deus ec., meravilliandosi di Dante ch’era vivo incomincionno a dire o, o, o, che è segno d’ammirazione, e diventonno fiochi che è segno di privazione di voce; la quale cosa addiviene quando l’uomo si sforsa di gridare. E finge questo l’autore di quelli di là, per mostrare lo desiderio che ànno l’anime passate che sia pregato per loro; e però le finge che stiano attente di volere sapere chi era Dante, e massimamente perch’erano ne la morte violenta venute a la penitenzia, dei quali si suole dubitare se sono in stato di salute; e per non lassare infamia di sè, sicchè per lo malo esemplo altri fan male, e per dare 6che niuno si disperi de la misericordia di Dio infinita. E per quelli del mondo finge, per mostrare come si meravilliano di vedere uno omo carnale a la penitenzia; e per mostrare la curiosità che l’omo à di sapere li fatti altrui, spesse volte lassa l’omo la loda di Dio e l’officio santo che dè dire e che àe incominciato. E du’ di lor; cioè di quelle anime: finge che fusseno du’, perchè l’omo è sociabile animale, come dice l’omo filosofo 7, et onestamente non va solo, in forma di messaggi; cioè a modo come messaggi, Corsero incontra noi; cioè a Virgilio et a me Dante, e dimandarne; cioè noi: Di vostra condizion fatene saggi; cioè fateci saputi chi voi siete.

C. V— v. 31-45. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Virgilio diede risposta a quelle due anime che venneno a dimandare, e come elle tornonno a dare la risposta, e come tutte si difilonno a loro, e come Virgilio ammonisce Dante che non ristesse; ma andando ascoltasse sì, che non perdesse tempo. Dice così: E il mio Maestro; cioè Virgilio rispuose, s’intende: Voi potete andarne; dice a quelli che erano venuti, E ridir a color che vi mandaro; cioè a quella brigata di quelle anime, Che il corpo di costui; cioè di Dante, è vera carne; cioè ch’elli è omo. Se per veder la sua ombra restaro, Com’io avviso; cioè com’io mi penso, assai è lor risposto: però che la risposta sodisfà a la cagione: Faccianli onore; cioè a Dante, et esser può lor caro: imperò che potrà loro giovare. E fa l’autore una similitudine del tornare tosto di quelle due anime e del ritornare a lor poscia con tutte, per mostrare la grazia che 8 à l’anima separata dal corpo, ai vapori che s’accendeno in aire e correno [p. 107 modifica]per l’aire come vento. Et intorno a ciò debbiamo saper che scrive lo Filosofo ne la sua Metaura 9 che li vapori li quali esceno de la terra, per l’attraere che fa lo di’ lo sole coi suoi raggi, ascendeno secondo la qualità di quelli: imperò che alcuni sono 10 che sono sì mirabili, che non possano passare la seconda regione dell’aire; e lì, o si converteno in nebbia e risolvensi per lo sole 11, o cadeno giuso alcuna rugiada in nieve, grandine, secondo lo temporale, e così congelati; et alcuni si risolveno in acqua e pioveno giuso; altri sono che ànno più sottile materia li quali ascendeno in fine a la tersa regione dell’aire, e quive si risolveno in vento, e poi circularmente discendeno in fine a la terra: et altri sono di più sottile materia: ma tiene alquanto di viscosità, la quale non si può convertire in vento; ma ascendeno 12 che per la vicinità de la spera del fuoco e del movimento s’accendono, e se sono di poca quantità tosto si risolveno e per lo movimento appaiano come stelle che correno, purchè lo cielo sia chiaro; e se sono in maggior quantità, penansi più a risolvere, et è molte volte che durano parecchi mesi, e quelli sono chiamati comete; e perchè lo vapore acceso fa fummo, e ’l fummo s’accende pare pure una treccia. Or fa l’autore comparazione di quelli vapori accesi che sono in piccula quantità, che ànno velocissimo moto; et anco fa similitudine di quelle nuvule, che per caldessa dell’aire s’accendeno da la terra, levate per lo caldo, e questo avviene molto nel mese d’agosto quando lo sole è in Leone, o a presso ad una costellazione che si chiama Canis che incomincia di maggio, quando ascende col sole, come dice Albumasar nel suo Introduttorio; e però dice: Vapori accesi non vidd’io; cioè Dante, sì tosto Di prima notte: cioè da sera, mai fender sereno; cioè l’aire chiaro, che altramente non si potrebbe vedere, Nè, sol calando; cioè quando descende, nuvule; cioè accese non vidd’io fendere l’aire sì tosto, come quelli spiriti, d’agosto; cioè del mese d’agosto, quando cioè 13 avviene: noi veggiamo d’agosto, quando lo di’ è stato grande caldo, la sera accendersi li vapori de le nuvule e spegnersi subito come uno lampo, Che color; cioè quelle anime, non tornasser suso; al luogo loro, alli altri spiriti, in meno; cioè in meno tempo, E giunti là; a quelle anime, colli altri; cioè spiriti che li aveano aspettati, a noi dien volta: imperò che tutti disceseno in [p. 108 modifica]verso noi, Come schiera; ecco che fa l’altra similitudine, che scorre senza freno: quando le schiere scorreno, vanno sfrenate; unde Virgilio vedendo ciò ammonisce Dante, dicendo: Questa gente; di quelle anime parla, che preme; cioè che descende giuso, a noi; cioè a te et a me, dice Virgilio, è molta; come tu vedi, E vegnonti a pregar; cioè te Dante, disse il Poeta; cioè Virgilio, Però pur va; tu, Dante, et in andando ascolta; cioè non ti restare; ma andando ode 14 quello che diceno.

C. V— v. 46-57. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che quelle anime descendendo, venendo a loro veniano gridando, che li aspettasse e non montasse suso al balso, dicendo: O anima, che vai per esser lieta; cioè per purgarti e poi per andare a la somma beatitudine, dove l’omo è in eterno per contemprarla 15 e vederla, ansi che si torni al mondo lieto, Con quelle membra co le quai nascesti; questo diceno a Dante, perchè era vivo et era col corpo, Venian gridando; a Dante l’anime dette di sopra, un poco il passo queta; cioè riposa il passo un poco, non andare sì ratto. Guarda se alcun di noi unqua vedesti; cioè pon mente se mai vedesti alcuno di noi, mentre che fummo in vita, Sì che di lui di là; cioè nel mondo, novelle porti; cioè ai suoi di lui: Deh perchè vai? Questo dice, perchè osservava lo comandamento di Virgilio: imperò che tutta via andava, deh perchè non t’arresti; cioè perchè non ti reggi? E di ciò lo pregavano. Noi fummo tutti già per forza morti; ecco che manifesta la loro condizione, mostrando che erano stati impenitenti in fine a la fine de la vita, la quale era finita per morte accidentale, E peccatori infine a l’ultima ora; cioè peccatori fummo in fine a la fine: Quivi; cioè a l’ultima ora de la vita, lume del Ciel; cioè la grazia illuminante de lo Spirito Santo, ne fece accorti, cioè fece noi accorti, che ci avvedessemo del nostro errore, Sì che, pentendo; cioè del peccato che avavamo fatto nella vita, e perdonando; l’offese che a noi erano state fatte, fora Di vita uscimmo; cioè morimmo ne la ditta disposizione, a Dio pacificati: imperò che chi si pente de’ suoi peccati quando muore, e perdona al prossimo suo l’offese ricevute, muore ne la grazia di Dio, Che del disio; cioè del desiderio, di sè veder; cioè di vedere lui e la pace di Dio, ne accora; cioè ci conforta e muoveci a desiderare di vedere lui; cioè Iddio. Qui potrebbe essere uno dubbio; che non par iusto che quello omo ch’è stato in peccato tutta la vita sua, nè mai pentitosi, nè operato opre meritorie se non all’ultimo, per una [p. 109 modifica]lacrimetta, come dice l’autore, sia salvo. A questo si può rispondere per esemplo che, come lo corpo infermo si riduce a sanità, stante sano lo quore; così l’anima inferma per lo peccato, si riduce a sanità stante la grazia di Dio nell’anima; cioè la preveniente che induce la disposizione; e venuta la disposizione, sopraviene la illuminante, cooperante e perficente; ma con modo ordinato che porti pena nel purgatorio del peccato commesso sì, che raffini nel fuoco infine che diventi pura l’anima alla lega che si spende in vita eterna.

C. V— v. 58-66. In questi due ternari lo nostro autore finge che rispondesse a la dimanda di quelli spiriti, dei quali fu detto di sopra, molto gratamente, dicendo: Et io; cioè Dante rispuose, s’intende, a coloro, Perchè; cioè benchè, ne’vostri visi guati; per ricognoscervi, Non ricognosco alcun; cioè di voi; ma se a voi piace; ecco che gratamente si proferisce, Cosa ch’io; cioè Dante, possa; cioè che a me sia possibile: questo vocabulo regula molto le proferte sì, che non è l’omo obligato più che elli vollia, dicendo poi secondo ’l mondo: Io non potetti più; ma, secondo Dio e l’onestà de la virtù, è l’omo tenuto quanto può, spiriti ben nati; ecco che dirissa lo suo sermone a loro, chiamandoli spiriti ben nati: bene è nato colui che è nel suo fine salvato, Voi dite; cioè spiriti nati bene, dimandate, et io; cioè Dante, farò; ciò che dimanderete, per quella pace; ecco che con iuramento afferma, Che; cioè la qual pace; cioè lo desiderio d’averla, dietro a’ piedi di sì fatta Guida; cioè di Virgilio, che significa la ragione, Di mondo in mondo; questo dice, perchè àe cercato lo inferno, cioè la viltà del peccato àe considerato e la pena a lui conveniente, per liberarsi da esso; et appresso cerca lo purgatorio, investigando come per la penitenzia l’anima diventi monda e netta, sicchè possa cercare lo paradiso; cioè entrare ne la operazione e meditazione de la virtù che fa l’anima felice, mentre che si sta in questa vita per grazia, e poi in vita eterna di po’ la vita penitente 16 per gloria, cercar mi si face. Tutti questi cammini, che l’autore finge avere fatto, sono fatti mentalmente per cognoscere e contemplare Dio, che è somma pace e quiete de le menti umane, mentre che qui si vive per grazia e poi per gloria, sicchè niente più desidera. E qui finisce la prima lezione del quinto canto.

Et uno incominciò: Ciascun si fida. Questa è la seconda lezione del v canto, ne la quale l’autore dimostra per sua fizione come venne in notizia d’alcuni di quelli spiriti; e dividesi questa lezione in parti cinque: imperò che prima finge che uno di quelli spiriti si manifesti a lui, narrando la sua morte; ne la seconda, come poi si manifesta loro col suo parlare, dicendo anco sua condizione e sua morte, e [p. 110 modifica]come Dante lo dimanda d’alcuna circumstanzia, et incomincia quive: Poi disse un altro ec.; ne la tersa, come elli risponde a la dimanda di Dante, quive: Oh, rispuose elli ec.; ne la quarta finge l’autore come quello spirito, narrando sua condizione, manifesta la mutazione naturale del tempo inturbolento farsi alcuna volta per virtù diabolica, quive: Ben sai come ec.; ne la quinta finge come lo terso spirito, che fu una femina, anco si li manifestò, et incomincia quive: Deh quando ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo coll’allegorie et esponizioni litterali e morali.

C. V— v. 64-84. In questi sette ternari lo nostro autore finge come venne in notizia d’alcuno di quelli spiriti, lo quale prima si li manifestò, dicendo così: Et uno; cioè di quelli spiriti, incominciò; cioè a parlare e rispondere a le parole dette da me: Ciascun; cioè di noi spiriti, si fida Del beneficio tuo; cioè del servigio tuo che tu ài promesso, senza giurarlo; cioè sensa farne giuramento, come tu ài fatto di sopra. E debbiamo notare che beneficio et officio sono differenti: imperò che beneficio è quello bene che l’omo fa in verso lo prossimo.17; officio è quello bene verso sè, in verso ’l prossimo et in verso ogni persona; ma strettamente lo pillia Tullio in libro de li Offici, secondo questa diffinizione: Officium est congruus actus uniuscuiusque, secundum mores et statuta suae civitatis— , Pur che il voler non posse non ricida; quasi dica: Noi sappiamo che tu ài buono volere, dubitiamo che ’l non potere lo ’mpacci, e però si dè dire: Purchè il non posse; cioè lo non potere, non ricida, cioè non rompa lo volere: potrebbe anco dire lo testo: Pur che il voler la possa non ricida; cioè pur che il podere, mancando, s’intende, non rompa lo volere; quasi dica: Noi sappiamo che ’l volere è buono, purchè ’l podere, mancando nollo impacci. Und’io; dice quello spirito di sè medesimo, che solo, inanzi alli altri parlo; questo dice, perchè elli solo parlava, secondo la finzione de l’autore, e li altri stavano ad udire, Ti prego, se mai vedi quel paese; cioè prego te Dante, se mai vedi quel paese, Che; cioè lo quale, siede tra Romagna e quel di Carlo; cioè del re Carlo sensa terra; cioè la Pullia che fu sotto lo re Carlo di Francia, conte di Provensa e poi re di Sicilia e di Pullia, come fu detto di sopra: sì che intende tra la Pullia e la Romagna 18, Che tu; cioè Dante, mi sii de’ tuoi preghi cortese In Fano; questo Fano è una città de la Marca d’Ancona unde era messer Iacopo del Cassaro, lo quale qui l’autore introduce a parlare, lo quale fu morto per assassini tra Doriaco e Venezia in sul destretto padovano ne la valle, e [p. 111 modifica]fecelo fare 19 lo marchese di Ferrara per alcuni odi li quali aveano insieme per questa cagione: imperò che il marchese Asso di Ferrara procacciò nel suo tempo, quanto potette, d’avere amistadi in Bologna; e questo ad intenzione d’avere la signoria de la terra, et ebbevene assai tra per denari e per promesse. Di che lo popolo di Bologna accorgendosi, per paura di non venire a signoria tirannica, cacciò fuora de la terra tutti quelli che erano sospetti, et alcuni ne fece guastare a le signorie de la terra. Et in questo tempo li Bolognesi chiamonno messer Iacopo preditto in podestà di Bologna; e venuto al reggimento nolli vastò di fare strazio delli amici del marchese; ma continuamente usava vituperosi parlari di lui, dicendo che era iaciuto co la matrigna e che elli era disceso d’una lavandaia di panni, e come acuto in mal dire sempre operava la lingua in male parlare del detto marchese. Unde lo detto marchese intese ad ordinare la morte sua in questo modo; che uscito de la signoria di Bologna, sempre li mandò drieto assassini per ucciderlo, quando fusse loro destro. In processo di tempo messer Masio 20 Visconte de Melano lo chiamò podestà di Melano; et accettato l’officio venne per mare in fine a Venegia; e quando volse andare da Venegia a Padova, quelli che lo perseguitavano l’ucciseno nella valle di Doriaco; sì che finge l’autore che preghi lui lo detto messer Iacopo ch’elli preghi per lui ai suoi, che erano in Fano che pregasseno per lui, e però dice: sì che ben per me s’adori; cioè a Dio si porga preghi per me da’ miei, Perch’io; cioè messer Iacopo, possa purgar le gravi offese; cioè quelle che feci a Dio, mentre vissi. Quindi; cioè da Fano, fu’ io; dice lo detto messere Iacopo, ma li profondi fori; cioè le profonde ferite, Unde uscì il sangue, in sul quale io sedea; parla l’anima di messere Iacopo; e perchè ’l sangue si dice la sedia dell’anima, però dice in sul quale io sedea, Fatti mi funno in grembo alli Antenori; cioè ai Padovani discesi da Antenore troiano, come testifica Virgilio: imperò che in sul terreno di Padova fu morto, Là dove più siguro esser credea; per la potenzia dei Padovani, Quel da Esti; cioè lo marchese di Ferrara e da Esti, che è una terra in Lombardia la quale signoreggia lo detto marchese, il fe far; che me fe uccidere ai suoi assassini, che m’avea in ira Assai più là che il dritto non volea; cioè la dirittura; cioè che l’avea in odio più che non era conveniente. Ma s’io fusse fuggito inver la Mira; questo è uno castello nel padovano che si chiama la Mira, Quando fu’ sopraggiunto a Doriaco: Doriaco è uno monte nel padovano, dove fu morto lo detto messere Iacopo dalli assassini del marchese, Ancor serei di là dove si [p. 112 modifica]spira; cioè si fiata; cioè anco sarei in vita. Corsi al padule; e non a monte, e le cannucce e il braco; cioè lo cieno 21 del padole e le cannelle, M’appigliar sì, ch’io caddi; cioè tanto m’impaccionno, ch’io caddi, e lì; cioè in quel padule, vidd’io; cioè messere Iacopo sopra detto, De le mie vene farsi in terra laco; cioè vidde spargere lo suo sangue.

C. V— v. 85-93. In questi tre ternari lo nostro autore finge come uno altro spirito ancora lo prega che preghi per lui, lo quale finge che fusse Bonconte di messere Guido da Monte Feltro; del quale messer Guido fu ditto nel xxvii canto de la prima cantica, dicendo così: Poi; cioè di po’ lo parlare de lo spirito di sopra, disse un altro: cioè spirito a me Dante: Deh se quel disio; cioè quello desiderio, Si compia; cioè abbia effetto, che ti tragge all’alto monte; cioè tira te Dante al monte del purgatorio, che allegoricamente significa lo stato de la penitenzia, lo quale è alto e faticoso a montare: ciascuno scongiura altri per quello, che crede che li sia più in desiderio, Con buona pietade aiuta il mio; desiderio, che è di montare a purgarmi e d’andare a vita eterna. Io fui di Montefeltro; ecco che si manifesta, e dice che fu dei conti da Montefeltro (questo Montefeltro è una contrada posta di là del Casentino, et è uno monte con città e castella, e quive è Sanleo) filliuolo del conte Guido et ebbe nome Bonconte e fu morto ne la sconfitta 22 che ebbeno li ghibellini dai guelfi in Campaldino, che è uno piano quasi in mezzo di Casentino dove è ora lo luogo dei Frati minori. Ferito quinde fu a l’ora ne la gola, unde fuggendo ferito fuora di Casentino si moritte, e mai non si trovò lo corpo suo; unde l’autore ne fa una bella finzione, cioè che caduto in terra in su la foce d’uno fiume che si chiama l’Archiano che è confine di Casentino e di Bibbiena, elli facesse croce de le braccia e dimandasse misericordia a Dio e chiamando la Virgine 23 Maria in suo aiuto si morisse, e che la piena e ’l diluvio di detto fiume che si chiama l’Archiano, che è ine le confine di Casentino, che finge l’autore che crescesse per operazione del dimonio, ne portasse lo corpo suo in Arno, e che l’Arno lo coprisse co la sua rena: imperò che ’l fiume; l’Archiano, entra in Arno; e questa finge che fusse la cagione che ’l corpo suo non si trovò mai, e però dice: io son Bonconte; ecco lo nome suo: Giovanna; questa fu la mollie, la quale non parve curarsi di po’ la morte sua de la sua salute, e li altri; cioè miei parenti, non àn di me cura: imperò che non pregano Dio per me, Perch’io vo tra costor; cioè tra queste altre anime che sono di [p. 113 modifica]mia condizione, con bassa fronte; non sentendomi aiutato; ma abbandonato da’ miei n’abbo malanconia e vergognomene d’essere stato loro sì poco caro, e questo è andare con bassa fronte. Et io; cioè Dante, a lui; cioè a Bonconte dissi, s’intende: Qual forza, o qual ventura; qui tocca l’autore due modi, per li quali potea essere uscito di Campaldino; cioè o per forza dei nimici che l’avesseno cacciato, o per ventura d’essere uscito loro de le mani; e però dimanda qual fusse di questi due, Ti traviò; cioè ti tirò, sì fuor; de la via, di Campaldino; cioè di quello luogo dove fue la battallia, Che non si seppe mai tua sepultura; cioè che mai non fu trovato lo suo corpo, nè saputo dove fusse sotterrato?

C. V— v. 94-108. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che Bonconte li manifesti la morte sua; e questo fa secondo l’usansa de’ poeti, dando verisimilitudini a le loro finzioni. La morte di Bonconte; cioè lo modo, e lo suo corpo mai non si seppe, e però per mostrare quello che elli ne finge esser vero, induce lui medesimo a dirlo, dicendo così: Oh, rispuose elli; cioè Bonconte, a piè del Casentino: Casentino è una valle tonda, circundata da monti tra Fiorensa et Aresso, la quale era posseduta da gentili omini che si chiamavano conti di Casentino, et è fertile di bestiame, bella contrada, et a piè de la montagna, Traversa un’acqua; cioè uno fiume, che à nome l’Archiano; confine tra Casentino e Bibbiena, Che sovra l’Ermo nasce in Appennino; questo Eremo è uno bosco dove stanno li monaci di san Benedetto dell’ordine di Camalduli, et è ne l’alpe del monte Appennino che è uno monte che va per mezzo de la Italia, et incomincia da Genova e finisce a Reggio, incontra a la Sicilia, e fu già la Sicilia del monte Appennino inanti che si dividesse da la terra continente, secondo che diceno li autori. Dove il vocabul suo; cioè del detto fiume; l’Archiano, diventa vano: imperò che entra quive in Arno, e non si chiama più l’Archiano, Arrivai io; cioè Bonconte a la foce che entra in Arno, forato ne la gola; cioè ferito, Fuggendo a piede; perchè avea perduto lo cavallo ne la battallia, e sanguinando il piano; cioè impiendo di sangue, che li uscia de la ferita de la gola, lo piano che è inanti a Casentino e dentro. Quivi; cioè alla foce di l’Archiano, perdei la vista; delli occhi io Bonconte, e la parola; cioè mia ultima, Nel nome di Maria; la quale Virgine Maria io chiamava per mio aiuto, finio: però che, dicendo: Virgine Maria, non potette dir più oltra, e quivi Caddi; io Bonconte in terra, e rimase la mia carne sola: imperò che fu abbandonata dall’anima. Io dico il vero; ecco che afferma Bonconte quello dè dire, e conforta l’autore che ’l dica, tornato al mondo; questo dice l’autore, per fare verisimile la sua finzione, e tu il ridi: cioè tu, Dante, questo vero ch’io dico, tra’ vivi; cioè nel mondo dove dèi tornare: L’Angel di Dio mi [p. 114 modifica]prese; cioè me anima di Bonconte, e quel d’Inferno; cioè lo dimonio: angelo tanto è a dire quanto messo, sicchè di Dio e d’inferno s’aggiunge a differenzia, Gridava; cioè lo dimonio, quando l’angiulo di Dio me ne portava: O tu del Ciel; cioè, o tu messo del cielo, perche me privi; de la preda mia? Cotesta anima è mia. Tu te ne porti; continua lo dimonio lo suo parlare in verso l’angiulo, come referisce Bonconte, di costui; cioè di questo omo, l’eterno; cioè l’anima che è eterna; cioè perpetua propriamente, Per una lagrimetta; cioè per una picciola contrizione, che àe avuto a la fine de la sua vita, ch’el mi tollie; cioè la quale contrizione mel tollie: ecco che s’accorda l’autore co la sentenzia de’ Teologi; che chi si pente al fine de la sua vita, Dio è tanto misericordioso che lo riceve, Ma io farò; dice lo dimonio, dell’altro; cioè del corpo, altro governo; che non farai tu, angelo, dell’anima sua, che tu allogherai l’anima sua nel purgatorio a speransa di salute; et io sotterrerò lo suo corpo et appiatterò in modo che non si troverà mai.

C. V— v. 109-129. In questi sette ternari lo nostro autore finge che Bonconte, continuando lo suo parlare, li manifesti quel che ’l dimonio fece del suo corpo, ponendo qui due cose notabili; l’una fisica, cioè come si generi la pioggia; l’altra teologica, cioè come adopra l’angiulo e ’l dimonio ne le cose naturale, dicendo così: Ben sai; continua lo suo parlare Bonconte e dice a Dante: Ben sai; tu, Dante, che ài studiato la Metaura 24 d’Aristotile, doversi tratta di questa materia, come nell’aire si raccollie Quell’umido vapor; dice Aristotile nel libro predetto che li vapori umidi, levati da la terra per virtù del sole 25, sallieno suso a la seconda regione de l’aire; e quive ripercossi dal freddo si risolveno in acqua e cadeno giuso, e così piove pogo o molto, secundo la quantità dei vapori; e però dice: che in acqua riede; cioè ritorna lo vapore umido in acqua, come da acqua si genera, Tosto ch’ei sale; detto vapore, dove il freddo collie; cioè a la seconda regione dell’aire. Giunto quel mal voler; cioè lo dimonio lo quale chiama mal volere: imperò che l’angelo e lo dimonio ebbe memoria, intelletto e volontà ne la sua creazione più perfettamente che l’omo; benchè la volontà del dimonio è ora depravata e corrotta, e quella dell’angiulo è confermata che non può voler se non bene, e lo dimonio se non male; e però lo chiama Bonconte mal voler, secondo che finge l’autore, et adiunge: che pur mal chiede: imperò che non può volere se non male, come detto è, Co lo intelletto, mosse e il fumo e il vento; le sustanzie formali, cioè li angeli, li dimoni e l’anime umane ciò adoprano per intelletto come appare [p. 115 modifica]ne l’omo, che quive dove lo intelletto intende, move l’anima lo corpo; così le cose de la natura sono mosse dalli angeli e dai dimoni, secondo che lo loro intelletto intende tanto, quanto è loro permesso da Dio; e però dice l’autore che ’l dimonio co lo intelletto trasse di quelli vapori li più sottili a la tersa regione de l’aire, sicchè si convertetteno in fumo et in vento, sicchè fece nebbia e vento, Per la virtù, che sua natura i 26 diede; cioè a l’angelo; de la quale virtù naturale anco tene lo dimonio tanto, quanto ebbe l’ angiulo, se non quelli che perdette, perdendo la grazia di Dio; cioè lo poter bene operare. Inde; cioè di quinde e per quello modo, la valle; cioè quella del Casentino, come il di’ fu spento; cioè come fu fatto sera, Da Pratomagno; questo è monte altissimo chiamato così; dal quale luogo infine a l’alpe coperse de nebbia; cioè infine a Falterona che li è incontra; cioè a Pratomagno; e però dice: e il gran giugo coperse Di nebbie: giugo è lo colle del monte, e il giel di sopra fece intento; cioè caccionne lo dimonio lo gielo che era sopra li vapori, a ciò che più fortemente ripellesse li vapori umidi e risolvesseli in acqua; e però dice: Si, che il pregno aire; de’ vapori umidi preditti, in acqua si converse; risolvendosi li predetti vapori ne la sua materia. La pioggia; dei ditti vapori, cadde; dell’aire giù in terra, et ai fossati venne Di lei ciò che la terra non sofferse; cioè tutto quello, che la terra non succhiò, venne nei fossati per scolare nei fiumi. E come ai rivi grandi si convenne; cioè come l’acqua dei fossati e de li scolatoi de le montagne si raunò ne li rivi de la valle, Ver lo fiume real; cioè verso l’Arno: chiamano li Poeti fiumi reali quelli che fanno capo in mare, come fa l’Arno; l’altri no. L’Arno esce d’uno monte di Casentino che si chiama Falterona e corre per lo Casentino, et in esso intrano poi molti altri fiumi li quali li autori chiamano fiumi populari; e di quel medesmo monte, de l’altro lato esce lo Tevero che va a Roma: entrano li rivi del Casentino in Arno, et uno fiume populare che è presso a Bibbiena, che si chiama l’Archiano lo quale entra in Arno e per quello fiume anco molte acque del Casentino entrano in Arno, tanto veloce Si ruinò; cioè la pioggia, che nulla la ritenne. Lo corpo mio; dice Bonconte a Dante, gelato; perch’era morto, in su la foce; cioè sua, Trovò l’Archian rubesto; cioè quel fiume, diventato per la pioggia corrente e fortunoso, e quel; cioè lo corpo, sospinse nell’Arno; nel quale entra lo detto fiume, e sciolse al mio petto la croce; cioè de le braccia e de le mani che io Bonconte avea fatto al mio petto, e però dice: Ch’io fei di me; cioè de le mie braccia e mani, quando il dolor; cioè de la ferita che era a morte, mi vinse: et accordasi questa sentenzia con [p. 116 modifica]Seneca, che dice che o lo dolore vince l’omo, o l’omo lo dolore, Voltommi per le ripe e per lo fondo; cioè l’Arno lo mio corpo, Poi di sua preda; cioè de la terra, che avea predato e tolto de le ripe, mi coperse e cinse; cioè lo mio corpo. E qui finisce Bonconte lo suo parlare con Dante.

C. V — v. 130-136. In questi due ternari e versetto lo nostro autore finge che uno altro spirito ancora si li raccomandasse, dicendo cosi: Deh quando tu; cioè Dante, serai tornato al mondo; questo finge l’autore, per fare verisimile lo suo poema, E riposato de la lunga via: bene è lunga la via passare dall’una superfice de la terra a l’altra per lo centro. Montare lo monte altissimo, passare la spera del fuoco, montare al paradiso delitiarum e poi per tutti li cieli infine al cielo empireo, per certo questo è lo più longo e più alto viaggio che mai si facesse; ma allegoricamente si dè intendere esser fatto questo viaggio co la mente, e quanto a la verità, che ben sarebbe grosso chi intendesse altramente. Seguitò il terzo spirito; cioè di quelli tre che detto è di sopra, al secondo; cioè di po’ Bonconte da Monte Feltro, che disse di po’ messere Iacopo dal Cassaro di Fano che fu lo primo, Ricorditi di me; tu, Dante, ch’io son la Pia; questa fu madonna Pia 27 mollie che fu de messer Nello da la Pietra da Siena, lo quale, andato in Maremma per rettore, menò seco la detta sua donna; e per certo fallo che trovò in lei l’uccise sì secretamente, che non si seppe allora; e però finge l’autore ch’ella parli in questa forma, prima nominandosi et appresso dice: Siena mi fe; perchè di Siena fue natia, e disfecemi Maremma; perchè in Maremma moritte, Salsi; cioè lo modo de la mia morte, e la mia morte, colui che innanellata pria, Disposando 28, m’avea co la sua gemma; cioè lo detto messer Nello mio marito, lo quale m’avea desposata. Per circuizione, come usanza è de’ Poeti dice che fu suo marito; e per questo conferma l’autore quello che è detto di sopra; et è da pregare per quelli che sono in purgatorio. E qui finisce lo canto quinto, et incomincia lo sesto.

Note

  1. C. M. lo nostro autore finge come si parte da quella gente, o vero terza condizione
  2. Apparea; da apparere per la consueta riduzione dei verbi da una congiugazione ad un’altra. E.
  3. C. M. ben che questa sia
  4. C. M. che è in preparazione di montare
  5. C.M. isvalonisce
  6. C. M. e per dare esemplo che niuno
  7. C. M. dice lo filosofo,
  8. C. M. mostrare l’agilità che à
  9. Il libro del Filosofo, onde parla qui il nostro Chiosatore, appellasi della Meteora. E.
  10. C. M. alcuni sono naturali e non possano
  11. C. M. per lo sole, o ricadeno giuso o alcuni in rugiada o in nieve o in grandine, secondo lo temporale, o si congelano e cadeno giuso; et alcuni si risolveno
  12. C. M. ascendeno tanto che per la vicinità
  13. Cioè; ciò, aggiuntovi l’e per eufonia, come in fue, quie, sue per fu, qui, su ec. E.
  14. Ode. Gli Antichi, per tenere una cadenza uniforme, terminarono in e anche le persone singolari dell’imperativo. Ciampolo degli Ugurgieri nel i libro del suo Volgarizzamento dell’Eneide scrisse «Scioglie da te la paura». E.
  15. Contemprarla; contemplarla per la solita mutazione delle due liquide l ed r. Guido Guinicelli cantò «La bella donna che li occhi sprende». E.
  16. C. M. la vita presente per gloria,
  17. C. M. prossimo; et officio è quello bene che ciascuno è tenuto di fare inverso Dio, inverso sè,
  18. C. M. Romagna, e questa è la Marca d’Ancona che è posta tra la Romagna e la Puglia, Che tu;
  19. Fare, anche qui sta per uccidere. E.
  20. C. M. messer Mafeo Visconte di Milano
  21. C. M. cioè lo fango del padule
  22. Bonconte combattè in Campaldino contro Dante, e la rotta de’ ghibellini fu a di’ 11 di giugno 1289. E.
  23. Virgine; vergine, alla guisa de’ Latini. E.
  24. D’Aristotile abbiamo Meteorologicorum Libri iv. E.
  25. C. M. del sole de’ corpi di sopra sallieno
  26. I; a lui, accorciato dall’ illi de’ Latini. E.
  27. Madonna Pia de’ Tolomei, moglie che fu di Nello, fu uccisa nel 1295. Questo Nello figliuolo del conte Inghiramo venne in aiuto de’ Fiorentini a Montecatini contro Uguccione della Faggiuola, e narrasi ch’egli fece morire la detta sua moglie, per isposare la contessa Margherita di Santafiora. Egli visse fin oltre il 1315. E.
  28. Il Codice Antaldino varierebbe così: che innanellato pria Disposato m’avea
Altri progetti

Collabora a Wikipedia Wikipedia ha una voce di approfondimento su Purgatorio - Canto quinto