Storia di Torino (vol 1)/Libro I/Capo VIII

Libro I - Capo VIII

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Capo Ottavo


I Longobardi. — Agilulfo duca di Torino, poi re d’Italia. — Ursicino, vescovo di Torino, prigioniero de’ Longobardi. — Val di Susa e vai di Mati smembrate dal vescovado di Torino. — Ursicino ri­messo in libertà; sua morte nel 609. — Arioaldo, duca di Torino, poi re d’Italia. — Garibaldo, duca di Torino, traditore. Uccide il re Godeberto. È ucciso egli stesso nel duomo di Torino nel 662. — Ragimberto, duca di Torino, poi re nel 700.


Suonò per la prima volta il nome de’ Longobardi nel mondo incivilito in sul principio dell’era volgare, quando Tiberio condusse le sue legioni a combattere fin sulle rive dell’Elba. Più feroci della stessa fero­cità germanica li chiama Velleio Patercolo che militò in quella guerra. Ma è scura assai la questione se i Longobardi del quinto e del sesto secolo fossero la stessa gente rammentata da Patercolo e da Tacito, e se gli ultimi non siano piuttosto i Vinuli che, dopo d’avere spenta la razza non numerosa de’ Longobardi, ne abbiano preso il nome.1

Ma, lasciando ai dotti tali disputazioni, basta [p. 72 modifica]al fine di queste storie ricordare che nelle loro successive invasioni i Longobardi erano arrivati nel vasto paese della Pannonia e del Norico, e che il loro re Alboino, dopo d’avere sconfitto ed ucciso Cunimondo, re dei Gepidi, quietamente possedendo quelle contrade, anche con approvazione e tolleranza del greco imperatore Giustino ii, non se ne contentò e, allettato dalla fama delle morbidezze italiane, deliberò al tutto d’impadronirsi di questo bel regno. Agevole era alle nazioni germaniche come ai nomadi del Caucaso e di Tartaria trasferirsi da un luogo al­l’altro. Poiché, come è noto, affatto militare ed a forma d’esercito era il loro ordinamento; un seguito più o men forte di clienti determinava la potenza dell’individuo, la patria non era nei piani o nei monti, ma nella universalità degli uomini d’una me­desima razza. Spiantate le tende, messa in moto quella gran moltitudine colle donne, co’ vecchi, coi ragazzi, cogli infermi, niun rammarico aveano di ciò che lasciavano, ma solo cupidità di nuova e più lieta sede, e fermo proposito di non indietreggiare. Alboino e i suoi Longobardi erano così sicuri d’oc­cupar l’Italia, che cedettero la Pannonia agli Unni. Vennero con Alboino anche i popoli vinti, o almeno quella parte di essi che s’era ridotta in servitù, Gepidi, Bulgari, Sarmati, Svevi, Pannonii e Norici. Vennero i Sassoni suoi antichi amici ed alleati. Onde v’era mescolanza d’ultima selvatichezza con civiltà [p. 73 modifica]romana; perocché cittadini romani fin dai tempi di Marc’Aurelio e di Caracalla erano Norici e Pannonii. Giunse quell’allagamento di barbari senza contrasto nel Friuli, ove Alboino deputò il primo duca, poi quietamente, senza impedimento d’armi nemiche, andò occupando la Venezia e l’insubria e la Liguria montana e la piana e le altre vicine provincie; e se qualche città meglio guernita di truppe greche non gli avesse chiuso le porte, Alboino non avrebbe avuto occasione d’assaggiar l’armi sue, se non nelle ucci­sioni che accompagnavano le rapine cui s’abbando­navano i Longobardi, spogliando le chiese, uccidendo i sacerdoti.2 Non aveano i Longobardi lume di let­tere, nè ebbero mai lingua scritta. Una parte di quella nazione durava ancora nelle superstizioni pagane, il resto era ariano. Non aveano leggi, ma solo con­suetudini tutte adattate alla forma militare d’ogni loro instituzione. Il re era un generalissimo. La sua autorità, più forte durante la guerra, era molto in­certa negli altri tempi, combattuta com’era dalla potestà degli altri capi, quasi del pari assoluta nei distretti assegnati alle fare o tribù che comandavano.

Le sei tribù che Alboino condusse come ausiliarie in Italia furono poi incorporate fra i Longobardi. I Sassoni, che volevano conservare la loro legge e la loro nazionalità, tornarono alle loro sedi germaniche. Gli Italiani caddero poi nel più laido de’ servaggi, poiché furono divisi tra i Longobardi, a ciascuno [p. 74 modifica]de’ quali fu assegnato un certo numero d’Italiani che gli pagasse tributo del terzo de’ frutti delle’ terre che coltivava. I soli vescovi e sacerdoti, quetato il pazzo furore delle prime persecuzioni, stettero fuori del comune servaggio, ed anzi acquistarono col tempo onore ed influenza sopra la nazione longobarda. Fuor del servaggio furono pure i guarganghi, cioè i Romani stranieri all’Italia che qui capitavano e pigliavano stanza per cagion di traffico o per altra causa, i quali godettero in pace i privilegi che ancora si potean godere della cittadinanza romana. E dai tempi del re Agilulfo in poi le chiese, considerale come persone giuridiche, seguitarono anch’esse il dritto romano: e le manumissioni, o prescritte dal re per causa d’utilità pubblica, o per privata liberalità pra­ticate aggiunsero alla cittadinanza longobarda una quantità notevole d’antichi Romani, prima ridotti all’ignobile condizione di terziatori.3

Ma tornando ai successi dell’invasione rammente­remo che Alboino, venuto in Italia nel 568, ebbe l’anno seguente Milano e il Piemonte, l’Emilia, la Toscana, l’Umbria. Longino, esarca di Ravenna, non avendo forze da resistere in campo aperto, si man­tenne in quella città. Altre città della Flaminia se­guitarono nell’obbedienza all’imperadore, e così pure Roma, Genova ed altre città marittime. Pavia chiuse animosamente le porte ad Alboino, ma, cinta d’as­sedio, fu nel 572 costretta per fame a rendersi. Ma [p. 75 modifica]poco godette Alboino de’suoi trionfi. Dopo il sozzo convito di Verona, nel quale egli ubbriaco avea bestialmente costretta la propria moglie Rosmunda a bere nel teschio di suo padre convertito in coppa, fu per opera di lei tolto di vita. Clefi, che gli fu surrogato, incrudelì contro ai cittadini più potenti delle province occupate, molti ne spense, molti ne mandò in esilio. Ucciso dopo 18 mesi di regno, ri­mase la nazione dieci anni senza capo; e i suoi trentasei duchi governarono ciascuno con potere as­soluto, finché nel 584 fu rifatto re Autari, figliuolo di Clefi, che pigliò il prenome di Flavio. Ma già prima dell’interregno i duchi aveano dilatato le con­quiste. Gli uni erano penetrati in Puglia e nella Campania, gli altri nel regno di Borgogna (571) sac­cheggiando la Provenza, il Delfinato, la Savoia, l’Elvezia; una prima volta con prosperi successi avendo tagliato a pezzi l’esercito di Amato, patrizio, che comandava le armi del re Gontranno; la seconda con infelice esito, essendo stati rotti con grandissima strage dall’altro patrizio Ennio Mummulo nel 571, ed un’altra volta nel 572. Una quarta volta si la­sciarono trarre dal desiderio di predare altri duchi longobardi nel Delfinato e nella Provenza, e fu nel 576. Chiamavansi essi duchi Amone, Zabano e Rodano; Zabano era duca di Pavia; uno degli altri due eralo verosimilmente di Torino. Divisi mal accortamente in tre corpi, furono da Mummulo [p. 76 modifica]agevolmente superati, onde dovettero ripassar l’Alpi ed acconciarsi poscia a cedere a Gontranno re dei Borgognoni, per ammenda del danno dato, le valli di Susa, d’Aosta e di Mati (ora di Lanzo), che fecero quind’innanzi parte del reame di Borgogna, seppure invece d’esser cedute non furono piuttosto dall’armi di Gontranno occupate.4

Ne’ cinque anni del suo regno Autari ebbe a di­fendersi contro gli assalti di Childerico re d’Austrasia, a cui s’unirono sovente i Greci; e combattè con varia fortuna, ma sempre con molto valore.

Torino, città importante e non lontana dal confine d’Italia, ebbe sicuramente fin dalla prima occupa­zione il suo duca. Del ducato longobardico rimase fino a’tempi moderni vestigio nell’appellazione della chiesa di S. Pietro,5 la quale dalla sua prossimità alla corte ducale chiamavasi S. Pietro de curie ducis. Ma dei primi duchi che governarono Torino non si ha memoria fino all’anno 589, nel quale, essendo se­guite a Sardi nel Veronese le nozze del re Autari con la bella e savia Teodolinda, figliuola di Garibaldo, re o duca di Baviera, si rammenta che Agilulfo, duca di Torino, v’intervenisse, e dal caso d’una folgore caduta nel reale recinto un indovino traesse argo­mento di predire al duca il breve regno d’Autari e la sua futura elezione. Autari infatti morì il 5 di settembre del 590 in Pavia, non senza sospetto di ve­leno. L’accorta Teodolinda era sì fattamente entrata [p. 77 modifica]in grazia de’ Longobardi, che dalla scelta di lei vollero essi ricevere il nuovo re. La scelta cadde su Agi­lulfo, principe valoroso della stirpe Anauvat, parente del re defunto. Recossi Agilulfo a Lomello, dove andò la regina ad incontrarlo, e dopo le prime ac­coglienze Teodolinda, fattosi recare un nappo, bevve e diè poscia il nappo al Duca di Torino che, dopo d’aver bevuto, lo restituì e nel renderlo baciò con riverenza la mano alla regina. Allora la regina di­chiarò d’averlo scelto per suo sposo e per re dei Longobardi. Il fortunato Agilulfo la sposò nel novem­bre di quell’anno medesimo, e nel maggio dell’anno seguente ebbe nella dieta generale de’ Longobardi tenuta presso Milano, la confermazione della dignità regia. A’tempi di Teodolinda e di Agilulfo la nazion Longobarda depose alquanto della sua antica ferocia. Teodolinda cattolica persuase il consorte ad abiurar gli errori dell’Arianesimo. Ambedue poi dedicarono a Monza un magnifico tempio in onore di S. Giovanni Battista. Ed Agilulfo vi offerì una corona d’oro gem­mata che tuttor si conserva con questa iscrizione: Agilulfo per grazia del Signore personaggio glorioso, re di tutta l’Italia, offre a S. Gio. Batt. nella chiesa di Monza.6

Fu il regno di Agilulfo una guerra quasi continua ora cogli esarchi di Ravenna, ora con duchi longo­bardi, insofferenti del regio potere. Ma da tutte le imprese si spedì per sua valentia felicemente, finché [p. 78 modifica]l’anno 615 morì, dopo d’aver accolto con singolar favore S. Colombano, celebre abate benedittino che venne d’Irlanda in Italia e che, protetto da Agilulfo e da Teodolinda, edificò il monastero poi tanto fa­moso di Bobbio negli Apennini l’anno 612.7

Durante il regno di Agilulfo erano sopravvenute nel vicino reame di Borgogna molte variazioni. Gontranno re era morto nel 595, lasciando lo Stato al nipote Cbildeberto re d’Austrasia. Moriva tre anni dopo Childeberto; ed i suoi figliuoli, Teodorico e Teodeberto, partivansi lo Stato paterno. A quest’ul­timo l’Austrasia e la Provenza spiccata dal regno di Borgogna; al primo toccava il resto del reame di Borgogna. Ora Teodorico che, come re di Borgogna possedeva, come abbiam veduto, le valli d’Aosta e di Susa, seguendo l’antica usanza di conformare alle divisioni politiche la circoscrizione delle diocesi, non volendo che i suoi sudditi della valli di Susa e di Mati (Lanzo) obbedissero, come allora facevano, al vescovo di Torino, al vescovado poco prima eretto dal re Gontranno nel concilio di Chalon a S. Giovanni di Moriana, soggettò non solo quel popolo transalpino ma anche le due valli italiane che obbedivano ai Franchi.

Reggeva allora la cattedra torinese Ursicino, il quale dai Longobardi mezzo idolatri e mezzo ariani era stato verosimilmente nell’impeto stesso della conquista cacciato dalla sua sede e condotto fra [p. 79 modifica]gravi maltrattamenti in ischiavitù. Liberato più tardi dai ceppi, ma non reintegrato nella propria sede, dove era probabilmente stato intruso un vescovo ariano, aveva patito nuovo cordoglio vedendosi senza sua colpa spogliato di notabil parte della sua diocesi in vantaggio del nuovo vescovato di Moriana. San Gregorio Magno, che governava la Chiesa universale, si risentì dell’oltraggio e del danno che si faceva ad un vescovo innocente, e ne scrisse intorno all’anno 598 forti lettere a Teodorico e Teodeberto re dei Franchi. Scrisse ancora vivamente a Siagrio, vescovo d’Autun, al quale era stata affidata l’educazione di Teodorico, e che perciò era in molta autorità presso di lui, esortandolo a far in modo che Ursicino ricuperasse le parrocchie situate nel regno de’ Franchi che, contro al divieto de’ sacri canoni e senza sua colpa gli erano state occupate. Ma niun frutto pro­dussero le istanze del santo Pontefice. Ursicino tornò poi alla sua chiesa. Ma il vescovado di Moriana conservò allora l’usurpata giurisdizione. La morte di Ursicino può assegnarsi con buona probabilità al 20 d’ottobre 609. Egli fu sepolto nel cimitero che era tra la canonica e la cattedrale.8

Agilulfo ebbe dalle sue nozze con Teodolinda Alaloaldo che gli succedette, e Gondeberta che andò sposa ad Arioaldo, duca di Torino. Era fatale che il ducato di Torino servisse di scala al trono de’ Longobardi. Dopo alcuni anni di savio e di cattolico [p. 80 modifica]regno Alaloaldo, per qualche mala bevanda datagli, come dicono, da Eusebio ambasciatore di Costanti­nopoli, fu privo del diritto lume della ragione; e la sua pazzia era la più pericolosa che potesse inco­gliere ad un sovrano, quella della crudeltà. Dopo qualche sperimento di palco e di mannaia fatto dal re in alcuni principali uomini di sua nazione, non per necessità di giustizia, ma per isfogo di quell’umor bestiale che il travagliava, i Longobardi, per esortazione dei vescovi cispadani, gli tolsero il regno e lo diedero nel 625 ad Arioaldo, duca di Torino, genero del re Agilulfo. Questi, sebbene ariano, fu principe discreto ed amante di giustizia; epperciò ricercalo di protezione dal vescovo di Tortona che piativa contro a Bertolfo abbate di Bobbio, rispose che a lui non s’apparteneva di giudicar le cause degli ecclesiastici, ricorressero al papa: egli defini­rebbe la controversia. Questo fatto è riferito dal monaco Giona, nato a Susa, autore della vita di S. Colombano e dell’abbate Bertolfo, il solo scrittore che conservasse lume di buone lettere fra la caligine longobarda.

Morto nel 636 il re Arioaldo senza prole, la re­gina Gondeberta ebbe la balla che aveva avuto la madre di dar la corona a quello che sceglierebbe a marito. La scelta cadde su Rotari duca di Brescia, ariano esso pure, ma non discreto, il quale, cupido d’esaltar la sua setta, in ogni città, contrappose al [p. 81 modifica]vescovo cattolico un vescovo ariano. Rotari fu il primo che ridusse in iscritti le consuetudini lombarde e le raccolse in un corpo di leggi. Fu anche il primo che conquistò la Liguria marittima, e ne fece così aspro governo da far dimenticare le ferità commesse dai duchi nelle altre parti d’Italia. Poiché i vinti non solo ridusse a condizion servile, come eranlo i Romani nelle altre provincie, ma ne fece vendere un buon numero ai Franchi, e tentò perfino di di­sonorarne le patrie disgradandole dal nome di città dopo d’averne distrutte le mura.

Presso ai Franchi e ad altre nazioni la superbia barbarica nello stabilire il guidrigildo, ossia la pena pecuniaria dell’omicidio, avea stimata la vita d’un barbaro il doppio di quella d’un Romano. Rotari andò più in là. Non stabilì guidrigildo pei Romani, quasiché nulla ne valesse la vita, e fosse lecito l’ucciderli impunemente; e solo per la violata onestà d’una serva romana determinò un guidrigildo di soldi dodici, mentre ne assegnò uno di venti per simile oltraggio fatto a serva lombarda. Anche la pudicizia delle Romane avea prezzo minore! Ed ecco che cosa erano dopo tanti anni di signoria i Longo­bardi!

A Rotari succedette Rodoaldo nel 652; a Rodoaldo l’anno seguente Ariperto duca d’Asti, che morì nel 661. I due suoi figliuoli, Bestarido e Godeberto, si divisero il regno, ed a quest’ultimo toccò con Pavia [p. 82 modifica]il paese subalpino. Conformaronsi in ciò al testa­mento del padre. Ma l’ambizion del comando ne fece due accaniti nemici. Volle il re Godeberto cercar soccorsi presso Grimoaldo i duca longobardo di Benevento, e ne diè segreta commissione a Garibaldo duca di Torino. Questo perfido uomo recossi a Grimoaldo e lo persuase invece a togliere il regno a Godeberto. Venne Grimoaldo e il duca di Torino, fatta nascere non so qual occasione di contrasto col re Godeberto, di propria mano l’uccise, sicché Gri­moaldo ne occupò lo Stato e ne sposò la sorella (662).

Non passò il gran misfatto di Garibaldo invendicato. Un famiglio del re Godeberto, torinese di nascita, nel proprio giorno di Pasqua, sapendo che il duca si recherebbe alla cattedrale di San Giovanni, colà l’aspettò. Salito sul battistero ed avvolgendo il brac­cio sinistro ad una delle colonnette che lo sosteneano, celò colla destra il ferro nudo sotto al mantello, e quando il duca venne a passare, con improvviso colpo l’uccise, cadendo egli stesso un momento dopo da mille punte trafitto, ma già vendicato.

Del re Godeberto rimase un bambino chiamato Ragimberto che, sottratto a Grimoaldo, fu diligen­temente allevato, e fu poi dal re Bertarido suo zio creato duca di Torino intorno al 671. Morì Bertarido nel 688. Nel 700 mancò pure il re Cuniberto suo figliuolo. Allora il Duca di Torino rientrò per forza d’armi nel possesso di quella parte del regno [p. 83 modifica]lombardo che avea goduta Godeberto suo padre, pi­gliando il titolo di re e andando a risiedere a Pavia. Ma nell’anno medesimo finì sua vita lasciando il trono ad Ariperto ii, il quale in campai battaglia vinse l’altro re suo competitore Liutperto, che fece pri­gione ed a cui tolse crudelmente la vita. Macchiò poi d’altre crudeltà il suo regno, finché nel 712, avendo un esercito di Bavari sulle spalle, la capitale e l’esercito ribelli, mentre, deliberato di riparare in Francia, passava a guado il Ticino, trovò in quelle acque miseramente la morte.

Tali sono le memorie che di Torino e de’ suoi duchi longobardi abbiamo al tempo della domina­zione di questa gente. Non si ha maggior lume in­torno al vescovado Torinese, veggendosi solamente un Rustico, vescovo di Torino soscritto al concilio di Roma, celebrato dal papa santo Agatone nel 679.9

L’esarcato di Ravenna avea mantenuto sempre l’ombra del potere imperiale in Italia. Roma e il suo ducato eransi per sollecitudine del sommo pontefice mantenute indipendenti dal dominio dei re longo­bardi. Il papa e i Romani, minacciati del continuo da quelli ospiti pericolosi ed ingordi di preda, vol­gevano gli occhi e le speranze all’Oriente, implora­vano dall’augusto di Costantinopoli soccorsi efficaci, sempre promessi e sempre indugiati. Vedendo tali speranze esser mere lusinghe ed il pericolo ingros­sare di tempo in tempo e farsi più incalzante, già [p. 84 modifica]aveano alcuni papi rivolto l’animo al re de’ Fran­chi, onde ottenerne difesa. Ma nel 753, essendosi il re Astolfo impadronito finalmente di Ravenna, donde Eutichio, ultimo degli esarchi, era fuggito, e scorgendo papa Stefano ii, come l’ambizioso longo­bardo intendesse a spingere innanzi le conquiste e a soggiogare la città di Roma, senza lasciarsi piegare nè dalle preghiere nè dai doni ch’egli andava inu­tilmente moltiplicando, certificatosi prima delle buone disposizioni dei Franchi, si recò egli medesimo presso a Pipino che, dopo d’aver lungamente esercitata di fatto la potenza regia in nome dei re poltroni, erasi poco prima incoronato re de’ Franchi. Pipino fece lieta accoglienza al papa, e dopo d’aver inutilmente ammonito il re Astolfo di restituir l’esarcato e di cessare dall’armi, scese in Italia, assediò Astolfo in Pavia e lo costrinse a condiscendere ai desideri! del papa; ciò nel 754. Ma Astolfo non era grande os­servatore della data fede. Invece di rendere le terre occupate, appena si dilungarono le armi del re Pipino, ei rivolse le sue contro Roma nel 755. Tornò rapi­damente l’esercito francese e, stretta di nuovo Pavia, Astolfo chiedette ancora la pace, e non promise di rendere, ma rendette l’esarcato ed inoltre la città di Comacchio a Pipino. Questo principe ne fece col mezzo di Fulrado, abbate di S. Dionigi, ampia donazione al romano pontefice, il quale ottenne con ciò la tem­porale giurisdizione di Ravenna, Rimini, Pesaro, [p. 85 modifica]Fano, Cesena, Sinigaglia, Urbino, Gubbio, Narni e d’altre minori città. Ma la restituzione non fu tanto fedele che non rimanesse alle mani d’Astolfo, e poi di Desiderio che l’anno appresso gli succedette, molta parte delle giustizie, come allora li chiamavano, della S. Sede, ossia di cose che per giustizia spettavano al romano pontefice. Perciò negli anni che seguitarono, Stefano ii, Paolo i, Stefano iii faceano continue istanze e presso Desiderio, il quale una cosa rendeva e molte prometteva di rendere, e presso Pipino, il quale sollecitava re Desiderio a restituire. Anche il Senato e il Popolo romano eransi avvezzati a riguardare il re de’ Franchi come amico della loro libertà. Affatto consenzienti nei disegni del papa, capo incontrastabile di quella repubblica, della quale l’aggiuntovi dominio delle vicine province avea fatto uno Stato, nella sublimità del suo grado vedeano la tutela dei loro interessi e la risurrezione del nome romano.

Ma per molti anni il re Desiderio andò destreggiando; e sebbene sempre il papa avesse qualche richiamo da muovere per giustizia o già presa dal re Astolfo, o di fresco dal re Desiderio occupata, pure questo principe fu in generale più amico che nemico del papa. Se non che, morto Stefano iii, le differenze pigliarono in breve aspetto di discordie, che degenerarono in aperte ostilità. Desiderio occupò coll’armi a papa Adriano i varie città, e minacciò [p. 86 modifica]la stessa Roma. Il papa, non potendo da sè solo regger quell’impeto, si rivolse a Carlomagno, fi­gliuolo di Pipino, che, avendo usurpato ai figliuoli di Carlomanno suo fratello il loro Stato e prospe­ramente combattuto in più battaglie, era salito ben alto in potere ed in fama, signoreggiando egli solo la monarchia de’ Franchi ampliata per recenti conquiste.

Carlomagno avea sposata e, dopo qualche tempo, ripudiata una figliuola del re Desiderio. Desiderio avea dal suo canto dato ricetto nella sua corte ai nipoti di Carlomagno ch’egli avea privati della pa­terna successione. Eranvi dunque dai due lati cagioni d’odio, ma più da quello del re franco, perchè mag­gior torto avea fatto all’avversario che non n’avea ricevuto. Comunque sia, non per questo la condotta di Carlomagno fu precipitosa ed avventata, come in tali casi esser suole. Prima esortò co’ suoi messaggi Desiderio a rendere le città tolte al pontefice, ch’egli da molti anni, patrizio del popolo romano, era ob­bligato a difendere. Poi proferse denari per indurlo a rendere. Da ultimo tentò la sorte dell’armi. De­siderio non si lasciò cogliere sprovveduto. Chiuse con alte mura la bocca di Val di Susa tra il monte Caprasio e il Pircheriano (ov’è la sagra di S. Michele) dove finiva allora il regno de’ Franchi, e là attese il nemico. Ma v’ebbe chi insegnò a Carlomagno una via tra l’Alpi, per cui senza cimentarsi a quel passo scese nella pianura e pigliò alle spalle l’esercito di [p. 87 modifica]Desiderio, che senza combattere fuggì impaurito, e si rinchiuse nella città di Pavia (773). Di tante città del regno longobardo, Pavia e Verona fecero sole resistenza, perchè la potenza morale di Desiderio era già stata così fattamente dalla disgrazia del pon­tefice assottigliata, che non trovò ne’ suoi sudditi nè la fede, nè la costanza che dovea sperare; per altra parte gran paura mettea la grandezza di Carlomagno. Nel 774 questo principe ebbe a patti il suo nemico e l’inviò in Francia, dove visse dipoi e morì santamente. Ed ecco il regno d’Italia dai Longobardi trasferito ne’ Franchi con notabile accrescimento del­l’autorità temporale di quella sedia apostolica, in cui sola conservavansi gli elementi del futuro risor­gimento della penisola. Nel giorno di Pasqua del 781 Carlomagno fece poi sacrar dal papa re d’Italia il giovinetto suo figliuolo Carlomanno, che esso papa volle invece nominar Pipino: e re d’Aquitania l’altro suo figliuolo Ludovico. Nell’anno 800 poi, nel giorno santo di Natale, essendosi Carlomagno recato a Roma per acquetar come patrizio le discordie, delle quali poco era mancato che Leone iii papa non cadesse vittima, fu inaspettatamente dallo stesso pontefice nella basilica Vaticana coronato, e dal popolo ac­corso acclamato imperador de’ Romani, essendo per tal guisa risuscitato il titolo dell’impero d’Occidente, già da lungo tempo sfuggito alla debole mano dei greci Augusti.

Note

  1. [p. 96 modifica]Troya, Storia d’Italia del Medio Evo. — Gino Capponi, Sulla domi­ nazione dei Longobardi in Italia, Lettere al prof. Pietro Capei, nell’ar­chivio storico. — Trevisani, Delle leggi Longobarde in relazione coi popoli conquistati.
  2. [p. 96 modifica]Gregor. Turon.
  3. [p. 96 modifica]Troya, Storia d’Italia, vol. i, parte v. Savigny, Droit rom. au moyen age.
  4. [p. 96 modifica]Gregorio Turonense scrive che a questi tempi Susa si teneva ancora a divozion dell’impero, e che ne avea comando Sisinnio in nome di Giu­stino. Fredegario racconta invece il fatto della cessione. Distinguendo i tempi, forse possono sussistere ambedue le narrazioni, e forse ha ragione il Troya, il quale pensa che Sisinnio, governatore di Susa, amò meglio darla a Gontranno che lasciarla pigliar dai Longobardi.
  5. [p. 96 modifica]Nell’angolo tra la via del Gallo e quella de’ Pasticcieri.
  6. [p. 96 modifica]Agilulf grat. di vir glor. rex totius Ital. offert sco Iohanni Baptistae in ecla modicia.
  7. [p. 96 modifica]Balbo (Prospero), vita di Agilulfo nella Biografia Piemontese del Tenivelli.
  8. [p. 96 modifica]V. la dissertazione che s’inserisce qui appresso.
  9. [p. 96 modifica]Meyranesio, Pedemont. sacrum, 110.

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NOTIZIE D’URSICINO

VESCOVO DI TORINO NEL SECOLO VI

Nella primavera e nella state dell’anno 1845, volendosi costrurre un canale sotterraneo, si sono praticati alcuni scavi nel primo

[p. 89 modifica]cortile e nella parte che è verso levante del palazzo vecchio del Re, in fondo alla piazzetta che divide esso palazzo dalla chiesa cattedrale di S. Giovanni, e sotto l’andito della porta a ponente del nuovo palazzo reale.

Nel cortile gli scavi scoprirono lungo le case e nella direzione del sud al nord una fila di sepolcri triangolari formati di grossi mattoni convergenti di fabbrica romana, alcuni de’ quali con impugnatura, ma senza bollo.

Questi sepolcri collocali irregolarmente in mezzo a fondamenti d’antichi edifizi, erano quasi tutti nella direzione da levante a ponente, e gli scheletri che vi si vedeano aveano il capo volto all’oriente. Del rimanente, niuna iscrizione, niun emblema, niun avanzo di antichità venne a rivelarci a chi appartenessero questi sepolcri, destinati per avventura ai canonici del duomo che aveano in quel sito il chiostro, e fors’anco al clero inferiore.

Proseguitisi poi gli scavi in fondo alla piazzetta summentovata, si trovò un basamento di pietra con un buco alla sommità, che conservava ancora vestigio della croce in ferro che s’alzava a proteggere il campo del riposo, che occupava lo spazio intermedio fra la cattedrale e la canonica. Ed essendosi per ultimo condotti gli scavi sotto l’andito che mette nel cortile del nuovo palazzo del Re, si scoprì addì 5 d’agosto, a mano sinistra entrando, e preci­samente innanzi all’androne per cui si passa da l’un palazzo nel­l’altro, un sepolcro di grandissima importanza: ed è quello di Ursicino vescovo di Torino sul finire del secolo vi. Questo sepol­cro giacque probabilmente ignorato tra le rovine del primitivo duomo torinese, entro al cui recinto dovette essere seppellito Ursicino; poiché niuno scrittore, ch’io sappia, ne ha mai fatta parola.

Sotto ad una gran lapide scritta, di marmo bianco, rotta in più luoghi, erano le ossa del vescovo, benissimo conservate. La lapide e le ossa sono stale per cura del reverendissimo Capitolo trasferite [p. 90 modifica]alla cattedrale; dove furono dalla pietà di S. E. reverendissima monsignor Luigi Fransoni, nostro arcivescovo, onorevolmente allogate in fondo della navata a cornu evangelii presso la porta, colla seguente iscrizione:

HEIC • OSSA • URSICINI • PONTIFICIS • TAVRINENSIS
CVM • TITVLO • CASV • REPERTA • NON • SEXTIL
ANNO • MDCCCXLIII • IN • PACE • COMPOSVIT • ALOI-
SIVS • FRANSONIVS • ARCHIEPISCOPVS • TAVRINENSIS
ANNO • MDCCCXLV

Era Ursicino il quarto successor di S. Massimo. Di lui s’avea notizia per due lettere del sommo pontefice S. Gregorio Magno, l’una indirizzata a Siagrio, vescovo d’Autun, non d’Aosta, come dice il Semeria seguitando il Brizio; l’altra a Teodorico e Teodeberto re dei Franchi, scritte, secondo il comune consenso dei dotti, l’anno 598, o come vuole il Muratori, l anno 599.

La lettera a Siagrio dice: perlalum siquidem ad nos est dilectissimum fratrem nostrum VRSICINVM Taurinae civitatis episcopum post captivitatem et depredationem quam pertulit grave in parochiis suis quae in Francorum sitae terminis perhibentur praejudiciutm pertulisse; denique ut alter illic contra ecclesiastica sta­tuta nullo eius crimine deposcente constitueretur Antistes; et ne leve forsitan rideretur huius rei preiudiciale commissum etiam aliquid dolores est additum ut res ei Ecclesiae suae quas habere potuit tollerentur.1

Esorta quindi il santo pontefice il vescovo Siagrio che s’adoperi [p. 91 modifica]nella difesa del vescovo Ursicino tanto direttamente, che suppli­cando gli eccellentissimi re, ai quali confida non riuscirà fasti­diosa tal preghiera: ut a suis illum amplius contra rationem remotum esse parochiis non permittant.

Abbiamo da questa lettera sicura notizia intorno ai travagli sopportali dal vescovo Ursicino: dapprima ebbe a patire sac­ cheggio e prigionia; poi alle parrocchie di sua giurisdizione, si­tuate nelle provincie de’ Franchi, e aggregate a novella diocesi, si prepose un altro vescovo. Finalmente al dolore già patito si aggiunse il dolore di spogliarlo delle cose che avea potuto radu­nare, appartenenti alla sua chiesa.

La prigionia del vescovo era a quella epoca cessata. Infatti il papa ne parla come di fatto trascorso. Essa non era imputabile ai Franchi, come appare dal tenor della lettera, e come si vedrà meglio in quella indirizzata ai re Teodeberto e Teoderico. Sola­mente i Franchi avendo nel 576, ai tempi del re Gontranno, aggregato al regno di Borgogna, per accordo coi duchi longo­ bardi o per conquista, le valli d’Aosta, di Susa e di Mali, ossia di Lanzo, e non amando che i loro popoli obbedissero al vescovo di Torino che era suddito lombardo, aveano contro al disposto dai sacri canoni staccato dalla diocesi di Torino le due ultime valli, e le aveano aggregate al vescovado nuovamente eretto, di Moriana, deputandovi per vescovo un sacerdote chiamato Felmasio. Costituita, sebbene illegalmente, con tal circoscrizione, la nuova diocesi, aveano probabilmente i Franchi rivendicato alla medesima, ed alle chiese di cui si componeva, i beni e i sacri arredi che fossero ancor tra le mani del vescovo Ursicino. Ed ecco il dolore aggiunto al dolore di cui si lagna il santo pontefice Gregorio Magno.

Ma dalla lettera che indirizzò per ottenere la riparazione di questa ingiustizia ai re Teodeberto e Teoderico, impariamo anche il pretesto che ebbero i Franchi a commetterla. Ed è che Ursicino non poteva nella sua propria sede esercitar l’ufficio vescovile, [p. 92 modifica]essendo la sua chiesa occupata dai nemici: nec quod ad tempus ab hostibus eius ecclesia detinetur, debet illi aliquid officere; sed hoc ad subveniendum christianitatis vestrae magis magisque debet animos permovere ut largitatis vestrae munere consolatus captivitatis quam pertulit, non possit damna sentire.2

Era dunque finita la cattività di Ursicino, ma non eragli ancora stata restituita dai nemici l’amministrazione della diocesi. — E quali erano questi nemici? — niun dubbio che fossero i Longo­bardi, i quali e sotto Alboino e sotto Clefi rivolsero particolarmente la loro rabbia contra le chiese e contra i sacerdoti. È noto qual ter­rore ispirassero al clero, quale ai sommi pontefici; e può vedersi nelle lettere dello stesso S. Gregorio quali sentimenti ei nodrisse verso quella nazione in gran parte Ariana, in parte ancora idolatra. Crebbe il disordine dopo la morte di Clefi (574) e durante il decen­nale interregno, i trentasei duchi occupati perpetuamente a dila­tare le loro conquiste e a far bottino, non alleviarono certamente il giogo ai poveri sudditi, e massime agli ecclesiastici; finche nel 584, eletto re Autari, si rassettarono alquanto le cose, senzachè per altro rilucessero ancora al clero cattolico giorni sereni, poiché Ariano era Autari, ed Ariano era pure Agilulfo duca di Torino, che gli succedette nel 589; ed Ariano ancora Arioaldo che suc­cedette ad Agilulfo nel ducato di Torino, e più tardi al figliuolo d’Agilulfo nel regno. Ora è certo che o nell’impeto della prima conquista, o posteriormente alcuno dei duchi ariani ha occupato i beni della chiesa torinese, imprigionato il vescovo, e forse de­putatovi alcun vescovo ariano. Per isfuggire simile disgrazia, Onorato, vescovo di Milano, avea trasferito, al primo irrompere dei Longobardi, la cattedra di Sant’Ambrogio a Genova, città non occupata dall’armi loro, e colà visse e morì. Colà pur visse e morì Costanzo suo successore; e solo nell’anno 603, quando la regina Teodolinda persuase il marito Agilulfo a far battezzare, secondo [p. 93 modifica]il rito cattolico, Alaloaldo loro figliuolo, cominciarono tempi mi­gliori pel sacerdozio, che fu poscia ammesso a godere dei dritti civili dei Longobardi; pe’ vescovi che acquistarono a grado a grado molta influenza, e poterono largamente esercitar la volon­taria giurisdizione fra i Romani tributari, che le manumissioni divenute meno rare cambiavano in liberi Longobardi.3

Tornando ad Ursicino che fu depredato e condotto in servitù, parmi che l’epoca della sua doppia disgrazia debba assegnarsi o al tempo della prima conquista, o al più tardi al decennio della onnipotenza ducale. I primi selle anni del dominio de Longo­bardi, e così dal 568 al 575, sono veramente quelli che gli storici assegnano come tempi delle maggiori crudeltà e persecuzioni. E sappiamo da Paolo Diacono, che in tempi posteriori si contenta­ vano i re ariani di contrapporre al vescovo cattolico un vescovo ariano.

S. Gregorio indirizzandosi a Siagrio vescovo d’Autun per rac­comandargli Ursicino, si rivolgeva a personaggio di grande auto­rità. Era egli in molta grazia presso la famosa regina Brunichilde, dalla quale avea avuto l’incarico di presiedere all’educazione del re Teodeberto. Anzi molto tempo prima Brunichilde avea pre­gato il pontefice di onorar Siagrio del pallio, ma di far la cosa come se di proprio moto procedesse, e non a richiesta di lei; alla qual domanda rispondeva il pontefice che, secondo i canoni, il pallio non doveva concedersi, fuorché per grandi meriti, ed a chi forte­mente lo desiderava: che in quanto ai meriti Siagrio era uomo retto e prudente, e consumato nell’esercizio delle virtù e dei do­veri episcopali; onde e per questo e per l’intercessione d’essa regina non avea difficoltà di mandarlo, ma col paltò espresso che Siagrio ne farebbe calda istanza egli stesso.4

Tuttavia l’intercession del pontefice presso Siagrio e presso i [p. 94 modifica]re Teodeberto e Teoderico fu vana, e la ragion di stato prevalse. Tutti gli storici che narrarono questo fatto, raccontano che la Moriana era allora compresa nella diocesi di Torino, e riferiscono anche alla Moriana le querimonie d’Ursicino e del papa. Ma è egli ben certo che la Moriana appartenesse allora al vescovado di Torino? Io ne dubito assai.

Le province che sono al di là dell’Alpi aveano sempre appar­tenuto al regno di Borgogna, nè vedo per qual motivo la giuri­sdizione del vescovo torinese si sarebbe, contra l’uso costante della Chiesa, estesa in un regno straniero, ed in una provincia che le Alpi somme disgiungevano dall’Italia e dalla diocesi di Torino. Per altra parte il vescovo di Vienna esercitava ed esercitò ancora lungamente la sua giurisdizione sulla conterminante pro­vincia di Savoia.

Il solo autor contemporaneo che accenni come la Moriana si trovasse nella giurisdizione del vescovo di Torino, è Gregorio Turonense nel suo libro della Gloria de’ Martiri,5 là dove parla delle reliquie di S. Giovanni Battista portate a Moriana, e narra che Rufo vescovo di Torino si recò a venerarle. Ma quello scrit­tore, ordinariamente mal informato delle cose nostre, ha potuto esser tratto in inganno dal pellegrinaggio del pio vescovo. Il fatto è, che il frammento d’antiche lezioni della chiesa di Moriana, pubblicato nei Documenti, monete e sigilli, tratto da una membrana del secolo x, ma certamente lavoro di tempi più antichi, narrando con molte particolarità il medesimo avvenimento delle reliquie di S. Giovanni, che una gentildonna morianese, chiamata Tigris portò da Alessandria d’Egitto in patria, dice che: informato l’ec­cellentissimo re Gontranno delle preziose reliquie recate in quella valle, e de’ miracoli con cui si illustravano, vi mandò i suoi dele­gati, con incarico di edificar una chiesa ove potessero degnamente [p. 95 modifica]allogarsi: qui ecclesiam inibi fabricarent cum circumiacentibus episcopis ubi reliquias B. Iohannis Baptiste reponerent eamque perfectam Episcopo Viennensi ad cuius dyocesim pertinebat locus beato Isicio conseruare precepit. Segue poi a narrare che Gontranno radunò un concilio di vescovi a Châlons, e che ivi fu ordi­nalo Felmasio primo vescovo di Moriana a cui assoggettò anche Seusiam ciuitatem iamdudum ab Italis acceptam.6 Nè a ciò ripugnano le lettere di S. Gregorio Magno, il quale parla solamente di parrocchie situate in finibus Francorum stac­ate per violenza dalla diocesi torinese. Ed erano appunto in fi­nibus Francorum Susa e la valle di Lanzo. Solo conviene di ne­cessità supporre che l’aggregazione delle parrocchie italiane, sebbene già da Gontranno risoluta, sia per qualche anno rimasta ineseguita, cioè fino ai tempi dei re Teodeberto e Teoderico. Io credo pertanto che Ursicino non abbia in quella occasione perduto che le parrocchie situate nelle valli di Susa e di Lanzo. Altra sicura memoria non aveasi d’Ursicino fuorché quella che dalle lettere surriferite si potea ricavare, e gli scrittori congettu­rando, ne assegnavano la morte al 600, ed al primo di febbraio, giorno nel quale il Capitolo Torinese celebra da tempo antichis­simo la festa d’un ignoto vescovo Sant’Orso, che s’affermò dal Meuranesio non esser altro che il vescovo Ursicino. Ora aggiungono preziose notizie le iscrizioni trovale sul se­polcro di questo prelato. La prima orizzontale sulla parte superiore della tavola mar­morea dice così:

† HIC SACERDOS EPISCOPAVIT ANNOS XLVII COMPLEVIT OMNES DIES SVOS ANNOS PLVS MINVS LXXX.

[p. 96 modifica]Più sotto entro ad un cerchio in cui è segnato il monogramma di Cristo, gira in tondo quest’altra iscrizione:

† DEPOSITIO SANCTE MEMORIE VRSICINI 
EPISCOPI SUB DIE TERTIODECIMO KALENDAS NOVEMBRES INDICTIONE TERTIADECIMA.

Impariamo da queste iscrizioni, che Ursicino visse ottant’anni, ne pontificò quarantasette, e morì il 20 d’ottobre nell’indizione decimaterza. Questa data del 20 d’ottobre riprova uno degli ar­gomenti di sola possibilità, per cui credevasi che Ursicino fosse quel Sant’Orso di cui il Capitolo Torinese celebra l’ufficio il primo giorno di febbraio; ed era la supposizione che Ursicino fosse morto quel giorno medesimo. L’altro argomento consiste nel dire, che negli antichi calendari il nome d’Ursicinus si trovi per abbreviazione scritto Urnus. Ma questi antichi calendari più non si hanno onde riconoscere se vi sia segno d’abbreviazione. Ed altronde la tradizione orale che viva si conserva d’un santo, di cui si fa l’ufficio annuale nella stessa chiesa in cui ha pontifi­cato, pare che renda impossibile una così notevole alterazione di nome.

Nella lapide Ursicino è chiamato sancte memorie. So che i titoli di santità e di santa memoria si diedero ne’ secoli susseguenti non solo ai papi, ma anche ai vescovi, e talvolta anche a’prelati infe­riori. Di modo che senza nulla detrarre ai meriti d’Ursicino che in quella persecuzione longobarda patì un mezzo martirio, non è chiaro se quelle parole sancte memorie provino che sia morto in odore di santità.

In favore dell’opinione del Meiranesio starebbe la considera­zione, che i Bollandisti non trovarono memoria di un Sant’Orso vescovo, cui si possa plausibilmente riferir questo culto; e che nella chiesa di Torino se ne celebra l’ufficio non semplice, ma [p. 97 modifica]doppio; il che sembra dimostrare che un vincolo specialissimo unisse la chiesa torinese al santo vescovo. Ma finche non si sco­prano maggiori chiarezze, non possiam consentire a credere sopra così tenui indizi che Sant’Orso vescovo ed il vescovo Ursicino sieno la stessa persona.7

Passando ora a ragionare dell’anno in cui morì Ursicino, non abbiamo altro lume per determinarlo che là data delle lettere gre­goriane e l’indizione xiii segnata nell’iscrizione. Imperocchè niun sussidio ci porgono le notizie del suo immediato predecessore e del suo successor immediato. Di Rufo che nella serie de’ vescovi precede immediatamente Ursicino, si sa solamente da Gregorio Turonense, che si recò in Moriana a venerare le reliquie di S. Giovanni Battista che Tigris avea portate dall’Oriente. Il che dicesi accaduto a’ tempi del re Gontranno, morto addì 28 marzo 593.

Dopo Ursicino il primo vescovo nominato è Rustico, il quale intervenne al Concilio Romano convocato da Sant’Agatone nel 679.

S’avrebbe adunque uno spazio di circa 86 anni, nel quale è impossibile che non abbia tenuto la cattedra torinese qualche altro vescovo, il cui nome non è fino a noi pervenuto.

Bisogna pertanto ricorrere alle ragioni di probabilità che ab­biamo recate a dimostrare che la prigionia e le depredazioni pa­tite da Ursicino indicano il periodo della maggior persecuzione de Longobardi idolatri od ariani, centra il clero cattolico, e però i primi sette anni del loro dominio in Italia, o al più il periodo dell’interregno, e così dal 568 ai 584; e la grave età cui per­venne Ursicino d’anni 80, ed il lungo pontificato di 47, e il non [p. 98 modifica]farsi dal papa memoria d’altro vescovo di Torino, che fosse stato prima di lui espulso dalla propria sede dai Longobardi, rendono non solo possibile, ma probabile che già fosse vescovo l’anno in cui giunse Alboino, è che non abbia avuto cuore di abbandonar la sua chiesa e di darsi alla fuga, come fecero altri vescovi; o che non l’abbia potuto fare, o che, salvatosi ne’ primi terrori, sia tor­nato al falso aspetto d’una bonaccia, ed abbia sofferto la depre­dazione ed il carcere, e che in ultimo, restituito alla libertà, non sia stato contemporaneamente restituito alla propria sede, occupata ancora nel 598 dai nemici, cioè dai Longobardi ariani.

Dato che Ursicino fosse già vescovo nel 568, anno in chi Al­boino venne in Italia co’ suoi Longobardi, colle sei tribù ausiliare e co’ Sassoni, l’indizione xiii in cui morì Ursicino, non potrebbe cercarsi nell’anno 595, anteriore alle lettere di S. Gregorio, ma nella prima successiva, cioè nel 610, nella quale ipotesi, che credo la più sicura, Ursicino sarebbe nato nel 530, e sarebbe stato consecrato vescovo nel 563, cinque anni prima dell’arrivo di Alboino.

Se non che essendo probabile che invece della indizione pon­tificia che comincia al Natale, si segnasse dall’autore dell’iscri­zione l’indizione Costantiniana, che era la più comune, e comin­ciava il 24 di settembre, la morte d’Ursicino, che passò di vita in ottobre, cadrebbe nell’indizione nuova, e così dovrebbe rife­rirsi all’anno 609, nella quale ipotesi sarebbe nato nei 529, ed avrebbe conseguita la dignità vescovile nel 562.


  1. S, Gregorii Magni operum, tom. ii, col. 1022, lib. ix, Epist. cxv.
  2. Epistola CXVI.
  3. Vedi Troya, Storia del medio evo.
  4. Lib. {sc|ix}}, Ep. {xi.
  5. Lib. i, cap. xiv.
  6. Pag. 323.
  7. Impariamo dalla visita di monsignor Peruzzi, vescovo di Sarcina, che nella tavola dedicata ai Ss. Crispino e Crispiniano nella cattedrale di Torino, il vescovo che vi è effigiato rappresenta Sant’Orso. Le tavole di questa cappella credonsi di mano del celebre Alberto Durer.