Storia di Torino (vol 1)/Libro I/Capo VII
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Capo Settimo
Ne’ tempi della decadenza dell’impero pochi fatti rammenta la storia che propriamente s’appartengano alla nostra città, che partecipò più o meno alle miserie italiane di que’ secoli tenebrosi. A’tempi di Vitellio, un artefice accusato qual frodatore da un soldato Batavo, protetto da un decumano Britanno, di cui era ospite, mise a rumor la città. I soldati decumani ed i Batavi s’impegnarono in quella rissa privata, e dalle ingiurie vennero ai colpi. Aspra battaglia he seguiva se le due coorti pretorie che vi stanziavano, minacciando i fiatavi, e mettendo loro paura, non li costringevano a posar l’arme. Poco stante tutte quelle genti levarono il campo, e partirono. Ma in sul partire lasciarono tanti fuochi accesi, che s’appiccò la fiamma alle case, ed una parte della città andò in cenere. E Tacito che racconta il fatto non accenna, come si potrebbe supporre, che fosse quell’incendio un ricordo lasciatoci dai Batavi, ma si contenta di notare che quel danno, come per lo più i danni guerreschi, passò inosservato in mezzo al maggior scempio d’altre città.1
Morto nel 312 l’imperatore Costanzo Cloro in Inghilterra, i soldati che eran con lui gli diedero per successore Costantino, poi chiamato il Grande, mentre i pretoriani a Roma sollevarono al soglio Massenzio. Non volendo questi Costantino neppur per collega nell’imperio, lo provò nemico. Nel 312 dalle sponde del Reno Costantino si tragittò velocemente alle sponde della Dora, dove lo aspettava il primo esercito nemico. Paurosa cosa era a vedersi, dice il panegirista Nazario, quella sterminata moltitudine, tutta vestita da capo a piedi di ferro, non l’uomo solo ma il cavallo, sicché alle punte ed al taglio mostravasi inaccessibile. Ma invece questi catafratti, ne’ quali era il maggior nerbo della pugna, furono tutti da Costantino uccisi, sicché non ne scampò neppur uno, mentre de’ Costantiniani un solo non fu perduto.2 Così conta Nazario; ma se non è da fidarsi de’ panegiristi mascherati sotto al nome di storici, molto meno converrà fidarsi de’ panegiristi che fanno aperta profession d’esser tali. Il fatto è che Costantino visibilmente protetto da Dio e munito del labaro miracoloso debellò e a Torino ed a Roma Massenzio, e rimase unico possessor dell’impero.
Nel 452 Attila, re degli Unni, era entrato in Italia, e già le sue bandiere sventolavano sul Ticino. I Torinesi attendeano a rinforzar le porte e le mura. S. Massimo, approvando quelle temporali difese, esortava il suo popolo a ricorrere all’armi più potenti della preghiera e del digiuno; proponea loro l’esempio di Ninive, che facendo penitenza de’ suoi peccati, fu salva, e lo esortava a non temere, e rialzava ne’ petti avviliti dal disastro d’Aquileja e dalla ferocia e crudeltà degli Unni quelli spiriti confidenti e generosi, che soli danno cuore di guardar in faccia al pericolo senza smarrirsi, e viltà chiamava e quasi parricidio l’abbandonar in quel frangente la patria. E tale è appunto l’ufficio di chi regge popoli, cercar d’avvivare negli animi tepidi e paurosi la carità della patria, fonte de’ sentimenti più sublimi; insegnar come i primi doveri ed i primi affetti a lei debbono consecrarsi; mostrare come sappia e come senta altamente chi sa morire difendendola: « Rimanete a sua difesa, e Dio vi proteggerà; piangete le vostre colpe e pregate, e Torino non cadrà sotto le mani d’Attila ». Così diceva quasi profetizzando il santo Vescovo. Attila infatti non venne a Torino.3
Nel 488 Odoacre re dei Turcilingi e dei Rugi signoreggiava da tredici anni in Italia, quando Teodorico, principe dei Goti, otteneva da Zenone, imperatore d’Oriente, il permesso di conquistar per sè questa antica sede e centro dell’impero romano. Venuto con una sterminata moltitudine di genti (i barbari si moltiplicano agevolmente) vinse una prima volta Odoacre sulle rive del Lisonzo, poi altre volte in battaglie ordinate, finché strettolo lungamente d’assedio a Ravenna, l’ebbe a patti, e contra i patti l’uccise nel 493. Ma due anni prima, mentre ancor battagliavano, scese dall’Alpi re Gondebaldo co’ suoi Borgognoni, altri barbari che aveano occupata la provincia cui lasciarono il nome, la Francacontea, l’Elvezia, la Savoia. Da chi fosse chiamato dei due competitori non è nolo; forse da tutti e due; e pare che non potendo servirli ambedue, Gundebaldo pensasse a diservirli, poiché manomise da par suo queste contrade, le pose a ruba, e gran numero di genti condusse a piangere prigioniere sulle sponde dei Doubs e del Rodano.
Nel 494, rimasto Teodorico pacifico possessore dell’Italia, ebbe a sè S. Epifanio, vescovo di Pavia, e gli propose di recarsi a Gundebaldo e di trattar con lui del riscatto degli schiavi che avea fatti in Italia. Udì con letizia il pio vescovo quell’umanissima intenzione, e condiscendendo volonteroso alla proposta « Pregoti solamente, soggiunse, che tu voglia per concessione della tua clemenza darmi compagno nel viaggio e nella legazione Vittore, vescovo della città de’ Taurini, in cui si vede ad evidenza il compendio di tutte le virtù; poiché adoperando siffatto compagno, del Signor nostro con più fiducia confido, che niuna petizione ne verrà diniegata ». Alla qual domanda, dice Ennodio, l’eminentissimo re condiscese, ed il tremendo pontefice salutatolo se ne partì.
I due santi vescovi, Epifanio e Vittore, nulla curando i disagi, valicarono le Alpi nel mese pericoloso di marzo, e andarono a Lione, dove teneva corte il re Gundebaldo. L’alta fama di S. Epifanio e di S. Vittore l’avea già disposto a benignità. L’evangelica eloquenza d’Epifanio lo persuase e lo com mosse; onde liberò più di seimila schiavi, la maggior parte gratuitamente; con picciol riscatto quei soli ch’erano stati presi coll’armi alla mano.4
Con quella pompa più che regale, con sì splendido corteggio tornarono i due vescovi alle loro sedi, accolti con lagrime di gioia, con voci di giubilo, con mille benedizioni da tutti, ed in particolare da chi ricuperava un amico, un fratello, un marito, un padre.
Questi è quel S. Vittore che convertì l’oratorio in cui eran sepolte le ossa de’ martiri torinesi Solutore, Avventore ed Ottavio in degna ed onorata basilica con l’atrio di meravigliosa struttura e di rara celebrità.5
A’tempi di S. Vittore la basilica de’ nostri martiri era già un luogo famoso, segno di gran divozione e di frequenti pellegrinaggi: lo rammenta Ennodio nel suo itinerario di Brianzone:
Limina sanctorum praestat lustrasse trementem
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Ma nelle campagne rimaneva ancora qualche avanzo d’idolatria. I villici sempre tenaci delle antiche pratiche, tardarono assai più ad accettare il lume della fede; poi accettatolo, lo mescolarono lungo tempo con superstizioni pagane. Il regno de’ Goti finì in Italia colla morte del re Teja nel 553; non toccarono i Goti le magistrature romane, esercitarono giustizia, si mostrarono in generale più temperanti che oggi non s’imagina chi è uso ad adombrar col nome di Goto ogni maniera di colpa e di. barbarie. Ma se si lascino in disparte alcune azioni crudeli, Teodorico e Totila furono principi di gran mente e di gran cuore. E Giustiniano che guerreggiando con Totila prima col mezzo di Belisario poi dell’eunuco Narsete, riuscì a spegnere la potenza de’ Goti, era assai men virtuoso di quelli, e i Greci di Romania, corrotti e corrompitori, crudelmente lascivi e lascivamente crudeli, spesso empi, facilmente eretici, e sempre dialetticanti e teologizzanti, furono l’ultima rovina delle nostre contrade, che diè presto occasione all’altra maggior ruina, che fu l’invasione de’ Longohardi nel 568.
Certo se i Goti fossero stati cattolici e non ariani si sarebbero meglio italianizzati, non avrebbero ispi rato tanta ripugnanza ne’ popoli, ed avrebbero colla forza che hanno in sè le nature adolescenti e non evirate dai vizii e dalla mollezza potuto, piucchè niun’altra gente, ristorar le sorti d’Italia.
Note
- ↑ [p. 78 modifica]Lib. ii, cap. lxvi.
- ↑ [p. 78 modifica]Ad unum interfectis cataphractis omnibus tuis integris.
- ↑ [p. 78 modifica]Homil. xc, xci, xcii. Questo insigne pontefice e scrittore, disapprovando, nell’esposizione del simbolo, gli intemperanti disputatori in materia di fede, scrivea: Esse Dei et posse non disculiendo assequimur sed credendo.
- ↑ [p. 78 modifica]Ennod. In vita b. Epiphanii apud Sirmond.
- ↑ [p. 78 modifica]Atti de’ santi Solutore, Avventore ed Ottavio. Nel libro intitolato: Della passione e del culto de’ Ss. martiri Solutore, Avventore ed Ottavio. — Dissertazione del P. Zaccaria con note del dotto P. Carminati a pag. 184. Circa all’antichità di questi atti paionmi concludenti le ragioni per cui lo Zaccaria ed il Carminati li riferiscono al vi secolo.