Vite dei filosofi/Libro Decimo/Vita di Epicuro
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LIBRO DECIMO
I. Epicuro, figlio di Neocle e della Cherestrata, ateniese, del popolo di Gargetto, era, come dice Metrodoro, nel libro Della nobiltà, della famiglia de’ Filaidi. Egli, secondo che raccontano altri, ed Eraclide, nell’Epitome di Sozione, quando Samo toccò in sorte agli Ateniesi, fu allevato colà, e venne in Atene di diciott’anni, allorchè Zenocrate insegnava nell’Academia ed Aristotele in Calcide. Morto poi Alessandro il Macedone e gli Ateniesi caduti in potere di Perdicca, si recò presso il padre a Colofone.
II. Dimorato un po’ quivi e raccolti discepoli, tornò, sotto Anassicrate, nuovamente in Atene, e datosi alcun tempo a filosofare misto cogli altri, da ultimo istituì, come in proprio, una sella, che fu denominata da lui. — Narra egli stesso essersi infiammato alla filosofia di quattordici anni; e Apollodoro l’Epicureo afferma, nel primo Della vita di Epicuro, ch’e’ costò alla filosofia per disprezzo dei grammatici, perchè non seppero spiegargli il caos di Esiodo. — Racconta Ermippo che fu maestro di scuola, e che in seguito abbattutosi ne’ libri di Democrito, tutto si gettò nella filosofia. Il perchè Timone ebbe a dire di lui:
Dei fisici il peggior, l’ultimo, giunto
Testè da Samo; maestro di scuola,
Il più ignorante dei viventi. —
Filosofarono seco, lui esortante, anche i suoi fratelli, che erano tre, Neocle, Cheredemo e Aristobulo, siccome scrive Filodemo l’epicureo, nel decimo del suo Ordinamento dei filosofi; e, al dire di Mironiano, ne’ Capitoli istorici simili, anche uno schiavo per nome Mus.
III. Diotimo lo stoico, che avea seco animosità, amaramente lo diffamò, pubblicando, come di Epicuro, cinquanta lettere oscene; e riunendovi, come di Epicuro, i cinquanta biglietti che si attribuiscono a Crisippo; e così fece anche lo stoico Posidonio, e Nicolao, e Sozione, nel decimo secondo Degli argomenti chiamati diocleici, che trattano della XXIV; e Dionisio l’alicarnasseo. Poichè raccontano essere egli andato colla madre in giro per le casipole a recitare purificazioni; e col padre suo ad insegnare, per una vil mercede, il leggere; ed uno de’ suoi fratelli aver fatto il ruffiano; ed egli aver vissuto colla cortigiana Leonzio; e le cose di Democrito, sugli atomi, e d’Aristippo, sulla voluttà, avere come proprie spacciate; e, secondo che affermano Timocrate ed Erodoto, nel libro Della gioventù di Epicuro, non essere stato legittimamente cittadino; e in modo turpe avere adulato Mitra, intendente di Lisimaco, appellandolo nelle sue lettere Peana e re; e anche Idomeneo ed Erodoto e Timocrate, coloro che resero chiari i suoi secreti, per ciò stesso encomiato e adulato; e scritto nelle lettere alla Leonzio: Peana, re, cara Leonzietta, di che rumorosi applausi fummo ripieni quando leggemmo la tua letterina! E alla Temista, donna di Leonteo: Tale mi sono io, se voi non veniste da me, da precipitarmi io stesso rotoloni dove mi chiamaste voi e la Temista; a Pitocle poi, giovinetto fiorente: Siederò, aspettando il tuo amabile e divino ingresso; e un’altra volta scrivendo alla Temista, secondo che dice Teodoro, nel quarto Contro Epicuro, avere stabilito di giacersi con lei; e a molte altre cortigiane avere scritto, e massime alla Leonzio, la quale era amata anche da Metrodoro; e nel libro Dei fini essersi espresso così: Non v’è cosa ch’io possa concepire come bene, se tolgo di mezzo i piaceri che si hanno per via dei sapori, se tolgo que’ che per le cose veneree, e per quelle che si odono, e per via della forma; e in una lettera a Pitocle avere scritto: Fuggi, o beato, ogni disciplina. E osceno parlatore lo chiama Epitteto, e assai lo infama. E anche Timocrale, fratello di Metrodoro, e suo discepolo, abbandonata la scuola, dice ne’ suoi libri intitolati Ricreamenti, che per crapula vomitava due volte al giorno, e racconta sè avere a stento potuto fuggire quelle notturne filosofie e quella mistica riunione. Ed Epicuro aver molte cose ignorate intorno al discorso, e molte più intorno alla vita; ed essere stato il suo corpo meschinamente costituito, talchè per molt’anni non potè alzarsi dalla seggiola; e spendere nella mensa una mina al giorno, com’egli scrive in quella sua lettera alla Leonzio, ed in quella ai filosofi di Mitilene; ed egli e Metrodoro aver praticato eziandio con altre cortigiane, la Marmario e la Edia e la Erozio e la Nicidio.
IV. E, proseguono, ne’ trentasette libri Della natura, scrivere per lo più le stesse cose, e per lo più confutarvi tra gli altri Nausifane, e a parola a parola dire così: Ma, se alcuno mai, ebbe pur esso, partorendo dalla bocca, la sofistica jattanza a guisa di molt’altri schiavi. E lo stesso Epicuro, nelle Epistole, dire: Tali cose lo aveano sì fattamente tratto fuor di sè, da ingiuriarmi e appellarsi maestro. E lo chiamava polmone e ignorante e truffatore e bardassa; e i seguaci di Platone adulatori di Dionisio; e lo stesso Platone aureo; e Aristotele dissipatore, che distrutta la paterna sostanza, militò e fece lo speziale; e Protagora zanaiuolo e scrivano di Democrito e maestro di scuola ne’ villaggi; ed Eraclito guastamestieri; e Democrito Lerocrito (giudice di futilità), e Antidoro Senidoro (piaggiatore); e i Cinici nemici alla Grecia, e i Dialettici molto invidiosi, e Pirrone ignorante ed ineducato.
V. Ma costoro sono pazzi; poichè v’ha testimoni bastanti della probità senza pari di un tant’uomo in ogni cosa, e la patria che l’onorò con immagini di bronzo, e gli amici, la cui moltitudine era tale che le città intere non poteano capirli; e i discepoli tutti che furono ritenuti dalle sirene de’ suoi dommi, fuor Metrodoro stratonicense, il quale si trasferì presso Carneade, quasi oppresso alle incomparabili sue bontà: e la scuola, mancate pressochè tutte l’altre, durata sempre e usciti altri da altri innumerabili i capi tra’ discepoli; e la riconoscenza a’ genitori, e la beneficenza verso i fratelli, e la dolcezza co’ servi, siccome è chiaro anche dal suo testamento, e perch’essi filosofarono con lui, uno de’ quali celebratissimo era il prefato Mus; e in generale la sua umanità con tutti. Non è da esprimere la pietà verso gli dei, e l’amor di patria. Non mai, per eccessiva moderazione, prese parte agli affari dello stato; e sostenendo allora la Grecia tempi difficilissimi, quivi finì, sua vita, solo percorsi due o tre volte i confini della Ionia per visitare gli amici, che da ogni banda accorrevano a lui, e, come narra Apollodoro, viveano seco nell’orto, il quale avea comperato per ottanta mine.
VI. Diocle, nel terzo Delle escursioni, afferma che il loro modo di vivere era frugalissimo e semplicissimo: Poichè, dice, a una cotila di vinello e’ stavano contenti, e il loro bere era tutt’acqua. — Epicuro non giudicava conveniente che si ponessero in comune le sostanze, come Pitagora, il quale diceva comuni le cose degli amici. Poichè ciò era da persone che diffidano; e se da diffidenti, non d’amici. — Ed egli dice nelle sue lettere bastargli sola acqua e semplice pane. E, Mandami, scrive, del formaggio citridio, onde quando vorrò lautamente trattarmi, ed io il possa. Tale era quegli che dommatizzava esser fine la voluttà; il quale anche Ateneo loda con un epigramma così: Uomini , voi vi travagliate al peggio,
E per mal sazia avidità principio
Date a liti ed a guerre. Di natura
La ricchezza s’arretra a certi suoi
Confini angusti; ma i giudizii vani
Corron viaggia infinito. — Il saggio figlio
Di Neocle udiva questo, o dalle Muse,
Oppur dai sacri tripodi di Delfo.
Ma procedendo il vedremo anche piò e dai dommi e dalle parole di lui.
VII. Tra gli antichi, dice Diocle, assentiva particolarmente ad Anassagora, sebbene confutandolo in alcune cose, e ad Archelao maestro di Socrate; e, dice, esercitava gli scolari a tenere a memoria i suoi scritti. — Narra Apollodoro, nelle Cronache, ch’ei fu discepolo di Lisifane e di Prassifane; per altro ei nol dice, anzi nella epistola ad Euridico afferma di essere discepolo di se stesso; e che nè esso, nè Ermarco dissero che vi fosse un Leucippo filosofo, il quale, scrive tra gli altri Apollodoro l’epicureo, fu maestro di Democrito. Ma Demetrio magnete afferma ch’egli udì Senofane.
VIII. Usava, secondo le cose, di una dizione propria, la quale, perchè volgarissima, biasima Aristofane il grammatico; Era poi di tanta chiarezza, che, nel libro Della rettorica, stima null’altra cosa doversi cercare fuor la chiarezza. — E usava, nelle lettere, invece di godere, [testo greco], star bene, [testo greco], e ottimo è vivere onestamente. — Alcuni raccontano pella vita di Epicuro aver egli scritto il Canone traendolo dal Tripode di Nausifane, del quale vogliono fosse uditore, ed anche di Pamfilo il platonico, in Samo.
IX. Ed aver incominciato a filosofare di dodici anni, ed a presiedere la scuola di trenta due. Nacque, dice Apollodoro, nelle Cronache, il terz’anno della cennovesima Olimpiade, sotto l’arconte Sosigene, a’ sette di Gamelione, sett’anni dopo la morte di Platone. — Essendo esso ne’ trenta due anni, istituì da prima, per cinque anni, una scuola in Mitilene ed in Lampsaco, poscia fece lo stesso trasferendosi ad Atene, e morì nel second’anno della cenventisettesima Olimpiade, sotto Pitarato, essendo campato due anni oltre i settanta; e lo surrogò nella scuola Ermarco di Agemarco mitileneo. Morì, dice Ermarco, nelle Epistole, di un calcolo che gli impedì le orine, dopo quattordici giorni di malattia. Nel qual tempo, narra Ermippo, che entrato in un bagno di rame temperato con acqua calda e chiesto bere vino pretto ed esortati gli amici a ricordarsi i suoi dommi, finì in tal modo. — V’ha intorno a lui questo nostro epigramma.
Salvete, e ricordatevi i miei dommi.
Così agli amici suoi disse morendo
Epicuro da ultimo, che dentro
Di un caldo bagno entrato e pretto vino
Bevuto, sorbì poscia il freddo Stige.
Tale fu la vita, tale la morte di quest’uomo; e così testò:
„Lascio tutto il mio ad Aminomaco di Filocrate, batita, e a Timocrate di Demetrio, potamio, secondo la donazione fatta ad entrambi, ch’è deposta nel Metroo, a condizione per altro che l’orto e le sue pertinenze sieno dati ad Ermarco di Agemarco mitileneo, e a coloro che filosofeggiano seco, e a’ successoci ch’Ermarco lasciasse in filosofia , onde esercitarvisi filosofando; e per sempre, come deposito, commetto alla fede di quelli che seguono la nostra filosofia, di conservare, secondo il loro potere, con Aminomaco e Timocrate, la scuola ch’è nell’orto, e, nelle forme più valide, faccio lo stesso co’ loro eredi, affinchè essi pure mantengano l’orto al par di coloro a’ quali i filosofi che da noi provennero fossero per trasmetterlo. — La casa ch’è in Melite, Aminomaco e Timocrate, la daranno da abitare ad Ermarco ed a’ filosofanti con lui, sin ch’e’viva. — Del frutto proveniente da ciò che da noi fu lasciato ad Aminomaco ed a Timocrate, per quanto potranno, col parere di Ermarco, spendano parte in celebrazioni di esequie al padre, alla madre ed ai fratelli; e per noi, affine che il consueto giorno natalizio si faccia ciascun anno il ventesimo di Gamelione, al pari dell’adunanza, che si tiene il venti di ogni mese da quelli che professano la nostra filosofia, stabilita in memoria nostra e di Metrodoro. — Celebrino insieme anche il giorno dei fratelli del mese Posideone, come si faceva da noi; e celebrino insieme eziandio quel di Polieno, del mese Metagitnione. — Abbiasi cura e da Aminomaco e da Timocrate del figlio di Metrodoro, Epicuro, e del figlio di Polieno, filosofando essi e vivendo insieme con Ermarco. — E parimente si prendano cura della figlia di Metrodoro, e giunta che sia all’età, la maritino a cui piaccia ad Ermarco, tra’ filosofanti seco, pur che sia modesta e ad Ermarco obbediente. E Aminomaco e Timocrate, consigliandosi con Ermarco, dieno pel mantenimento di quelli ciò che ad essi parrà tutti gli anni dai redditi de’ nostri beni. E facciano in loro compagnia anche Ermarco padrone delle entrate, affinchè ogni cosa avvenga col consiglio di lui invecchiato meco filosofando, e rimasto per eredità capo dei nostri confilosofanti. La dote alla fanciulla, venuta in pubertà, daranno Aminomaco e Timocrate in quella misura che loro paresse, togliendola, col consiglio di Ermarco, dalle nostre facoltà. — Si prendano cura di Nicanore, come si fece anche per noi, affinchè, quanti filosofarono meco offerendoci il proprio, e mostrandoci ogni maniera di amorevolezze, preferirono invecchiaie con noi nella filosofia, di nulla abbisognino, per quanto è in poter nostro, di ciò che è necessarlo. — Diano ad Ermarco i libri tutti di nostra pertinenza. — Che se qualche umano accidente nascesse ad Ermarco, prima che i figliuoletti di Metrodoro venissero a maturità, Aminomaco e Timocrate, conducendosi quelli regolarmente, provvedano, per quanto è da essi, ad ogni loro necessità del frutto di ciò che noi abbiamo lasciato. E provvedano al possibile perchè ciascuna dell’altre cose si faccia come da noi fu disposto. — Tra i giovani schiavi lascio in libertà Mus, Nicia, Licone, e lascio libera anche la Fedrio.“
E già moriente scrive a Idomeneo questa lettera:
„Nel dì felice ed ultimo insieme di nostra vita scrivevamo a voi queste cose. La strauguria ed i patimenli disenterici de’ quali fummo presi non lasciavano che aggiugnere alla loro violenza. Contrapponevasi per altro a tutti questi mali la contentezza dell’animo per la memoria de’ nostri trovati e dei nostri argomenti. Tu poi, come s’addice alla dimostrazione che giovinetto facesti sì verso me che verso la filosofia, fa di aver cura dei figli di Metrodoro.“ — Così testava.
XI. Ebbe molti discepoli assai celebri, Metrodoro ateniese, e Timocrate, e Sande lampsaceno . . . . . il quale (Metrodoro) da che conobbe il filosofo, non s’allontanò più da lui, fuor sei mesi, andando a casa, indi tornò. Fu in ogni conto uom dabbene secondo che, e scrive Epicuro, nelle Principali, e anche Timocrate attesta nel terzo. E quindi per esser tale diede anche in moglie a Idomeneo la sorella Batide; e presa con sè la Leonzio, una cortigiana ateniese, se la tenne per amica. Costui, al dire di Epicuro, nel Primo Metrodoro, era imperturbabile nelle avversità e in faccia alla morte. È fama che morisse sett’anni prima di lui, essendo ne’ cinquantatrè. Ed Epicuro stesso, nel surriferito testamento, siccome evidentemente morto prima di lui, comanda che s’abbia cura de’ suoi fanciulli. Ebbe anche un inconsiderato fratello, il prefato Timocrate. I libri di Metrodoro sono questi: Ai medici, tre — Dei sensi, a Timocrate — Della magnanimità — Della infermità di Epicuro — Contro i dialettici — Contro i sofisti, nove — Della via della sapienza — mutazione — Della ricchezza — Contro Democrito — Della nobiltà.
XII. Anche Polieno di Atenodoro lampsaceno, che era, al dire di Filodemo, affettuoso e buono.
XIII. E il suo successore Ermarco di Agemarco, cittadino mitileneo, nato bensì da padre povero, ma dedito prima all’eloquenza. Sono di pubblica ragione questi suoi bellissimi libri: Di Empedocle, epistolari a ventidue — 'Delle discipline, contro Platone — Contro Aristotele. — Finiva di paralisi; e fu un degno uomo.
XIV. E del pari Leonteo lampsaceno, e la Temista sua donna, alla quale scriveva anche Epicuro.
XV. E Colote eziandio e Idomeneo, lampsaceni pur essi. — Questi furono i celebri tra cui era anche Polistrato, il successore di Ermarco, al quale succedette Dionisio, al quale Basilide. — Fu celebre anche Apollodoro, il tiranno degli orti, il quale scrisse più di quattrocento libri; e due Tolomei, alessandrini, il nero e il bianco; e Zenone sidonio, uditore di Apoliodoro, uomo che scrisse di molte cose; e Demetrio soprannomato il Lacone, e Diogene da Tarso che le scuole scelte descrisse; e Orione ed altri che i veri Epicurei appellano sofisti.
XVI. V’ebbero anche tre altri Epicuri: uno figlio di Leonteo e della Temista; uno magnesio; il quarto gladiatore.
XVII. Epicuro scrisse di moltissime cose, superando tutti nella quantità de’ suoi libri, da che i ruotoli sono presso a trecento. Nessuna autorità esteriore si riferisce in quelli, ma sole sentenze di Epicuro. Crisippo , secondo Carneade, che il chiama parassita dei libri di Epicuro, era nel molto scrivere emulatore di costui. Poichè se qualche cosa scriveva Epicuro, Crisippo faceva a gara di scrivere altrettanto. E però di frequente ancora scrisse le stesse cose; e come gli venivano in capo, e scorrette le mise fuori per la fretta; e le citazioni sono tante, che solamente di esse sono pieni i suoi libri, come possiam rinvenire e presso Zenone e presso Aristotele. Le opere di Epicuro sono dunque tali e sì numerose; di cui ecco il fiore: Della natura, 37 — Degli atomi e del vuoto — Dell’amore — Compendio di ciò che fu scritto contro i fisici — Dubbj, contro i Megarici — Sentenze assentite — Dello eleggere e fuggire — Del fine — Del criterio, o Canone — Cheredemo — Degli dei — Della santità — Egesianatte — Delle vite, 4 — Dell’oprare secondo giustizia — Neocle — Alla Temista — Convito — Euriloco — A Metrodoro — Del vedere — Dell’angolo nell’atomo — Del tutto — Del destino — Opinioni sulle passioni — A Timocrate — Pronostico — Esortatorio — Delle immagini — Della fantasia — Aristobulo — Della musica — Della giustizia e delle restanti virtù — Dei doni e della grazia — Polimede — Timocrate, 3 — Metrodoro, 5 — Antidoro, 2 — Opinioni intorno i venti australi — A Mitre — Callistola — Del regno — Anassimene — Lettere.
XVIII. Ed io, se credesi, tenterò disporre l’epitome di quelle producendo tre sue lettere, nelle quali la sua filosofia sta tutta in iscorcio. E addurrò anche i principali suoi dommi e s’altro parrà da riferire degno di scelta, affinchè tu conosca l’uomo da ogni parte, e me saper scerre. Scrive egli pertanto la prima lettera ad Erodoto intorno le fisiche; la seconda, che tratta dei corpi celesti, a Pitocle; la terza, a Meneceo; e in essa vi sono le cose spettanti alla vita. Ora è d’uopo incominciar dalla prima, dicendo poche cose anzi tratto sulla divisione della filosofia, secondo lui.
XIX. Egli dunque la divide in tre: Canonica,fisica, etica. La canonica contiene l’introduzione all’opera, e sta in un libro intitolato Canone; la fisica contiene la speculazione di tutta la natura, e trovasi ne’ trentasette libri Della natura, e nelle Epistole, per elementi; contiene l’etica le cose intorno a ciò che s’ha da eleggere o da fuggire, ed è nei libri Delle vite, nelle Epistole e in quello Del fine. Usarono nondimeno di unire insieme la canonica colla fisica; e quella chiamano Del criterio e Del principio ed Elementare; la fisica Della generazione e corruzione, e Della natura; l’etica Delle cose da scegliersi e da fuggirsi, e Delle vite e dei fini.
XX. La dialettica, come superflua, rigettano: bastare a’ fisici l’intendersi per mezzo della denominazione delle cose. Quindi Epicuro, in un suo canone, dice i criteri della verità essere i sensi, le anticipazioni e le passioni; e gli Epicurei anche i fantastici conati dello spirito. Ed e’ lo scrive nell’Epitome ad Erodoto, e ne’ suoi dommi assentiti: Ogni senso, dice, è privo di ragione e incapace di nessuna memoria; poichè, sia che muovasi da sè, sia che da altro, non può nulla aggiugnere o levare, nè v’ha cosa che da esso possiamo arguire: non dalla sensazione simile la simile, per l’egualità della forza; non dalla dissimile la dissimile, come non alte a giudicare le cose medesime, nè l’una l’altra; poichè a tutte agguardiamo. E neppure dalla stessa ragione; poichè ogni ragione dipende dai sensi, e resistenza delle percezioni fa fede della realtà dei sensi; e in effetto sussiste il vedere e l’udire, come il sentir dolore. Il perchè delle cose non manifeste è mestieri raccogliere i segni dalle apparenti. Tutti i pensieri nascono dai sensi per accidente, per analogia, per rassomiglianza, per composizione, contribuendovi alcun che eziandio il ragionamento. Anche i fantasmi dei pazzi, e que’ che si formano dormendo, sono veri, perchè si muovono, e le cose che non esistono non si muovono.
XXI. L’anticipazione poi chiamano, come la percezione, sia opinione retta, sia pensiero, sia intelligenza insita universale, cioè memoria di una cosa che spesso ci è apparita al di fuori; verbigrazia: Così fatto è l’uomo. Da che, col dir uomo, subito, per anticipazione, preceduti dai sensi, ne concepiamo la forma. Quindi ogni cosa ci si manifesta dal nome che primamente le fu imposto; e quello che si cerca non sarebbe per noi ricerco se nol conoscessimo dianzi, come per esempio: Se quello che ci sta avanti da lunge sia cavallo o bue; poichè è d’uopo aver una volta conosciuto per anticipazione la figura del cavallo e del bue. Nè potremmo nomare alcuna cosa senza prima conoscere per anticipazione la di lei forma.
XXII. Sono duuque evidenti le anticipazioni, e l’opinabile dipende da qualche cosa prima evidente, cui riferiamo ciò che diciamo, come, a cagion d’esempio: Donde sappiamo se questo è un uomo? L'opinione appellano eziandio congettura, e vera e falsa la dicono. Se attestata e non contradetta, vera; falsa, se non attestata e contradetta. Onde fu introdotto l’aspettare ([testo greco]), come l’aspettare e l’accostarsi ad una torre e il riconoscere quale appaia da vicino.
XXIII. Dicono due essere le passioni, piacere e dolore, e trovarsi in ogni animale; l’una propria, l’altra straniera; per mezzo delle quali si giudicano le cose da eleggersi o da fuggirsi. E delle quistioni alcune versare sulle cose, alcune sulla semplice voce. — E ciò, per sommi capi, della divisione e del criterio.
XXIV. Ma devo tornare alla lettera.
epicvro ad erodoto
prosperità.
„Per coloro, o Erodoto, i quali conoscer non ponno a fondo ciascuna delle opere nostre, scritte sulla natura, nè diligentemente esaminare la maggior parte dei libri da noi composti, ho preparato, a sufficientemente mantenere in essi la memoria delle principalissime dottrine, l’epitome di tutta l’opera; affinchè d’ogni tempo, nelle più assentite, possano essi trovare un soccorso, secondo che e’ si saranno dedicati alle naturali speculazioni. Quelli eziandio che abbastanza hanno proceduto nella contemplazione degli universali, devono rammentare le forme di tutta l’opera, ordinate per elementi; perchè noi abbiamo frequentemente bisogno d’intendere lo spirito agli universali, e non egualmente a’ particolari. E mestieri dunque e continuamente rivolgersi a quelli, e tanto porseli nella memoria, che sieno principale intuito per le cose, e quindi anche i particolari si rinvengano con ogni cognizione accurata, quando nella forma dei principalissimi sono compresi e ricordati ed a semplici elementi e voci riuniti; poichè da una dottrina perfetta e per ogni parte esalta questa precipua cosa deriva, il potere delle sue speculazioni prontamente far uso. E non può essere che comprenda un cumulo di continue considerazioni sugli universali colui che non può con brevi parole abbracciare in sè stesso tutto quello che prima per parti si è con ogni accuratezza spiegato. Il perchè questo metodo essendo utile a tutti coloro che si sono famigliarizzati collo studio della natura, raccomandino l’assidua occupazione in quello, e in esso principalmente trovino la tranquillità della vita, il che si procacceranno con un tale compendio, e coll’insegnamento elementare di tutte le opinioni. Primieramente dunque, o Erodoto, bisogna aver comprese le cose soggette alle parole, affinchè le opinioni, le indagini, i dubbj, possiamo, a quelle riferendole, giudicare, e non ci si dimostrino all’infinito le indeterminate, od abbiam vuoti suoni: essendo necessario in ogni voce osservare il primo significato, e che nulla abbisogni di prova, poichè abbiamo un’indagine, o un dubbio, od una opinione cui riferirlo: sia che ogni cosa osservar si debba co’ sensi, e semplicemente le presenti coll’intuito della mente, sia con qualunque maniera di criterio. Stessa cosa anche le passioni, onde abbiamo la sospensione e l’incertezza con cui contrassegnarle. Queste cose comprese, sono ora da vedersi le incerte, e prima, che nulla deriva da ciò che non esiste; poichè tutto nascerebbe da tutto, nè vi sarebbe mestieri di semi. Che se quello che perì fosse svanito in ciò che non è, tutte le cose si sarebbero distrutte non essendovene alcuna in cui potessero sciogliersi. Ora anche l’universo fu sempre tale quale è adesso, e tale sempre sarà, non essendovi cosa in cui si possa mutare, poichè, eccetto l’universo, non v’è nulla in cui entrando facesse la mutazione (Ma questo dice anche nel Gran compendio, al principio; e nel primo Della natura). — L’universo è un corpo e i corpi, quali che siano, sono attestati in ognuno dal senso istesso, secondo il quale di necessità dobbiamo col ragionamento congetturare l’incerto (come è detto prima). Se non vi fosse quello che vuoto e luogo e natura intangibile denominiamo, i corpi non avrebbero nè dove esistere, nè dove muoversi, siccome appare che si muovano. Nulla fuori di questo possiamo immaginare nè comprensivamente, nè analogicamente alle cose comprensibili, atteso che si prende per tutte le nature e non come ciò che dicesi qualità o accidenti delle medesime. (Ma e questo stesso anche scrive, e nel primo Della natura, e nel decimo quatto e decimo quinto, e nel grande Epitome). Dei corpi ve n’ha alcuni che sono mescolanze, alcuni da cui le mescolanze si sono formate. E questi sono indivisibili ed immutabili, a meno che ogni cosa non debba struggersi nel nulla, ed hanno potenza a durare nelle soluzioni delle mescolanze, piena essendo la natura, e non avendo come e dove poter disciogliersi. Il perchè i principii sono per necessità naturalmente indivisibili. Ora anche l’universo è infinito; poichè il finito ha un’estremità; e l’estremità si considera in relazione a qualch’altra cosa. Onde quello che non ha estremità non ha fine; e non avendo fine, infinito dovrebbe essere e non finito. Ora infinito è l’universo anche per la moltitudine dei corpi e per l’ampiezza del vuoto. Poichè se influito fosse il vuoto e limitato il numero dei corpi, in nessun luogo potrebbero rimanere i corpi, ma andrebbero errando, dispersi per l’infinito vuoto, non avendo cosa che li sorreggesse o ritenesse colla contro percossa; e se il vuoto avesse un limite, i corpi infiniti non avrebbero dove starsi. In oltre i corpi indivisibili e pieni, dai quali si formano e ne’ quali si dissolvono le mescolanze, sono, per varietà di figure, inconcepibili; poichè non è possibile che dalle medesime figure concepite nascano tante varietà. Ora in ciascuna figura sono semplicemente infiniti gli atomi, ma nelle loro differenze non semplicemente infiniti, ma solo inconcepibili. (E, dice più sotto, non è la divisione in infinito, attesochè le qualità si mutano, quand’uno non voglia, anche a riguardo delle grandezze semplicemente, rigettar quelle nell’infinito). Gli atomi si muovono continuamente (Dice più sotto muoversi dessi con eguale velocità, procurandosi dal vuoto lo stesso movimento in perpetuo e ai lievissimi e ai gravissimi.), e gli uni si tengono lontano separati fra loro, gli altri la stessa vibrazione hanno in sè, quando sono inclinati ad unirsi, oppure vengono coperti da que’ che sono portati ad avvilupparsi. Poichè la natura del vuoto, che ognuno di essi separa, ciò effettua, non essendo abile a dare alcuna stabilità; e la solidità che in essi esiste, col loro urtarsi insieme la vibrazione produce, sino a tanto che il ravviluppamento li ristabilisca dall’urtarsi insieme. Principio di essi non v’è, essendo cagioni e gli atomi ed il vuoto. (Dice più sotto che negli atomi altre qualità neppure vi sono, eccetto la figura e la grandezza e il peso dice poi, nel dodicesimo Degli elementi, che il colore si muta per la posizione degli atomi; e che ogni maniera di grandezza non è in essi; quindi non mai atomo fu veduto dal senso. E la voce stessa, in tutte queste cose ricordate, dà una sufficiente idea della cognizione degli enti della natura). — Anche i mondi sono infiniti, sia che a questo assomiglino, o no; poichè gli atomi essendo infiniti, come poco fa si è dimostrato, sono trasportati anche lontanissimo. E siccome questi atomi, dai quali o possa farsi un mondo o siasi fatto per essi, non sono consumati nè in un mondo, nè in finiti, nè in quanti sono simili, nè in quanti sono differenti da questo, così non avvi ostacolo contro l’infinità dei mondi. Anche le forine sono di figura simili ai solidi, per tenuità assai lontane dalle cose apparenti, non potendo sì fatte separazioni non nascere nell’ambiente, nè le attitudini dei concavi e dei tenui per oprarle, nè gli effluvj che couservano la susseguente posizione e andamento, quella stessa cioè che avevano ne’ solidi. Queste forme noi chiamiamo immagini ([testo greco]). In oltre il moto che, senza ostacoli, si fa pel vuoto, ogni concepibile lunghezza compie in un tempo incomprensibile: poichè dalla lentezza o celerità dell’urto o del non urlo trae somiglianza. Nondimeno il corpo portato al basso non perviene insieme in più luoghi in tempi comprensibili pel discorso: non potendosi pensare che anche questo venga insieme, in tempo sensibile, da qual siasi luogo dell’infinito; poichè da qualunque luogo avremo concepito il moto, e’ sarà sempre lontano; e sarà eguale all’urto, quand’anche si lasci non impedita la celerità del moto. Utile è poi di ritenere quest’elemento, sia perchè le immagini usano della più grande tenuità, cui nessuna delle cose apparenti smentisce, o perchè hanno anche una velocità insuperabile, avendo tutte un andamento proporzionato, così che la loro infinitezza nessuna cosa impedisca o poche, ma molte e infinite impediscano tosto alcun po’. In oltre teniamo che la formazione delle immagini venga in un col pensiero, poichè viene dalla superficie dei cprpi un continuo flusso, non manifesto a’ sensi pel reciproco riempimento che per molto tempo conserva nel solido la posizione e l’ordine degli atomi, sebbene talvolta confusi, e preste unioni si fanno nell’ambiente, perchè non è mestieri che avvenga in profondità il riempimento. Ma v’ha ancora altri modi generativi di così fatte nature; nulla ad essi testimoniando i sensi in contrario, s’uom consideri in qualche modo gli atti onde si portano a noi le simpatie delle cose esteriori. Ed è poi da credere eziandio che noi vediamo le forme e le comprendiamo per l’introduzione di alcun che proveniente dall’esterno; poichè le cose esterne non ci aprirebbero altrimenti la propria natura e del colore e della forma per mezzo dell’aria frapposta tra esse e noi, nè per mezzo dei raggi o di altre maniere qual siensi di flussi, a noi provenienti da quelle, di modo che a maniera di certe quali forme, dalle cose di colori e forme simili, con adatta grandezza, ci penetrano negli occhi o nel pensiero celeremente: poscia per questa cagione, che la fantasia è espressione dell’uno e del perpetuo, e conserva la simpatia tratta dal soggetto, secondo il sostegno proporzionato ch’indi le deriva dalla riunione degli atomi per la profondezza del solido. E quella fantasia che abbiamo intensamente ricevuta nella mente o ne’ sensi, sia dalla forma, sia dagli accidenti, forma è dessa del solido, la quale nasce secondo la conseguente densità o rimanenza della fantasia. La falsità e l’errore nelle opinioni aggiunte è sempre in relazione col moto ch’è in noi stessi congiunto alla fantastica visione, ma per altro ha un concetto dal quale nasce il falso. Poichè la rassomiglianza dei fantasmi, che come in immagine si ricevono o nascenti dal sonno, o per qualch’altro intuito della mente, o dai restanti criterj, non esisterebbe nelle cose che sono e appellansi vere, se non ve ne fossero alcuni e sì fatti da applicatisi. L’ errore non esisterebbe se non avessimo ricevuto anche un altro movimento in noi stessi congiunto per certo, ma avente un concetto. Da questa unione coll’intuito fantastico, avente per altro un sentimento, qualora non sia attestato o sia attestato in contrario, nasce il falso; attestato o non attestato in contrario, il vero. Ed è mestieri per ciò che strettamente ci atteniamo a questa opinione, affinchè non si tolgano di mezzo i criteri relativi a’ fatti, e l’errore egualmente confermato non confonda ogni cosa. — Ora anche l’udire nasce da una corrente che proviene da chi parla, o suona, o romoreggia, o in qual sia maniera eccita la passione acustica. Questo flusso si divide in corpicciuoli similari, conservanti insieme una certa simpatia vicendevole e particolare unità, estesa sino a ciò che l’emette, e che forma per lo più la percezione conforme di quello; se poi no, fa manifesto solo il di fuori. Poichè senza una certa simpatia da colà proveniente, non nascerebbe una tale percezione. Non s’ha dunque a stimare l’aria istessa aver forma dalla voce che si emette, o da qualche cosa di simile, molto ad essa mancando, ond’essere atta a patir ciò; ma incontanente la percossa che si fa in noi, quando emettiamo la voce, da certi corpicciuoli che effettuano la corrente ventosa, quello produrre che in noi prepara la passione acustica. — Eziandio l’odorato è da stimarsi come l’udito, non si potendo operare alcuna sensazione se non vi fossero certi corpicciuoli che dall’oggetto si trasportano a muovere con giusta misura questo senso; gli uni in disordine ed ostilmente, gli altri con tranquillità ed armonia. — Ed anche bisogna credere che gli atomi nessuna qualità offrano delle cose apparenti, fuor la figura, la gravità, la grandezza e quant’è necessariamente connaturale alla forma; dacchè ogni qualità si muta, ma gli atomi non si mutano, dovendo, nelle dissoluzioni e nelle unioni, rimanere qualche cosa di solido e indissolubile, che faccia i suoi mutamenti non in ciò che non è, nè dà ciò che non è, ma molti per trasposizione, alcuni per accessione o discostamento. Quindi è giuoco forza che ciò che non cambia sia incorruttibile, e non abbia la natura di ciò che si trasmuta, ma abbia corpicciuoli e configurazioni proprie. Queste cose devono ancora per necessità essere permanenti; poichè in quelle che per noi si trasformano, secondo il preconcetto sistema, la forma che in esse esiste si accetta, ma le qualità che non esistono in ciò che si tramuta come quella, non vengono lasciate indietro, ma si prendono dalla totalità del corpo. Bastano dunque queste cose che si lasciano indietro alla formazione delle unioni, poichè è di necessità che ne rimanga indietro taluna, e che non tutte si struggano in ciò che non è. Ma per altro non bassi a stimare che ogni maniera di grandezza esista negli atomi, affinchè i fenomeni non attestino il contrario; sebbene sia da credere esservi alcune mutazioni di grandezze, dandosi meglio ragione, se ciò accade, delle cose che nascono relativamente alle passioni ed ai sensi. Che poi esista ogni grandezza neppure è utile alla differenza delle qualità; e l’atomo dovrebbe arrivare a noi visibile. Il che non iscorgiamo accadere, nè immaginiamo come possa esser visibile un atomo. In oltre non dobbiamo pensare che in un corpo finito vi sieno dei corpicciuoli infiniti, che che grandi; di modo che non solo va tolta la divisione in infinito nel meno, onde ogni cosa non facciamo debole, e, come nelle unioni degli aggregati, non isforziamo, comprimendo ciò che è in ciò che non è, a consumarsi; ma nè pure è mestieri di credere che siavi passaggio in meno nelle cose che sono finite all’infinito. Poichè quand’anche taluno avesse detto che i corpicciuoli sono infiniti o di qual siasi grandezza, non si può intendere, come abbia anche il finito quella grandezza, essendo manifesto che i corpicciuoli che hanno alcune quantità non sono infiniti; poichè se questi, da cui quelle quantità qualunque venissero, fossero infiniti, avrebbero anche una grandezza e un’estremità nel finito che si potrebbe comprendere; e se non è osservabile per sè stesso, nè pure quel che segue da ciò non è tale da intendersi, e così da quel che segue andando a quel che precede, il pensiero avrà da ciò argomento per arrivare all’infinito. E quel minimo che è nel senso si dee concepire che nè tale sia quali sono le cose che hanno un cangiamento, nè in ogni parte al tutto dissimile, ma abbia alcun che di comune con ciò che si muta, e non ne prenda le parti: ma quando per la similitudine della comunanza qualche cosa crediamo prendere da lui, ora in questa parte, ora in quella, siamo costretti a cadere nell’eguaglianza. In seguito, queste cose osserviamo incominciando da un primo, e non in sè so nè da parli che toccano a parti, ma misurandone nel loro particolare la grandezza, la maggiore col più, la minore col meno: Con questa proporzione dobbiamo stimare che si trovi nell’atomo anche la più piccola parte. Poichè è manifesto come in picciolezza esso differisce da ciò che veggiamo per mezzo dei sensi, ma ha la stessa proporzione; avendo noi provato che l’atomo ha la sua grandezza in questa proporzione solo in qualche cosa di piccolo, escluso il grande. Ed anco vanno considerate come assai piccole e non miste le estremità delle lunghezze, preparando esse col loro mezzo la prima misura ai maggiori ed ai minori per via di discorso nella speculazione sugli invisibili: poichè la comunanza ch’esse hanno con ciò che non muta basta a compiere ciò che havvi sin là; l’assembramento poi non può nascere da quelle cose che hanno moto. Ma nell’infinito, come più alto o più basso, non dobbiamo nominare l’alto e il basso, sapendosi che quello che è sopra il capo, in qualunque luogo si ponga, producendolo all’infinito, non mai ci si farà visibile; nè quello che è sotto ciò che abbiamo immaginato sarà insieme per la stessa ragione anche sopra e sotto; poichè ciò è impossibile ad intendersi. Quindi dobbiamo accettare un movimento superiore, che si supponga in infinito, ed uno inferiore, quand’anche ciò che noi riferiamo ai luoghi sopra del nostro capo arrivi le dieci mila volte ai piedi di quelli che sono superiori, o ciò che da noi si riferisce al basso, al capo di quelli che sono sotto; poichè il moto universale, quantunque agli uni e agli altri opposto, si suppone infinito. Ed anche è giuocoforza che gli atomi abbiano un’eguale velocità quando sono trasportati pel vuoto senz’essere da nulla respinti: da che i pesanti non sono trasportati più velocemente dei piccoli e leggieri, quando niente ad essi facciasi incontro, nè i piccoli dei grandi, tutti avendo un adito eguale, quando non sieno da nulla essi pure impediti, nè quel di sopra nè il laterale dagli urti del moto, nè quel di sotto dai proprj pesi. Chè in quanto l’uno ritenga l’altro, intanto insieme col pensiero avrà il moto, finchè nulla resista, o dal di fuori o dal proprio peso, contro la forza urtante. Ma anche nelle riunioni non sarà l’uno trasportato più velocemente dell’altro, essendo eguale la velocità degli atomi, per essere gli atomi che si trovano negli aggregati, mossi verso un solo luogo e nel minor tempo continuato: se poi non sono spinti verso un luogo, ma sovente respinti, essi verranno mossi in tempi che il discorso può considerare, finchè la continuità del moto cada sotto i sensi. Quello che si congettura intorno all’invisibile, cioè che i tempi i quali il discorso considera avranno un durevole moto, non è vero in tali circostanze: poichè tutto ciò che si considera, o si riceve coll’applicazione della mente è vero. — Dopo ciò è da vedere intorno all’anima in relazione co’ sensi e colle passioni: perchè così avremo fermissima prova che l’anima è un corpo di parti sottili, disseminato per tutto l’assembramento, somigliantissimo a spirito, mescolalo a non so qual calore e simile in qualche luogo all’uno, in qualche luogo all’altro. Avvi poi una parte anche di essi che ha provato molti cangiamenti per la tenuità delle parti e che meglio s’accorda per questo colla restante aggregazione. Ciò tutto appalesano le potenze dell’anima e le passioni e i facili moti e i pensieri e le cose delle quali privati muojamo. E anche bisogna tenere che l’anima ha dal senso la principal cagione. Tuttavolta e’ non l’avrebbe ricevuta se dal restante aggregamento non fosse in qualche modo afforzata: il restante aggregamento poi quando ad essa procaccia questa cagione, si fa da lei partecipe anch’esso di tale accidente, non però di tutto ciò ch’ella possiede. Quindi allo allontanarsi dell’anima non ha più senso: poichè e’ non possedeva in sè stesso questa forza, ma gliela procacciava un’altra cosa ch’era insieme con esso, la quale a mezzo della forza compita ch’è in lei formando tostamente in sè stessa, per virtù del moto, il sensibile accidente, anche a questo, com’è detto, per vicinanza e simpatia lo comunicava. Il perchè esistendo l’anima, non mai, da qual siasi parte allontanata, sarà priva di sensazione se tuttavolta persiste l’acume del senso, ma anch’essa perirà, sciolto ciò che la copriva, sia tutto, sia qualche parte. Il restante aggregamento durando e in totale ed in parte, non ha, rimossa quella, la sensazione, che che sia la quantità degli atomi tendente verso la natura dell’anima. Ma però sciolto il totale aggregamento, l’anima è dispersa e non ha più le stesse forze, nè si muove, per modo che neppure ha senso. Poichè non si può comprendere com’ella senta, se in questa unione anche questi movimenti non usa, quando le cose che coprono e contengono non sieno come quelle in cui ora trovandosi ha tali movimenti. (Ma per altro dice in altri luoghi e questo, e che l’anima è composta di atomi leggierissimi e rotondissimi, molto differenti da quelli del fuoco; ma che la parte irragionevole di essa è dispersa nel resto del corpo, la ragionevole nel petto, come è manifesto e dalle paure e dalla gioja: che il sonno nasce quando le parti dell’anima, che sono disseminate per tutta l’unione, contenute od evacuate, cadono insieme colle disperse; e che il seme proviene da tutte le parti del corpo). Ora devesi anco pensare quello ch’io chiamo l’incorporeo pel frequente uso dei nomi di ciò che per sè s’intendesse; per sè poi non è intelligibile l’incorporeo fuor che nel vuoto; e il vuoto non può nè fare nè patire, ma solo per lo suo mezzo procurare il movimento a’ corpi. Di modo che quelli che dicono essere l’anima incorporea, sono pazzi; poichè se fosse tale, nè far potrebbe nè patir nulla; ed ora entrambe queste cose comprendiamo manifestamente accadere nell’anima. Tutti questi ragionamenti adunque s’uom riferisca alle passioni cd alle sensazioni, ricordandosi delle cose dette in principio, bastantemente vedrà riunito nelle forme di che sporre per esse con sicurezza e diligenza le singule parti. Non hassi poi a credere che e le figure e i colori e le grandezze e le gravità e tutte l’altre cose qualificanti il corpo come accidenti, sieno, o in tutti o ne’ visibili e dal senso stesso conosciute, per sè medesime sostanze; poichè ciò non è concepibile, nè che non siano affatto, nè che sieno qualch’altra cosa incorporea ad esso data di sopra più, o parte di esso, ma universalmente l’intero corpo, che da tutti quelli ha la propria eterna natura; non per altro cosi da esserne composto, come quando da essi corpuscoli si costituisca un aggregato maggiore, sia dai primi, sia dalle grandezze dell’universo, e da alcuno dei minori, ma solo, come dico, da tutti questi, avendo la sua essenza eterna. E tutte queste cose hanno intuiti proprj e percezioni, conseguenti però dal complesso, e in nessuna parte divisi, ma traendo qualità dalla subita intelligenza del corpo. Più, anche a’ corpi accade spesso di essere accompagnati da qualche cosa non sempiterna, nè fra gli invisibili, nè incorporea. Come certo, col maggior movimento, per usar questo nome, faciam manifesto gli accidenti nè avere la natura dell’universale, che preso in complesso appelliamo corpo, nè quella delle cose perpetue che la accompagnano, senza le quali non possiamo pensare un corpo: per intuito poi ciascuna potrebbesi nominare alcun che di accompagnante l’aggregamento, ma quando si osservano i singoli attributi, non seguaci dei sempiterni accidenti. E quest’evidenza non va esclusa dall’esistente, che non ha la natura dell’universo contingente, la quale certo chiamiamo corpo, nè quella dei sempiterni seguaci, nè s’ha da stimare al contrario sussistere da sè: poichè ciò non debbesi intendere nè circa a questi, nè circa a contingenti sempiterni ma, quello che eziandio apparisce, tutti gli accidenti si denno stimare corpi, anche se il sempiterno non accompagnino, nè per sè stessi in vece abbiano l’ordine naturale, ma si considerino nel modo col quale il senso stesso ne forma la proprietà. E però a questo ancora dobbiamo gagliardamente considerare: poichè il tempo non va cercato, siccome tutte l’altre cose che cerchiamo nel subietto, riferendoci agli antecedenti che presso di noi medesimi si scorgono; ma alla stessa evidenza per la quale diciamo da reputarsi il tempo molto o poco, ciò spacciando quasi per parentela. Nè si denno scegliere locuzioni come migliori, ma usare quelle stesse che all’uopo vengono a taglio; nè, che che altro di esso è da specificare, come avesse la medesima forza di questa proprietà: che ciò fanno alcuni: ma soltanto è da avvertire principalmente che il particolare che vi annettiamo, questo anche commisuriamo. Non avendo mestieri di dimostrazione, ma di considerazione questo, che ai giorni, alle notti ed alle loro parti noi annettiamo un tempo; e parimente alle passioni e all’assenza di queste, ai movimenti e ai riposi qualche particolare accidente, pensando di nuovo intorno ad essi quello secondo cui nominiamo il tempo. (E dice questo anche nel secondo Della natura, e nel Gran compendio). Ed oltre le predette cose dobbiamo credere i mondi ed ogni finita aggregazione, che ha forma simile a quelle che frequentemente veggiamo, essere prodotti dell’infinito, separati da esse tutte, e maggiori e minori, pel proprio agitarsi; e di nuovo tutti essere disciolti, questi più presto, quelli più tardi, ciò patendo gli uni per tale, gli altri per tale altra cagione. E manifesto adunque che corruttibili sono i mondi pel tramutarsi delle parti, e che la terra è trasportata sull’aria. Più, non doversi stimare che per necessità abbiano i mondi una sola configurazione, ma che anzi sieno essi differenti, altri simili a sfera, altri ad uovo, altri di altra forma; non però che abbiano ogni forma. Nè che gli animali sieno separati dall’infinito; poichè nessuno saprebbe dimostrare che in un mondo sì fatto fossero contenuti sì fatti semi, da cui sono formati gli animali e le piante e tutte l’altre cose che veggiamo, e che potessero in esso anch’essere nutriti. A uno stesso modo doversi credere anche riguardo la terra. Egli è poi da stimare molto e variamente essere la natura dalle cose stesse insegnata e costretta ma la riflessione più diligentemente spiegare e rinvenire da poi quello ch’essa offre, in alcune più presto, in alcune più tardi: ed in alcune pure secondo periodi e tempi maggiori di quelli che si hanno dall’infinito, in alcune secondo minori. Quindi anco i nomi non essere stati da principio imposti; ma le stesse nature degli uomini, secondo ciascun popolo che è commosso dalle proprie passioni e che riceve le proprie impressioni, emettere in modo particolare l’aria, spinta dalle singole passioni ed impressioni, onde un giorno fosse differenza di popoli anche per luoghi. Dopo poi in comune per ciascun popolo essersi imposti i proprj, perchè le significazioni fra loro fossero meno ambigue e più brevemente esposte: ed anco inferite alcune cose che non si vedono, offerendo a quelli che ne avevano conoscenza, certi suoni, alcuni dei quali proferiti per necessità, altri in conseguenza di raziocinio, così interpretati per diversa cagione. — Anche nelle cose celesti il movimento, la conversione, l’eclissi, il sorgere, il tramonto e simili noti s’ha da stimare che accadano pel ministero di alcuno, che le ordini o governi, ed ogni beatitudine abbia insieme all’immortalità; poichè i negozj, le cure, gli sdegni ed i piaceri non consuonano colla beatitudine, ma colla debilità, colla paura e col bisogno, di cui e’ sono più presso: nè, d’altro canto, che qualche cosa di igneo confusa insieme, conseguita la beatitudine, prenda volontariamente questi moti, ma volersi tutto il decoro serbare per ogni nome che a queste nozioni si riferisce, se nulla di opposto a ciò ch’è decoroso da essi si mostri; altrimenti, grandissimo disordine produrrà nelle anime questa opposizione. Per la qual cosa secondo gli impedimenti che dal principio di queste conversioni sono nella composizione del mondo, creder dobbiamo anche una sì fatta necessità e periodo compirsi. Quindi lo indagare minutamente la cagione rispetto a’ più sicuri essere da considerarsi ufficio della fisiologia, e la felicità essere qui caduta nella conoscenza delle cose celesti e della qualità delle nature che si osservano in queste cose celesti, ed in quante sono ad esse affini nel minuto esame di quelle. E oltre a ciò essere in sì fatte cose e quello che è di più maniere, e quello che è secondo le circostanze, e quello che è, come che siasi, altrimenti, ma nulla semplicemente esistere nell’incorruttibile e beata natura di ciò che presenta alcuna separazione o disordine: e spetta alla mente il comprendere che questo sia semplicemente così. Ora quello che cade nella conoscenza del tramonto, del sorgere, della conversione, dell’eclissi e simili, già punto non conferisce alla felicità del sapere, ma coloro parimente hanno timore che sì fatte cose osservano, alcuni ignorandone le nature, alcuni le cagioni principalissime, come se prima non le avessero conosciute, e molti fors’anco, quando il timore proveniente dall’anteriore conoscenza di quelle non sappia comprendere la soluzione e l’economia delle più assentite. Egli è perciò ancora che noi troviamo parecchie cagioni dei movimenti, dei tramonti, delle levate, delle eclissi e simili, siccome nelle cose che avvengono pavidamente. E non s’ha da credere che sull’uso di quelle non siasi presa così esalta cognizione che potesse conferire alla nostra tranquillità e felicità. Ondechè osservando, quasi per transito, a confronto, in quanti modi appo noi accadde il simile, vanno discorse le cagioni e delle cose celesti e di ogni cosa occulta, dispregiando chi non sa nè quello che a una sola maniera esiste o diviene, nè quello che accade in diverse, secondo l’immagine che offrono le cose lontane, ed eziandio ignora in quali non dobbiamo essere tranquilli. Se dunque noi stimiamo eziandio in questo modo potersi ciò fare anche nelle cose in che parimente s’ha da essere tranquilli, anco riconosciuto che accadano in molte maniere, come se vedessimo che in qualche modo così fosse, saremo senza perturbazione. Dopo tutto ciò debbesi riconoscere che la perturbazione principalissima all’anime umane nasce dal credere queste cose e beate e incorruttibili, e dall’aver esse insieme opposte le volontà e le azioni e le cause, e dall’esservi nell’eternità, secondo le favole, un qualche male da aspettare o da sospettare, paventando quella privazione di senso ch’è nel morire, come essente per esse, e dal soggiacere a queste cose senza opinioni, ma per non so quale irragionevole induzione: onde non determinandosi quel male, se ne piglia eguale od anche più gran timore, come se quelle ancora si opinassero. Questa tranquillità poi sa consiste nell’essere sciolti da tutte quelle, e nell’avere continua memoria delle universali e più assentite. Quindi bisogna giovarsi di tutte le cose che sono presenti e dei sensi, in comune colle comuni, in particolare colle particolari, e con ogni attuale evidenza secondo i singoli criterj. Poichè se a questo agguarderemo, ciò, donde il turbamento ed il timore nasceva, con retto discorso rinverremo e dissiperemo, ragionando le cagioni e delle cose celesti e delle restanti che del continuo avvengono, e spaventano sommamente gli altri uomini. — Queste cose sulla natura dell'universo abbiamo per te, o Erodoto, ristrette in sommissimi capi, di maniera che se questo discorso acquisti forza imparato esattamente a memoria, penso, quando pure taluno non ne avesse con diligenza percorsa ogni parte, ch’egli, per la forza procacciatasi, non potrà essere paragonato agli altri uomini. Poichè e da sè stesso farà chiare molte di quelle che a parte a parte sono diligentemente esposte da noi nella trattazione universale, e queste istesse mandate a memoria, gli profitteranno del continuo; tali essendo che anche coloro, i quali a parte a parte hanno già posto bastante diligenza o perfetta nell’esame di sì fatte nozioni, potranno fare la maggior parte dei ragionamenti sulla natura dell’universo. Quelli tra essi poi che non avessero compiutamente raggiunta la perfezione per mezzo di quelle, o avessero mancato del ministero della voce, per tranquillità, facciano di ravvolgere in mente le principalissime.“ — E questa è la sua lettera intorno alle fisiche.
XXV. Intorno alle cose celesti questa:
epicvro a pitocle
prosperità
„Il bellissimo Cleone mi recò la tua lettera, nella quale continui a mostrarti benevogliente con noi siccome merita la nostra sollecitudine verso di te, e tenti in maniera non disadatta a persuadere di rammentar gli argomenti che conducono alla vita beata, e prieghi ch’io ti mandi intorno alle cose celesti un corto e ben circoscritto ragionamento, onde ricordartene di leggieri; da che ciò che si è scritto per noi in altre opere, è difficile da imparare a memoria, sebbene; come dici, uom del continuo vi si sobbarchi. Noi però di buon grado abbiamo accolta la tua preghiera, e serbiamo una dolce speranza che avendo finito di scrivere le restanti tutte, questi ragionamenti che ci richiedi a molti altri saranno per essere utili, e massime a coloro che novellamente avranno gustato il vero studio della natura, ed a quelli che sono implicati in qualche più grave occupazione ordinaria. Questi medita come conviene, e avendoli nella memoria percorrili accuratamente cogli altri che in una breve epitome abbiamo mandato ad Erodoto. — Primamente adunque dobbiamo stimare non esservi alcun altro fine nella conoscenza delle cose celesti, sia considerate nella loro unione, sia in modo assoluto, fuor quello della tranquillità e di una ferma credenza, come in tutto il resto nè far violenza all’impossibile, nè speculare in ogni cosa conformemente sia ai ragionamenti per noi dettati intorno al modo di vivere, sia a quelli intorno alla spiegazione dell’altre naturali quistioni, come, che l’universo è corpo e natura impalpabile, o che indivisibili sono gli elementi e tutte quante le sì fatte cose che hanno sola concordanza con ciò che si vede, lo che non avviene delle celesti; le quali anzi svariata hanno e la causa della generazione, e la qualità della sostanza accordantesi coi sensi. Poichè la natura non va studiata secondo vani assiomi o sanzione di leggi, ma come ne invitano le cose visibili, non avendo mestieri la vita nostra di pazzi ragionamenti e di vuota gloria, ma del vivere noi senza inquietudiui. Tutto dunque si fa stabilmente in tutte le cose se in diversa maniera si spiega di concordia a ciò che apparisce, purchè ciascuno convenientemente abbandoni quello che su di esse con probabilità si discorre. Che se alcuno questo ommetta, rigetti quello per esservi ciò del pari alla cosa apparente, è chiaro che scade da ogni cognizione della natura, e trascorre nella favola. Alcuni segni di ciò che si compie in cielo debbonsi produrre da alcune di quelle cose che ci appaiono, le quali si vedono o sono, e non da quelle che si osservano in cielo: poichè non è possibile che facciansi in diversi modi. Nondimeno ciascun fantasma va osservato e diviso in quelle cose che sono in esso congiunte, le quali non provano che in diversi modi non si compia quello che avviene presso di noi. — Il mondo è una estensione di cielo contenente e gli astri e tutte le cose che si vedono, diviso dall’infinito e terminante in un’estremità, sia rada, sia densa, o in ciò che gli s’aggira d’intorno, o in ciò ch’è stabile, ed ha rotonda o triangolare o qual si voglia altra circoscrizione, essendo possibile di ogni maniera; poichè nessuna delle cose che si vedono è in contradizione con questo mondo, in cui non è comprensibile un limite, e sciolto il quale, tutte le cose che sono in esso saranno prese da confusione. Che poi questi mondi ancora sieno infiniti, s’ha da congetturare al gran numero, e che un tal mondo possa farsi e nel mondo e nell’intermondio, che intervallo diciamo tra mondi, in un luogo molto vuoto e non in un grande, puro e non vuoto, siccome taluni affermano, da certi idonei semi discorrenti da un mondo solo, o intermondio, od anche da più, a poco a poco, apposizioni e composizioni e migrazioni facendo in altro luogo, se così sia accaduto, e ricevendo opportuni inaffiamenti da qualche cosa fino a compimento e consistenza, in quanto i sopposti fondamenti possono formare un’aspettativa. Poichè non è mestieri che si faccia soltanto un ammasso ed un vortice nel vuoto, in cui per necessità può, come crediamo, formarsi un mondo, e crescere fino ad urtare contro un altro, secondo che dicono alcuni di quelli che si appellano fisici, essendo ciò in contradizione con quello che vediamo. Il sole, la luna e le altre stelle, non fatte per sè, sono comprese per ogni dove dal mondo; e parimente terra e mare e quante cose debbonsi conservare, sono tosto formate, ed ebbero incremento per incorporazioni e aggiramenti di certe nature di parti sottili, ossia di spiritali o di ignee, ovvero di entrambe insieme; chè in tal modo queste cose ci presenta il senso. La grandezza del sole e delle stelle restanti, secondo che da noi si considera, tant’è quanto apparisce; (Ciò anche afferma nell’undecima Della natura; „Poichè, dice, se la grandezza avesse perduto per la distanza, molto più avrebbe perduto il colore, non essendovi per esso altra più confacente distanza“). Ma secondo ciò ch’è per sè, o maggiore è di quello che vediamo, o minore di poco; o tale quale si vede. Così anche i fuochi che noi veggiamo a distanza, sono veduti secondo il senso. Ogni insistenza poi in questa parte avrà fine di leggieri se uno si applicherà alle cose evidenti che abbiamo dimostrato ne’ libri Della natura. La levata ed il tramonto del sole, della luna e dell’altre stelle può accadere e per accendimento e per estinzione, tali essendo le circostanze. Ma anche in altri modi le prefate cose hanno luogo, non ostando nulla di ciò che veggiamo. E per apparenza sulla terra e viceversa per opposizione, potrebbe ciò che s’è detto innanzi effettuarsi; poichè nessuna delle cose visibili attesta in contrario. I costoro movimenti non è impossibile che avvengano pel raggirarsi di tolto il cielo, o per l’immobilità di esso e il girare di quelli, secondo la necessità che dal principio, nella generazione del mondo, fu prodotta ad oriente, poscia nel calore, secondo una certa distribuzione del fuoco, sempre tendente a’ luoghi successivi. Le conversioni del sole e della luna possono farsi per l’obliquità del cielo, così necessitati dai tempi, e parimente per la controspinta dell’aria, od anche di una materia sempre opportuna, parte infiammata, parte deficiente; od ancora potè da principio una sì fatta vertigine avere avviluppato questi astri per modo che si movessero a tondo. Tutte queste cose e le affini a queste non dissuonano dalle evidenti, quand’uno in sì fatte parti appigliandosi al possibile, può condurre ciascuna di quelle alla consonanza colle cose che vediamo, senza che lo spaventino l’arti abbiette degli astrologi. Lo scemare della luna e il crescere di nuovo potrebbe accadere pel movimento di questo corpo e parimente per configurazione dell’aria, ed ancora per interposizioni, e per tutti quei modi pe’ quali le cose che presso noi appariscono si producono nelle spiegazioni di una tal forma, a meno che taluno, contento ad un unico modo, gli altri non riprovi, senza osservare che cosa sia possibile all’uomo di vedere e che non sia possibile, e per ciò desiderando di veder l’impossibile. È possibile in oltre che la luna abbia luce da sè stessa, ed è possibile ancora che dal sole; poichè presso di noi eziandio veggonsi molte cose che l’hanno da sè stesse, molte che da altre; e nulla vi si oppone di ciò che vediamo in cielo, quand’uno ne rammenti sempre i moltiplici modi e le ipotesi insieme che ne conseguono, e agguardi le cagioni, e non abbadando alle inconseguenti, queste pieghi ora in una maniera, ora in un’altra, a quell’unica forma. L’apparenza in essa di volto può farsi e per cangiamento di parti, e per interposizione, e per tutti que’ modi che si osservano aver consonanza a quanto veggiamo. Ma per tutte le cose celesti non dobbiamo applicarci a seguitare questa traccia; poichè se alcune repugnanti alle apparenze........ non fia mai possibile ottenere verace tranquillità. L’eclissi del sole e della luna può avvenire e per ispegnimento, come ciò vediamo nascere anche presso di noi, ed eziandio per lo interporsi di alcuna cosa, o della terra, o del cielo, o di che che altro di sì fatto. E per tal maniera dobbiamo considerare insieme i modi fra loro convenienti, e non avere per impossibile che i casi di taluni nascano uniti. (Queste cose e’ scrive nel duodecimo Della natura; e il sole eclissare adombrato dalla luna, e la luna dall’ombra della luna; ed eziandio pel suo ritiramento. Questo dice anche Diogene l’epicureo nel primo Delle scelte opinioni). E prendere oltre ciò l’ordine del periodo a quella maniera che sono, anche appo noi, alcune cose che accadono, nè in modo alcuno aggiugnere ad esse la natura divina, ma serbarla esente da ogni ministero in tutta la sua felicità; poichè, se ciò non sarà fatto, ogni discorso sulle cose celesti tornerà vano, siccome ad alcuni è già avvenuto, che applicati ad un modo non possibile, sono caduti nel falso, credendo ch’esse non si effettuassero che a un sol modo, ed escludendo tutti gli altri possibili, andarono a finire al non intelligibile, e le cose apparenti da prendersi per segni non poterono considerare. Le lunghezze delle notti e dei giorni variamente alternano e perchè i giri del sole si fanno rapidi, e viceversa lenti sulla terra, secondo che variano alternando le longitudini dei siti, e alcuni siti sono trascorsi più velocemente o più lentamente ancora, a quel modo che si osservano anche presso di noi alcune cose, conformemente alle quali dobbiam ragionare delle celesti. Coloro poi che s’appigliano ad una sola, e fanno contrasto a ciò che appare, e s’ingannano intorno a quello che può dall’uomo essere veduto. Le significazioni possono farsi e per accidente di tempi, come negli animali che vediamo presso di noi, e per altro, come nel cambiamento dell’aria: ambedue queste cose non ripugnano a ciò che si vede; ma a quali poi l’una o l’altra sia cagione, non possiamo intendere. — Le nubi possono formarsi e raccorsi e per condensamento di aria e per compressione di vento, e per lo implicarsi degli atomi vicendevolmente aderenti, e di quanto è opportuno ad effettuar ciò, e per riunione di efflussi dalla terra e dalle acque: per più altri modi infine, i quali non è impossibile contribuiscano alle sì fatte composizioni. Ora da esse, parte urtantisi parte mutantisi, possono essere prodotte le piogge; e ancora le lunghe piogge, secondo che provengono dai luoghi opportuni che si aggirano per l’aria, ove si fecero più violente inondazioni da certe unioni opportune in cotali effondimenti. - I tuoni possono farsi e per isvolgimento di venti nella cavità delle nubi, siccome avviene nei nostri vasi, e per rimbombo di fuoco in esse soffiato, e per infrangimento di nubi e discordia, ed anche pel fregarsi e raschiarsi fra loro quand’hanno preso una consistenza cristallina. In una parola molti fenomeni e’ inducono ad affermare che di più maniere ciò si compia. — Anche i lampi avvengono del pari in molti modi; poichè nasce il lampo e per isfregamento e per collisione delle nubi, quando si perde quella configurazione che è produttrice del fuoco, e pel soffio eccitante che proviene dalle nubi per effetto dei venti, i quali preparano questo splendore; e per la spremitura che produce il comprimersi delle nubi, o di per sè a vicenda, o per mezzo dei venti; e per l’accogliere da tutte parti la luce disseminata dagli astri, quindi, costretta dal movimento delle nubi e dai venti, sfuggente a traverso le nubi; o per colamento di sottili particelle di luce da esse, o perchè la nube a mezzo del fuoco si rinserra e produce i tuoni; e per moto di quello, e per accendimento di vento, il quale si faccia per isforzo continuato di corso e raggirarsi violento; e ancora per lo spezzarsi delle nubi a cagione dei venti, e pel cadere degli atomi produttori del fuoco ed efficienti l’immagine del lampo. E per molt’altre maniere sarà facile si osservi da chi attiensi e alle cose che veggiamo, e sa considerare ciò che a queste somiglia. In sì fatte condizioni di nubi precede il lampo al tuono, e perchè quando insieme le investe il vento, viene cacciata fuori la figura che forma il lampo, e dopo il vento avviluppato produce quel rumore; ed anche perchè al cadere di entrambi insieme il lampo usa verso di noi maggiore velocità, e in seguito viene il tuono, come accade di alcune cose che si osservano in distanza, e si fa in esse qualche percossa. — I fulmini possono generarsi e per più grandi unioni di venti, e per isvolgimento di essi e forte accendimento, e per rottura di una parte e sua caduta più impetuosa sui luoghi bassi, rottura nascente dall’essere più fitti i luoghi successivi per la compressione delle nubi; e anche per questa caduta di fuoco avviluppato. Ed a quel modo eziandio può farsi che il tuono, quando sarà maggiore il fuoco e inspirato con più forza e rompente la nube per non poter ritrarsi ne’ luoghi successivi a cagione che si produce maggiore condensamento in qualche alto monte, ove particolarmente cascano i fulmini, quantunque sempre alternando. Per più altri modi insomma si possono formare i fulmini, purchè si tenga lontana la favola: e si terrà lontana se alcuno seguendo destramente le cose che si vedono, osservi le occulte. — I presteri possono essere prodotti e per la posizione delle nubi ne’ luoghi inferiori a forma di elica per la impetuosa spinta del vento raccolto; e a cagione del vento che insieme e sia mosso con veemenza e la nube cacci a prossimi luoghi del vento esteriore; e pel circostante vento costretto in circolo superiormente dall’aria e dalla gran corrente prodotta dai venti e non atta ad espandersi lateralmente per la densità dell’aria che la circonda. Sceso sino a terra il prestère, nascono i turbini, quasi fosse quest’effetto per moto di vento;ma sino al mare si producono i turbini. — I tremuoti è possibile che avvengano e per rinchiudimento di vento nella terra, e pel farsi essa incontro a’ piccoli corpi e al continuo muoversi, quando prepara alla terra uno scuotimento. E questo vento o esternamente sia raccolto pel cadere del fondo, o ne’ luoghi cavernosi della terra esali il condensato aere. E per tale distribuzione di moto cagionata dalla caduta e nuovo ripristinamento di molti fondi, dove si faccia incontro a’ più validi addensamenti della terra, può avvenire che si effettui il tremuoto. Queste agitazioni della terra avvengono eziandio in più altre maniere. — Il formarsi dei venti a certi tempi accade quando sempre e a poco a poco penetri furtivamente qualche cosa di estraneo, e per adunamento d’acqua copiosa: gli altri venti però nascono allorchè pochi cadendo in molte caverne si formano dalla divisione di quelli. — La grandine ha luogo e per un più forte congelamento e attorniamento per ogni dove di alcune ventosità; e per divisione e congelamento più moderato di alcune acquosita, facendosi a un tratto e il costringimento insieme e la spezzatura di queste, onde si costituiscano coagulate in parti e in totalità. E la rotondezza non è impossibile che avvenga dalle estremità che per ogni dove si liquefanno nel congelarsi da tutte le bande, come si afferma, secondo le parti uniformemente circostanti sia di alcune acquosità, sia di ventosità. — La neve può essere che si formi e da sottile acqua versata dalle nubi per via di pori proporzionati, e da compressione di nubi adatte, e da moto di vento, quindi congelantesi nel girare, per qualche grande raffreddamento, ne’ luoghi più bassi, delle circostanti nubi. Per altro anche da congelamento nelle nubi, aventi radezza eguale, potrebbe aver luogo quest’uscita dalle nubi, mentre si urlano a vicenda quelle che mostrano aspetto di acqua, e quelle che in uno sonvi adiacenti, le quali mentre fanno quasi uno stringimento, producono la grandine, lo che particolarmente nasce nell’aria. Anche per isfregamento di nubi che sieno prese da congelazione, avrebbe luogo questo ragunarsi della neve, che per altri modi ancora potrebbe formarsi. — La rugiada si forma dall’aria pel vicendevole concorso di quelle parti che sono causa efficiente di cotale umidità; e per la loro provenienza o da luoghi umidi o aventi acque, ne’ quali luoghi principalmente formasi la rugiada; poi quando l’unione di queste in un luogo medesimo ha acquistato e il compimento dall’umidità, e a suo tempo il moto a’ siti inferiori, a quel modo che anche presso noi si effettua alcuna di sì fatte cose nella stessa maniera. — La brina poi si forma quando da queste rugiade siasi preso un tal quale cangelamento per alcuna circostanza di aria fredda. — Nasce il ghiaccio quando, spremute fuor dell’acqua le particelle rotonde, avvi costringimento delle ineguali ed acutangole che esistono in essa; e allorquando eziandio vi si fa dal di fuori aggregazione di tali, che insieme costrette preparano il congelamento dell’acqua, spremendone fuori quantità di rotonde. — Nasce l’arco baleno quando il sole getta la sua luce contro l’aere acquoso; o per propria natura e della luce e dell’aria, la quale costituisce le particolarità di questi colori, sia tutte, sia una sola specie, da cui risplendendo di nuovo le parti attigue dell’aria prendono quel coloramento che noi veggiamo splendere contro esse parti. Quest’aspetto poi di rotondità nasce dalla distanza per tutto eguale da dove si osserva colla vista, o perchè ricevendo gli atomi che sono nell’aria o nelle nubi un sì fatto costringimento dall’aria stessa che si trasporta verso la luna, allontanati gli atomi, scenda in questa riunione una certa rotondità. — L’alone formasi intorno alla luna e quando il fuoco da ogni dove si porta verso la luna, e i flussi derivanti da essa sono uniformemente ritenuti, tanto che si costituisca all’ingiro questa nebulosità e al tutto non se ne divida, od anche quando l’aria attorno di essa ritenuta dovunque con giusta misura, costituisce la rotondità che la circonda e la spessezza delle parti: lo che per alcune parti avviene sia dal di fuori pur impulsione di certo flusso, sia pel calore impossessantesi degli opportuni pori onde ciò operare. — Le stelle comete si formano, sia quando il fuoco in alcuni luoghi e a certi tempi si agglomera all’alto del cielo, venutane opportunità, sia quando per alcun tempo il cielo ha sopra di noi un certo moto particolare che queste stelle faccia apparire, sia ch’esse in alcuni tempi si mettano in movimento, per qualche circostanza, e ne’ luoghi nostri vengano e si facciano manifeste. Il non apparire di esse avviene per cagioni opposte a queste. — Alcuni astri quivi ritornano; lo che accade non solo perchè stia ferma la parte di questo mondo, intorno a cui le restanti cose s’aggirano, come afferma taluno, ma anche perchè e’ sono compresi dal circolar vortice dell’aria, il quale impedisce loro di girare come gli altri; od eziandio per non esservi successivamente in quelli la materia opportuna, ma in questo luogo ove si vedono collocati. E per più altri modi è possibile che ciò si compia, qualora uom sappia ragionare le cose che consuonano con quanto veggiamo, alcuni astri cioè andar vagando, se così avvenga che adoprino nei movimenti, alcuni non muoversi. Può farsi certamente ancora che per essere da principio così costrette le cose che si muovono in circolo, altre vengano trasportate da uno stesso vortice che sia eguale, altre da uno ch’abbia insieme certe disuguaglianze; ma può farsi ancora che pe’ luoghi ne’ quali sono portate, qua sieno equabili le estensioni dell’aria, che poi si riunisce in uno stesso luogo ed equabilmente si estende, là poi ineguali a segno da produrre i cangiamenti che vediamo. Il voler quindi assegnare una sola cagione di queste cose quando siamo attratti in più maniere da ciò che vediamo, è da pazzo, e non si opera convenevolmente da coloro che sono dediti alla frivola astrologia, e danno invano ragione di alcune cose, quando la divina natura non assolvono al tutto da ogni ministero. — Accade di vedere alcune stelle vinte da altre, e perchè sono più lentamente portate intorno, girando lo stesso circolo, e perchè si muovono al contrario, essendo tratte in senso opposto dallo stesso vortice, e perchè sono portate in giro, alcune per un luogo più grande, alcune per uno minore circondando lo stesso vortice. Decidere con temerità sì fatte cose spetta a coloro che vogliono spacciare alla moltitudine qualche portento. — Le stelle che diciamo cadenti si possono formare e per parte e per trituramento di esse e sua caduta da ogni dove nasca la evaporazione, siccome si disse dei lampi; e per una riunione di atomi, efficienti il fuoco, cui abbia stretta , a compier ciò, una reciproca amicizia; e pel movimento, da qualunque parte, attesa la riunione, nasca da prima l’impulso; e per adunamento di venti in alcune condensazioni a maniera di nebbia, secondo che queste s’accendono nel loro avviluppamento, poi eruzione da ciò che le contiene, e in qual siasi luogo nasca l’impeto, proseguimento in esso del moto. E vi hanno altri modi infiniti ad effettuar questo. — I segnali che danno certi animali avvengono per circostanze di tempo; poichè gli animali non cagionano alcuna necessità onde si effettui l’inverno, nè è costituita una natura divina che sorvegli l’uscita di questi animali, e che dopo produca questi segni. Chè in qual si voglia animale, per poco ch’e’ fosse meglio privilegiato, non accadrebbe sì fatta stoltezza, non che in colui che possiede un’intera felicità. — Ora di tutte queste cose arricordati, o Pitocle, perchè e ti allontanerai di molto dalla favola, e potrai comprendere ciò che è del genere di esse. Particolarmente poi datti alla contemplazione dei principj e delle infinità e di quanto loro è affine, ed eziandio dei criteri, delle passioni e di ciò per cui motivo queste cose ragioniamo. Le quali principalmente considerate, si renderà facile conoscere le cagioni delle singole cose. Ma que’ che molto buona accoglienza non fecero a sì fatti principj, nè quest’essi convenientemente osservarono, nè si procacciarono quello per cui doveano questi osservare.“
XXVI. Così pareva ad esso intorno alle cose celesti. — Circa quelle della vita, e come noi dobbiamo fuggirne alcune, altre eleggerne, scrive in questo modo. Ma prima discorriamo ciò che del sapiente paja ad esso ed a’ suoi successori. — I danni, affermano, nascere dagli uomini o per odio o per invidia o per disprezzo, ed a questi, colla ragione, essere superiore il sapiente. Anzi chi fu sapiente una volta, non più acquistare disposizioni contrarie; nè volontariamente fingere di starsi piuttosto legato alle passioni; non potere la sapienza patire ostacolo. Per altro non da ogni abito di corpo formarsi il sapiente nè in ogni classe di persone. Ed ancorchè il sapiente sia torturato, esser desso felice. Solo dovere il sapiente aver grazia cogli amici presenti al par che coi lontani. Nè quand’egli è posto al tormento nicchierà e piangerà. E il sapiente non dover mescolarsi con donne, cui le leggi interdicano, siccome scrive Diogene, nel Sunto dei dommi morali d’Epicuro; e dover bensì castigare i servi, ma aver pietà e indulgenza ad alcuno dei più diligenti. Credono non dover il sapiente nè innamorarsi, nè darsi pensiero della tomba: non essere l’amore insito da dio, secondo che scrive Diogene, nel dodicesimo: non convenire l’eccessivo esercizio dell’arte oratoria. Il coito, dicono, non mai giovò, ed è fortuna s’ anco non nocque. Secondo Epicuro, ne’ Dubbj e nel libro Della Natura, non dovrà il sapiente, nè ammogliarsi, nè procreare figliuoli; talvolta però, in qualche circostanza della vita, e’ s’accosterà alle nozze e ne rimoverà taluni. Nè poi, come dice Epicuro, nel Banchetto, farà osservazioni nell’ubbriachezza, nè, come dice nel primo Delle vite, amministrerà la repubblica, nè diverrà tiranno: nè seguirà, come dice nel secondo delle medesime, i Cinici, nè andrà mendicando: che anzi, come scrive nello stesso, anche privo degli occhi parteciperà alle cose della vita. Il sapiente, secondo che afferma Diogene, nel quinto delle Opere scelte, potrà anche attristarsi, e comparire in giudizio, e lasciar opere dopo di sè, ma non accorrere a solennità; e si darà pensiero di beni e dell’avvenire. Amerà i campi, e affronterà la fortuna, e a nessun amico sarà molesto. Tanto dovrà prendersi briga della buona riputazione, quanto basti per non essere dispregiato. Più degli altri saprà dilettarsi nelle speculazioni. I peccati essere ineguali. La sanità ad alcuni un bene, ad alcuni indifferente. La fortezza venire non da natura, ma per ragione dell’utile, e l’amicizia a causa dei profitti, ma dover incominciarsi da noi, poichè anche la terra seminiamo, e consistere nella comunanza dei piaceri. La felicità aversi a concepire di due maniere, la suprema, ch’è in dio, non avente incremento, e l’addizione e la sottrazione dei piaceri. Porre il sapiente, se n’abbia, anche immagini, indifferente se non ne avesse. Potere esso solo discorrere con giustezza di musica e di poetica; e leggere poemi, ma non comporne. Potere uno essere più sapiente di un altro: e quando sia nel bisogno, procacciare anco denaro, ma dalla sola sapienza. Potere all’occasione servire il monarca e gratificare a taluno per correzione; e stabilire una scuola, ma non che vi s’accalchi il popolo; e recitare in pubblico, ma non spontaneamente. Dover egli tenere le proprie opinioni e non dubitare, ed anche nel sonno serbarsi lo stesso, e a pro dell’amico saper talvolta morire. — Queste cose paiono ad essi.
XXVII. Ora è mestieri che si passi alla lettera.
Epicuro a Meneceo
Salute.
„Nè chi è giovine differisca di filosofare, nè di filosofare si stanchi chi è vecchio; poichè non avvi alcuno che sia primaticcio o serotino per la salute dell’anima. E chi dice, o non essere ancora la stagione del filosofare o essere trascorsa, è simile a chi afferma che per la felicità o non è giunto il tempo, o non v’è più tempo, il perchè al vecchio e al giovane è mestieri filosofare; a quello onde, vecchio essendo, in grazia delle cose che sono state, ringiovanisca alle virtù; a questo onde, giovine, sia in uno anche antico pel nessun timore delle cose avvenire. Debbesi adunque meditare ciò che forma la felicità, avvegnachè se dessa è presente, tutto abbiamo, se lontana, tutto facciamo per possederla. Quelle cose pertanto di che io li ammoniva del continuo, quelle e fa e medita, tenendole come elementi def ben vivere. Prima stimando iddio un animale incorruttibile e beato, siccome della la comune intelligenza di dio, nulla attribuisci a lui che sia alieno dali’iucorruttibilità, alla beatitudine improprio, ma pensa di lui tutto ciò che può serbare la sua beatitudine congiunta coll’incorruttibilità. Iddii certamente sono; da che manifesta è la conoscenza di essi; quali però si credono dalla maggior parte non sono, non osservandosi quali si credono. Empio non è colui che distrugge gli dei della moltitudine, ma quegli che applica agli dei le opinioni della moltitudine. Non anticipazioni, ma opinioni false sendo le enunciazioni del volgo intorno agli dei: quindi si derivano dai numi le cagioni dei danni gravissimi a’ malvagi e delle utilità a’ buoni. Poichè coloro che sono continuamente addomesticati a certe virtù ammettono i simili, stimando come alieno tutto che tale non sia. Avvezzati al pensiero che nulla per noi è la morte, da che tutto il bene ed il male sta ne’ sensi, e privazione di sensi è la morte. Onde la giusta nozione che per noi è nulla la morte, rende gioconda la condizione mortale della vita, non aggiugnendo tempo infinito, anzi togliendo il desiderio dell’immortalità. Nessun male avvi adunque nel vivere per chi veracemente comprende non essere male nel non vivere. Talchè stolto è colui che afferma temer la morte, non perchè lo attristi presente, ma perchè lo attrista futura; poichè ciò che non turba presente, invano attrista aspettato. La morte quindi, acerbissimo dei mali, non è nulla per noi, poichè quando siamo, la morte non è presente, quando sia la morte presente, allora non siamo. E però non si trova nè con chi vive nè con chi ha finito, non essendo presso di quello, e non esistendo più questo. Tuttavolta il volgare or fugge la morte, come il grandissimo dei mali, ora la brama come una cessazione di que’ che sono nella vita. Non lo spaventa dunque il non vivere, non essendo il vivere in sua mano, nè stima un male il non vivere. A quel modo però che non sceglie assolutamente il molto cibo, ma il soavissimo, così e’ fruisce non il tempo lunghissimo, ma il soavissimo. Ma quegli che esorta il giovine a viver bene, e il vecchio a ben finire, sciocco è non solo per l’amor della vita, ma anche per essere una stessa la meditazione del ben vivere e del ben morire. Ed eziandio molto peggiore è chi dice: Bello è non esser nato,
Ma nato trapassar quanto più presto
Dell’Averno le soglie.
Ogni maniera di divinazione distrugge Epicuro tanto nella Piccola epitome che altrove; e dice: La divinazione non esiste, ma se anche esiste, non è da credere che dipenda da noi ciò che accade. — Queste cose anche, intorno a quello che ha relazione coll'uso della vita, e molte altrove, discorre.
XXVIII. Circa il piacere e’ differisce da’ Cirenaici. Poichè costoro non ammettono il quieto, ma quello soltanto che si muove, ed egli entrambi, dell’anima e del corpo, come dice nel libro Della scelta e della fuga, ed in quello Dei fini, e nel primo Delle vite, e nell’£pistola ai filosofi in Mitilene. Parimente anche Diogene, nel diciassettesimo delle Opere scelte, e Metrodoro nel Timocrate, dicono così: Piacere s’intende e quello che è per moto e quello che per quiete. Epicuro poi, nel libro Intorno le cose da eleggersi, si esprime in questo modo: La tranquillità dell’anima e il riposo sono piaceri costanti, ma la gioia e l’allegrezza si vedono nell’azione del moto.
XXIX. Egli differisce ancora da’ Cirenaici, perchè questi i dolori del corpo stimano peggiori di que’ dell’anima, castigandosi i delinquenti nel corpo; e desso que’ dell’anima. Quindi il solo presente tormentare la carne, ma l’anima e il passato e il presente e il futuro. Per questa ragione dunque anche maggiori essere i piaceri dell’anima. E che sia fine il piacere usa per argomento, che gli animali, in un col nascere, di questo si compiacciono, ma naturalmente s’irritano contro al dolore anche senza ragione. Noi dunque, per un interno senso, fuggiamo il dolore, siccome fa Ercole, che consumato dalla camicia,
Ringhiando grida e stride; e le pendici
Ne gemono dintorno, e le montane
Cime locresi, e i colli dell’Eubea.
XXX. Anco le virtù, non per sè stesse, ma a cagion del piacere, come la medicina per la salute, si denno eleggere, secondo che afferma Diogene, nel ventesimo Delle scelte, il quale chiama la virtù un divertimento. Ma Epicuro dice esser anche inseparabile dal piacere la sola virtù, e separabili l’altre cose, perchè mortali. — Orsù poniamo adesso il suggello, come direbbe taluno, di tutti gli scritti e della vita del filosofo, aggiugnendo le sue principali sentenze, e con queste conchiudasi tutta l’opera, usando di un fine che sia cominciamento alla felicità.
I. Chi è beato e immortale nè ha per sè, nè procura ad altri faccende, onde non ire, non favori lo allacciano, chè tutte queste cose produce la debolezza. — In altri luoghi dice che gli dei sono comprensibili per raziocinio, alcuni esistendo come numero, alcuni per una eguaglianza di forma, ch’esce dal continuo efflusso delle immagini simili, effettuantisi per ciò stesso in figura umana.
II. La morte nulla per noi; poichè ciò che fu disciolto è privo di senso, e ciò ch’è privo di senso è nulla per noi.
III. Limite alla grandezza del piacere è la sottrazione del dolore. In qualunque luogo si trovi quel che diletta, per quanto e’ dura, non v’ha cosa che dolga, o cosa che attristi, o entrambe unite.
IV. Non dura continuamente in un corpo il dolore; ma il sommo vi rimane per brevissimo tempo; e quello che solo vince i diletti del corpo non ha luogo per molti giorni. Nelle malattie per altro che durano assai tempo sovrabbonda più ciò che diletta il corpo, che ciò che lo addolora.
V. Non si può vivere lietamente senza vivere prudentemente, onestamente e giustamente; nè prudentemente, onestamente e giustamente, senza vivere lietamente. Per coloro adunque cui non riesca vivere prudentemente, onestamente e giustamente, questo vivere lieto non esiste.
VI. Onde aver fidanza degli uomini, non tenendo per un bene secondo natura nè comando nè regno, da cui ciò sarebbesi potuto qualche volta procacciare, bramarono alcuni di rendersi gloriosi e cospicui, stimando per tal modo acquistare sicurezza dagli uomini. Il perchè se la vita di costoro fu sicura, e’ conseguirono il bene della natura; se non fu sicura, non ottennero ciò che prima a questo fine desiderarono come proprietà della natura.
VII. Il piacere nessun male è per sè, ma le cose efficienti alcuni piaceri apportano perturbazioni più numerose dei piaceri.
VIII. Se ogni piacere si agglomerasse, e si trovasse col tempo in tutto l’insieme, o nelle più principali parti della natura, i piaceri non ma» differir potrebbono fra loro.
IX. Se le cose che costituiscono i piaceri dei dissoluti sciogliessero i timori dello spirito e que’ che derivano da’ fenomeni celesti, dalla morte e dai dolori, e di più insegnassero il fine delle cupidigie, non mai avremmo che rimprocciare ad essi mentre cercano di riempirsi da ogni parte di piaceri, non avendo in niun modo nè a dolersi, nè ad attristarsi; lo che è male.
X. Se al tutto non ci turbassero i sospetti delle cose celesti, e que’ della morte non mai ci stessero in cospetto (se alcun poco tuttavia ho ardito considerare i limiti dei dolori e delle cupidità), noi non avremmo mestieri di fisiologia.
XI. Non può liberarsi dai timori principalissimi chi non conosce il complesso della natura, ma crede alcun che dì favoloso; di modo che, senza fisiologia, non è dato ricevere schietti piaceri.
XII. Di nessuna utilità sarebbe l’essersi procacciata l’umana sicurezza per chi avesse paura delle cose che sono in alto, sotterra e semplicemente nell’infinito.
XIII. L’umana sicurezza non essendo che fino ad un certo punto, dal potere della diminuzione e della verissima opulenza, nasce la sicurezza che deriva dalla quiete e dalla rinuncia di molte cose.
XIV. La ricchezza della natura è limitata e facile ad acquistare; ma quella delle vuote opinioni cade nell’infinito.
XV. Poca fortuna tocca al sapiente; ma le cose grandissime e principalissime la ragione ha governato, e per tutto il corso della vita, governa e governerà.
XVI. Il giusto imperturbabilissimo; pieno di moltissime perturbazioni l’ingiusto.
XVII. Non cresce il piacere nella carne, ma varia soltanto, quando affatto si toglie ciò che addolorava per mancanza.
XVIII. Il fine della mente, che è quello del piacere, genera l’esame e di queste medesime cose e delle omogenee ad esse, che grandissimi terrori preparano alla mente.
XIX. Il tempo infinito ha come il finito pari il piacere, purchè i confini di questo misuri il discorso.
XX. E veramente la carne ricevette come infiniti i confini del piacere, e come infinito ne prepara ad esso il tempo.
XXI. Ma la mente pigliando a ragionare il fine e i limiti della carne, e purgata dal timore dell’eternità, rese al tutto perfetta la vita, e non più s’ebbe mestieri di tempo infinito; e non fuggì il piacere nè pur quando gli eventi preparavano la cessazione della vita, ma uscì quasi lasciando qualche cosa di una vita indeterminata.
XXII. Colui che scorge i limiti della vita, vede come di leggieri si acquisii ciò che toglie il dolor del bisogno e costituisce perfetta l’intera vita, di modo che non abbia mestieri di cose che ammettono contrasti.
XXIII. Deesi poi fondare i ragionamenti sopra il sussistente e sopra ogni evidenza, alla quale riferiamo ciò che opiniamo; altrimenti tutto sarò pieno di dubbiezza e di perturbazione.
XXIV. Se combatti tutti i sensi, non avrai nè pur quelli cui tu dica esser fallaci, ai quali riferendoti poter giudicare.
XXV. Che se rifiuti semplicemente un qualche senso, nè dividi quello che opini secondo ciò che aspetta la prova e ciò che già ci è in presenza pel senso e la passione ed ogni applicazione fantastica della mente, confonderai anco i restanti sensi con vane opinioni, per modo da far getto di tutto il criterio.
XXVI. Ma se fermerai e tutto quello, che nelle concezioni opinabili aspetta una prova e quello che non l’aspetta, tu non escluderai il falso, quasi conservando ogni dubbiezza ed ogni giudizio retto o non retto.
XXVII. Se in ogni occasione non rapporterai ciascuna cosa che si fa al fine della natura, ma innanzi morire, sia la fuga sia la ricerca, rivolgerai ad altro, i tuoi ragionamenti non saranno conseguenti alle azioni.
XXVIII. Di quante cose la sapienza apparecchia alla felicità di tutta la vita, la più grande è il possedimento dell’amicizia.
XXIX. La stessa sentenza ci affida ancora non esservi alcun male eterno nè di lunga durata; e tra queste stesse limitazioni scorge essere dall’amicizia principalmente offerto un soccorso.
XXX. Tra le cupidità alcune sono naturali e necessarie, alcune naturali e non necessarie, altre finalmente nè naturali nè necessarie, ma agguantisi intorno ad una vana opinione. Naturali e necessarie stima Epicuro quelle che alleviano i dolori, come nella sete il bere; naturali e non necessarie quelle che variano soltanto il piacere e non tolgono il dolore, come i cibi preziosi; non naturali poi nè necessarie, come le corone e il collocamento delle statue.
XXXI Tutte le cupidità che non soddisfatte non conducono al dolore, non sono necessarie, ma hanno l’appetito facile a dissiparsi, quante, volte paiono essere difficili da procurarsi o produttrici di danno.
XXXII. Quelle cupidità naturali, che non soddisfatte non conducono al dolore, ed in cui si pone sollecita cura, nascono da vuota opinione, e non si diffondono per propria natura, ma per la vana gloria dell’uomo.
XXXIII. Il giusto della natura è il patto dell’utile, onde non danneggiarsi a vicenda nè essere danneggiati.
XXXIV. Per quanti animali non hanno potuto convenire di non danneggiarsi e di non essere danneggiati a vicenda, non v’è certo nè giusto, nè ingiusto. E così avviene anche fra quanti popoli non hanno potuto o voluto fare convenzioni di non danneggiare o di non essere danneggiati.
XXXV. Non era la giustizia per sè stessa; ma nelle vicendevoli unioni, in qualunque luogo sempre qualche patto si fece sul conto del non danneggiare o del non essere danneggiato.
XXXVI. L’ingiustizia per sè non è un male, ma è un male che consiste nel timore, pel dubbio che non sia celata a coloro che di queste cose sono costituiti punitori.
XXXVII. Non è da credere che si possa celare chi secretamente fa alcuna cosa contro quello che a vicenda si è costituito per non danneggiare nè essere danneggiati, quand’anche dieci mila volte si ascondesse per il presente; poichè sino alla morte è incerto se tuttavia si nasconderà.
XXXVIII. Comunemente a tutti il giusto è il medesimo, essendo di qualche utilità nella vicendevole comunanza; ma secondo il particolare, del paese e di cagioni qualsieno, non segue che per tutti v'abbia lo stesso giusto.
XXXIX. Ciò che negli usi della reciproca comunanza si attesta giovevole tra le cose stimate giuste, ha la natura del giusto, sia per tutti lo stesso o non lo stesso.
XL. Qualora alcuna cosa si stabilisca per legge, ma non riesca all’utile della vicendevole comunanza, ciò più non ha la natura del giusto. Che se accaggia invece l’utile secondo il giusto, ma per alcun tempo sia congruente all’anticipazione, ciò nullameno per quel tempo era giusto a coloro che sè stessi non confondono con vane parole, ma agguardano il più delle cose.
XLI. Ove, non accadendo nuove circostanze, non sembra accordarsi colla anticipazione quello che si stimava giusto nelle cose medesime, desso non era giusto; ove poi, nuove circostanze accadendo, le stesse cose costituite come giuste, già più non sono utili, ivi certo una volta erano giuste, poichè tornavano utili alla vicendevole comunanza di chi amministrava la repubblica, ma dopo non erano più giuste, allorchè più non recavano utilità.
XLII. Colui che s’acquistò la miglior fidanza dagli esteri, ne mescolò alla sua nazione quanti potè, ma quanti non potè non fece alieni da essa: che se neppur ciò gli fu possibile, non ebbe commerci con loro, e gli allontano dai confini quante volte gli tornò di farlo.
XLIlI. Coloro ch’ebbero facoltà di acquistarsi la maggior sicurezza particolarmente dai confinanti, e’ vissero anche fra loro soavissimamente, in una saldissima fede, ed una pienissima dimestichezza avendone tratta, non lamentarono come di un misero la morte anticipata di colui che finiva.