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[v. 34-48] | c o m m e n t o | 127 |
creto del Ciel orazion pieghi; cioè che ’l giudicio di Dio non si muti per orazione. E cusì dice lo testo di Virgilio u’ elli dice: Desine fata Deum flecti sperare precando. Finge Virgilio che Sibilla risponda a Palinuro che pregava Enea che ’l passasse Acheronte, e dica: Rimanti di sperare che l’ordine fatale de la providenzia divina si pieghi per prego; e ben che l’autore dica che questo dubbio li vegna per lo detto di Virgilio, a ciascuno questo ditta la sua ragione: imperò che Dio è immutabile, dunqua come si muta la sua sentenzia per li preghi? E questa gente; cioè quelli che noi abbiamo ora lassati, prega pur di questo; cioè che altri preghi per loro. Sarebbe dunqua loro speme vana; cioè ingannerebbesi la loro speransa? O non m’è ’l ditto tuo ben manifesto; cioè o non intendo io bene lo tuo testo? Imperò che seguitrebbe di queste due cose l’una; cioè o che coloro sperasseno quel che non può avere effetto, e che il testo di Virgilio non volesse dire quello che pare dire. Questo dubbio è grande e non s’intende la soluzione per ogni uno, e però Virgilio ammonisce Dante, come appare di sotto, che in sì fatti dubbi sì ardui come è questo, non si fermi se non a quello che1 determina la grazia di Dio illuminante, la quale àe dichiarato questo, come appare nella santa Teologia.
C. VI — v. 34-48. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che Virgilio risponda e solva lo sopra detto dubbio, dicendo così: Et elli; cioè Virgilio disse, s’intende, a me; cioè Dante: La mia scrittura; cioè lo mio testo che detto è di sopra, è piana; cioè è chiaro ad intendere, e così è risposto all’una parte del dubbio; cioè O non m’è ’l ditto tuo ben manifesto? Quasi dica: Elli è sì chiaro che ben s’intende al modo che tu dici, e non si può intendere altramente. E la speranza di costor; che pregano ch’altri preghi per loro, non falla; cioè non è vana; ma è adimpiuta: e così si tollie l’altra parte del dubbio, Se ben si guarda co la mente sana; cioè se bene si considera co la mente savia, non piena d’errore, nè di mattia: imperò che l’una parte non contradice all’altra, come appare che si contradica Dio essere immutabile, e per prego mancarsi la pena dell’anime da essere purgate. Et adiunge la ragione; che la pena debita al peccato per ragione di iustizia non si manca, benchè s’abbrevi lo tempo: imperò che tutta quella pena che dovesse sostenere in cento anni, sostiene in un punto; e però dice: Chè cima di giudicio; cioè che l’altessa e la dirittura del giudicio di Dio, non s’avvalla; cioè non si china, nè non si torce, Perchè fuoco d’amor; cioè ardore di carità, che è in colui che prega per li passati, compia in un punto;