Storia della rivoluzione di Roma (vol. II)/Capitolo XIII

Capitolo XIII

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CAPITOLO XIII.

[Anno 1848]


Apertura dei Consigli legislativi il 5 giugno. — Discorso del cardinale Altieri. — Discorso del conte Mamiani letto il 9 nel Consiglio dei deputati. — Dissenso fra il Santo Padre e il Mamiani sul detto discorso. — Il ministro degli affari esteri secolareschi conte Marchetti, mal veduto in palazzo. — Reluttanze papali. — Il Labaro entra in lizza, e ne dà la spiegazione. — Risposta dell’Epoca. — Disastri della guerra di Lombardia. — Resa di Vicenza. — Capitolazione di Padova, di Treviso e di Palmanova. — Malumori in Roma. — Sospetti contro Carlo Alberto e contro i generali Durando e Ferrari. — Divisioni degli animi. — Calunnie, maldicenze, tepidezze pel reggimento costituzionale. — Freddezza in Roma per l’anniversario della elezione del pontefice. — Risposta smentita dell’imperatore d’Austria alla lettera del papa. — Il deputato Orioli accusa in parlamento il ministero di avere iniziato una politica di separazione. — Fine di giugno. — Prime notizie avutesi in Roma della sommossa dei socialisti a Parigi.


Il giorno 5 di giugno aveva luogo la solenne apertura delle Camere legislative o parlamento dello stato pontificio, nelle sale del palazzo della Cancelleria.

Alle ore otto circa antimeridiane recaronsi i membri di ambedue i Consigli nelle sale destinate alla pubblica esposizione delle belle arti sulla piazza del Popolo, e di là alle nove e mezza mossero per recarsi al palazzo sovra indicato.

Aprivano la marcia un drappello di dragoni a cavallo con banda musicale, uno di carabinieri a cavallo, ed uno di guardie civiche.

Veniva quindi il senato romano fiancheggiato da altre guardie civiche.

[p. 348 modifica]Seguiva poi il corteo dei cocchi di gala con entrovi i membri dell’Alto Consiglio, e poscia venivan quelli dei deputati, ai quali facevano ala egualmente le guardie civiche.

Vedevansi appresso:

I vessilli di tutti gli stati italiani, seguiti da alcuni di stati esteri.

Quelli dei quattordici rioni di Roma coi respettivi deputati.

In fine tutti i circoli colle loro insegne.

La città era in festa. Alcuni palazzi erano decorati di tessuti ad arazzo. Tutte le finestre avevan parati; alcune gli stemmi della italiana indipendenza. Una quantità immensa di persone erasi accolta in sul passaggio dalla piazza del Popolo a quella della Cancelleria.

Giunse il corteo vergo le dieci e mezzo a san Lorenzo in Damaso. Quivi scesero i membri dei due Consigli per ascoltarvi la messa dello Spirito Santo. Dopo di che recaronsi nella sala contigua destinata alle adunanze.

Era già presidente eletto da Sua Santità per l’Alto Consiglio monsignor Carlo Emanuele Muzzarelli, e vice presidenti il principe don Pietro Odescalchi ed il conte Giuseppe Pasolini.1

Il Consiglio dei deputati scelse allora il suo presidente per anzianità in persona del deputato per Saludecio Basilio Albini. Poscia entrambi i Consigli scelsero i loro segretari.

Imbussolati quindi i nomi tutti dei membri dei due Consigli, si estrassero a sorte sei di ciascuno per formare le due deputazioni destinate a ricevere il cardinale Altieri delegato di Sua Santità.

A mezzo dì il castel sant’Angelo con cento colpi di cannone annunziò l’arrivo del delegato pontificio il quale era partito dal Quirinale, discendendo la via delle tre [p. 349 modifica]Cannelle, passando per la piazza dei santi Apostoli, per quella di Venezia e quindi per la via Papale.

Componevasi il suo corteggio nel modo seguente:

Un drappello di dragoni a cavallo.

Altro di carabinieri parimente a cavallo.

Banda musicale dei vigili, e due legioni dei medesimi.

Due di guardie capitoline.

Due di guardie palatine.

Due di guardie civiche.

Le quattordici bandiere dei rioni scortate dalla civica.

Veniva quindi la carrozza di gran gala dell’eminentissimo Altieri accompagnata dalla guardia svizzera, cui teneva dietro una legione civica.

Seguivano poi tre carrozze del cardinale con prelati della corte di Sua Santità, scortate dalla civica, ed altre carrozze formanti il corteggio del cardinale, il quale chiudevasi con due battaglioni di civica ed uno di linea.

Giunto al palazzo della Cancelleria, venne ricevuto dalle deputazioni dei due Consigli, e quindi introdotto nella grande sala delle adunanze. Un usciere annunziò l’arrivo del delegato di Sua Santità: levaronsi in piedi i Consiglieri, e il cardinale sali sul seggio destinatogli. Invitati a sedersi i membri dei due Consigli, lesse sua eminenza ad alta voce il discorso che ripeteremo qui sotto.

Erano presenti all’atto solenne i ministri di Sua Santità, il senato romano, il corpo diplomatico, alcuni prelati, una parte dell’eletta cittadinanza, e molte dame italiane e straniere.

Il cardinale dopo letto il discorso, dichiarò aperta la sessione.

Il ministro della giustizia invitò per l’indomani i due Consigli a riunirsi per sentir la lettura del programma del ministero, ed occuparsi quindi degli affari dello stato, purchè si trovassero in numero sufficiente, non essendo ancor giunti nella capitale tutt’i membri che vi dovevano prender parte.

[p. 350 modifica] Dopo ciò con lo stesso cerimoniale il cardinale partì, restituendosi per la medesima via al Quirinale.

Ecco il discorso letto dall’eminentissimo Altieri ad entrambi i Consigli:

«La Santità di Nostro Signore mandami a voi con l’officio lieto ed onorevole di aprire in suo nome i due Consigli legislativi.

» Il Santo Padre vuole al tempo medesimo che vi significhi, come un tale atto della sovranità sua soddisfi al suo cuore per la fiducia che ha di vedere col vostro concorso migliorato il sistema del pubblico reggimento.

» Egli si rallegra con voi, e ringrazia Iddio, perchè siasi potuto giungere ad introdurre nei suoi stati quelle forme politiche richieste dalle esigenze de’ tempi, e che sono conciliabili colla natura del suo pontificio governo. Ora a voi si appartiene, o signori, il procurare di ritrar dalle nuove istituzioni quei benefici che Sua Santità ha desiderati nel concederle.

» Il Santo Padre non cesserà di pregare l’Autore di tutti i lumi perchè infonda nel vostro intelletto la vera sapienza, e perchè le istituzioni e le leggi, alle quali porrete mano, siano informate da quello spirito di giustizia e di religione, che sono il solido e vero fondamento di ogni libertà, di ogni guarentigia, di ogni progresso.

» Il Santo Padre ha commesso ai ministri suoi d’istruirvi e ragguagliarvi principalmente intorno allo stato della nostra legislazione ed amministrazione; in particolar guisa ha commesso di ragguagliarvi intorno allo stato del pubblico erario per proporre i mezzi più acconci di ristorarlo col minore aggravio possibile delle popolazioni.

»Ha pure commesso ai ministri di presentarvi tra breve le proposte di legge che lo statuto fondamentale promette.

» Il Santo Padre raccomanda alla vostra fede e alle vostre cure incessanti l’ordine e la concordia interiore. [p. 351 modifica]Con questa, o signori, la libertà tornerà a vantaggio di tutti; con questa avranno sviluppo le ottime leggi, le larghe riforme, i sapienti istituti. Ammaestrati da lunga e penosa esperienza, sostenitori della santa religione, che ha sede in questa città, avrete a sperare che nessuna pienezza di beni vi verrà negata da Dio per poter meglio emulare la gloria dei vostri maggiori.»2

Questo discorso è quello che si lesse, ma non è quello che dovevasi leggere, e che era stato elaborato dal Mamiani. 11 papa lo aveva racconciato facendovi delle correzioni, le quali non quadrando nè al Mamiani nè agli altri ministri, accadde che mentre nientemeno sfilava già la processione, si recassero in corpo i ministri stessi al pontefice per annunziargli non acconsentire a quel discorso, quale era stato modificato dalla stessa Santità Sua. Aggiunse il Mamiani che avrebbe letto il suo discorso nel primo giorno di tornata legale, siccome fece realmente, e che trascriveremo in appresso.

E in seguito di ciò l’Altieri compose quello che abbiam riportato, e che si ebbe in vista di rendere semplicissimo e scevro il più che si potesse di color politico.

Sembra che il papa, corrucciatosi non poco della opposizione fattagli sopra tutto in tali strettezze di tempo, perchè involgente le apparenze di una coazione morale, licenziasse i ministri assai bruscamente.

In conseguenza di questo trattossi perfino della rinunzia del ministero in massa, ma il papa impose a’ ministri di restare in officio. Ed a tal punto giunsero le acrimonie fra il sovrano ed il ministero laicale, che come il primo non avea voluto menar buono il discorso preparato dal ministero, non vollero i ministri menar buona al pontefice la legge sulla stampa che con pontificio motu-proprio del 3 fu promulgata ed il giorno 4 esibita in atti dell’Appolloni. Ciò fecero ma con loro torto manifesto: imperocchè il [p. 352 modifica]pontefice nel promulgar lo statuto erasi riservato tale legge. Di fatti all’articolo 11° sì dice: «Nulla è innovato quanto alla censura ecclesiastica stabilita dalle canoniche disposizioni, fino a che il Sommo Pontefice nella sua apostolica autorità ne provvegga con altri regolamenti.»

Così non avendola voluta approvare il ministero, si lasciò che il papa la sancisse e pubblicasse di motu-proprio.

Bello per verità era questo iniziamento della vita costituzionale, e da farne presagire molti beni negli stati della Chiesa! Imperocchè non erano ancora riuniti i Consigli legislativi, non erano incominciate le discussioni, e già gli urti, i sospetti, i dissidi, i mali umori sorgevano fra il sovrano e il ministero laicale. Parve che i laici prima ben anche di farne un qualche esperimento, volesser provare al mondo la incompatibilità del reggimento costituzionale in Roma coi due poteri spirituale e temporale del papa. Non siamo noi che pronunziamo questo giudizio. Diciamo bensì che i fatti che si svolsero in sul principio, conducevano a tirarne queste conseguenze.3

Seguitando ora gl’iniziamenti della vita costituzionale in Roma, diremo che il giorno 9 si aperse la sessione dei due Consigli legislativi.

Quanto all’Alto Consiglio eran presenti ventisette membri. Il conte Marchetti vi lesse il discorso del conte Mamiani, quello stesso che il Mamiani leggeva nel Consiglio dei deputati, il quale si aperse ai tre quarti dopo mezzogiorno, essendovi presenti cinquantuno de’ suoi membri. Vi assistevano i ministri dell’interno, delle armi, delle finanze, dei lavori pubblici e del commercio. Compiuta la lettura del processò verbale, il presidente dette la parola al conte Mamiani ministro dell’interno, il quale dalla tribuna lesse il seguente, discorso:

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«Signori,

»Egli è bello e doveroso che le prime parole, che si odano risonare in questo recinto, siano parole d’ossequio e di gratitudine all’immortale principe datore dello Statuto. Pio IX nel cuor suo generoso ha sentito che la cristiana carità dee poter scegliere il bene migliore e spontaneamente moltiplicarlo, e che la spontanea scelta del bene non è possibile dove è sbandita la libertà. Però in questa nobilissima parte d’Italia, e dopo tanto corso di secoli, il principe nostro inaugura alla perfine quest’oggi il regno della libertà vera e legale. Le pubbliche guarentigie largite da lui vengono in atto quest’oggi; e all’arbitrio, ai privilegi, alla tutela strettissima e non sindacabile, succede l’imperio delle leggi e del comune consiglio.

»Non sempre la grandezza de’popoli è da misurare dall’ampiezza del territorio e dalla potenza delle armi. Imperocchè ogni vera e salda grandezza scaturisce dallo intelletto e dall’animo. E però in questa nè molto ampia, nè formidabile provincia italiana, noi tuttavolta siamo chiamati a grandissime cose; e noi dobbiamo con coraggio non presuntuoso, e con magnanimo sforzo, tentare di non troppo riuscire inferiori alle memorie di Roma, e all’altezza augusta del pontificato.

»Un’opera vasta e feconda s’è qui incominciata, il cui finale risultamento riuscirà come un suggello non cancellabile della civiltà dei moderni.

»Il principe nostro, come padre di tutti i fedeli dimora nell’alta sfera della celeste autorità sua, vive nella serena pace dei dogmi, dispensa al mondo la parola di Dio, prega, benedice, e perdona.

»Come sovrano e reggitore costituzionale di questi popoli, lascia alla vostra saggezza il provvedere alla più parte delle faccende temporali. Lo Statuto, aggiungendo [p. 354 modifica]la sanzione sua propria e politica alla sanzione cattolica, dichiara che gli atti del principe sono santi, e non imputabili; ch’egli è autore soltanto del bene, e al male l’non può in ninna guisa partecipare. Certo guardando la cosa da questo lato, se il governo rappresentativo non esistesse in niun luogo, inventar dovrebbesi per queste romane provincie.

»Voi dunque siete chiamati, o signori, a consumare un gran fatto e profittevole a tutti i popoli, aiutando il sovrano ad elevare in fino al fastigio il nuovo edificio costituzionale; e oltre ciò, altri due beni notabilissimi arrecherete all’intero mondo civile. Il primo consiste a dare alle libertà e guarentigie della vita sociale e politica quella saggezza e moralità, e quell’elevatezza, purità e perduranza, che la religione sola imprime alle cose umane, e di cui le virtù e l’animo del pontefice sono vivo specchio e modello. Il secondo bene sarà pur questo, ch’essa medesima la religione fiorisca oggi mai e grandeggi in mezzo della libertà vera e ordinata, ed a se attragga gli uomini molto più efficacemente con la soave forza della persuasione e della spontaneità, che non coi mezzi del poter materiale.

»A noi impertanto, o signori, non toccherà solo di abbattere gli ultimi avanzi del medio evo, e gli abusi che necessariamente aduna ed accumula il tempo; ma ci è impartito un largo e nobile ufficio nel trovare e perfezionare insieme colle più culte nazioni le forme nuove della vita pubblica odierna.

»Il ministero che qui vedete presente, o signori, non è di tanta opera se non una parte minimissima e transitoria. Ciò non di manco egli sente l’immenso ed arduo proposito, a cui debbe intendere; e a lui tardava assaissimo che voi veniste a indicargli le prime mete, a incoraggiarlo del vostro suffragio, a spianargli col vostro senno le vie scabrosissime che dee calcare. Quando il principe augusto lo chiamò a reggere la cosa pubblica, la quiete [p. 355 modifica]e l’ordine interno parevano assai vacillanti, e in alcuna porzione già manomessi; quindi la libertà stessa nascente posta in gran repentaglio; quindi la causa italiana per indiretto modo offesa e messa in qualche pericolo. Impertanto il debito proprio e lo speciale ufficio del ministero, massime nella quasi imminenza dell’apertura de’ due Consigli, fu quello di restaurare l’ordine, ricondurre da per tutto la quiete; e ricomponendo le menti e gli animi forte commossi, disporli a quella posatezza ed equanimità, ch’è oltremodo necessaria a fornire la patria di buone leggi, e di sapienti istituti. Dio ha favorito l’opera nostra; e questo popolo generoso, ancor ricordevole della gravità e moderanza de’ suoi antichi, è tornato in sì piena tranquillità e posatezza di spirito, che forse la maggiore non s’è veduta da poi che la voce soave di Pio IX chiamò Roma e l’Italia a nuovi e maravigliosi destini.»

»L’altr’opera principale, a cui c’invitava, ed anzi impriosamente ci commetteva l’universale opinione, si fu di aiutare per ogni guisa, con ogni sorta di mezzi, con qualunque sforzo e fatica possibile, la causa nazionale italiana. E in ciò non era facile a noi l’adoperarei meglio e più attivamente de’ nostri predecessori. Procedendo pertanto assai risolutamente sulle orme dr già segnate, io non istimo che ne’ pochi giorni del nostro governo noi non abbiamo mostrato, con la prova patente del fatto, le nostre chiare intenzioni, e che lo scopo non sia stato raggiunto, quanto pur si poteva in questa nostra provincia, e coi mezzi certo non abbondanti, di cui potevamo far uso.

»Non vi è poi nascosto, come obbedendo più spedalmente alla paterna sollecitudine di Sua Santità, noi poneramo le truppe nostre ed i volontari sotto la provvida tutela e il comando immediato di Carlo Alberto: serbando peraltro al pontefice e al suo governo tutte quelle prerogative e diritti, che la sicurezza e la dignità di lui e [p. 356 modifica]nostra chiedevano, come agevolmente voi dedurrete dai termini della convenzione tostochè ne piglierete notizia.

»Del rimanente appena noi possiamo dire di aver seguito d’accosto l’ardore impaziente delle nostre città. V’ha nella storia de’ popoli alcuni momenti supremi, in cui lo spirito di nazione così profondamente gl’investe e commove, che ogni forza resistente ed avversa, non pure diviene fragile, ma sembra convertirsi in eccitazione e fomento dell’azione contraria. In quel tempo solenne scalda ed invade tutti i cuori un solo pensiero, un sol sentimento, una sola incrollabile deliberazione; e tal subita e gagliarda unanimità feconda di tanti prodigi, parendo maravigliosa a quelli medesimi che ne partecipano, fa loro esclamare con sacro entusiasmo quel motto pieno di tanta efficacia e significazione: Dio lo vuole.

»Testimonio essendo il pontefice d’un sì gran caso, e d’altra parte abborrendo egli, pel suo ministero santissimo, dalle guerre e dal sangue, ha pensato con un affetto apostolico insieme e italiano d’interporsi fra i combattenti, e di dare intendere ai nemici della nostra comune patria, quanto crudele e inutile impresa riesca ormai quella di contendere agl’Italiani le naturali loro frontiere, e il potersi alla perfine comporre in una sola e concorde famiglia.

»Il ministero di Sua Santità, appena fu consapevole di cotale atto memorando di autorità pontificia, sentì il debito pieno di ringraziamela con effusione sincera di cuore; e segnatamente per avere statuito, a condizione prima e fondamentale di concordia e di pace fra i contendenti, che fossero alla nazione italiana restituiti per sempre i suoi naturali confini: e perchè sperava che quella implicita dichiarazione della giustizia della causa italiana spandesse novelle benedizioni sulle armi generose, che i popoli nostri impegnarono, e al re Carlo Alberto crescesse animo di proseguire senza tregua nessuna la sua vittoria.

[p. 357 modifica]«Nelle relazioni politiche colle altre provincie italiane, noi, compresi sempre dal debito massimo di secondare e caldeggiare al possibile la causa nazionale, abbiamo subito manifestato un gran desiderio di entrare con esse tutte in istretta e leale amicizia, rimossa ogni gelosia funesta ed ignobile dell’altrui ingrandimento, e pensando sempre ed in ogni cosa a ciò solo che l’indipendenza sia conquistata, e la concordia interiore sia mantenuta. E intorno a questa ultima noi vi dichiariamo, o signori, che appena prese le redini dello stato, subito abbiamo procacciato di rannodare le pratiche più volte interrotte circa una lega politica tra i vari stati italiani; ed altresì possiamo annunziarvi che in noi è molta e ben fondata speranza di cogliere presto il frutto delle nostre istanze e premure, dalle quali vi promettiamo di non desistere insino all’adempimento del bello ed alto proposito.

»Quanto a ciò che risguarda le relazioni coi popoli oltramontani, esse, come nelle mani del Sommo Gerarca sono di necessità estessissime, abbracciando tutti i negozi dell’orbe cattolico, nelle nostre mani invece essendo quelle cominciate soltanto da poctyi giorni, non possono non riuscire scarse e ristrette. Della qual cosa noi ricaviamo per al presente piuttosto consolazione che altro: conciossiachè quello, di cui insieme con tutti i buoni Italiani nutriamo maggior desiderio, si è di essere lasciati stare, e che noi possiamo da noi medesimi provvedere alle nostre sorti. La massima forse delle sventure, che cader potesse a questi giorni sulla nostra nazione, saría la troppo fervorosa ed attiva amicizia d’alupn gran potentato.

»In risguardo poi dell’Austria e della nazione germanica, noi ripetiamo assai volentieri in vostra presenza quello che altrove affermammo; cioè a dire, che da noi non si porta odio, ed anzi si porta stima ed amore alla virtuosa e dottissima nazione alemanna; e che agli Austriaci stessi siamo pronti ed apparecchiati a profferire la nostra amicizia in quel giorno e in quell’ora, che [p. 358 modifica]l’ultimo suo soldato avrà di se sgombro l’ultimo palmo della terra italiana. E come l’Italia è lontanissima da ogni ambizione di conquiste, e da qualunque disegno di valicare i certi confini suoi, perciò ella desidera sinceramente di stringere molti legami di buona vicinanza e amicizia coi finitimi popoli. Noi, di ciò persuasi, abbiamo sollecitato e pregato principalmente il governo sardo a spedire abili commissari con queste intenzioni medesime appresso la valorosa nazione ungherese, e a noi giunge notizia certissima, che il ministro delle relazioni esteriori del regno sardo ha tanto più volentieri accettata e assentita la nostra proposta, in quanto egli aveva (secondo che scrive) rivolto di già il pensiero a quel subbietto medesimo.

»Ripiegando al presente il discorso sui nostri interni negozi e sulle politiche condizioni di queste provincia, varia, abbondante, e faticosissima è l’opera che da farvi rimane. Imperocchè non è parte del pubblico reggimento, la qual non domandi larghe riforme ed utili innovazioni; e se l’opera in ciascun suo particolare è laboriosa e difficile, essa è tale infinite volte di più nel suo tutto insieme, volendolo bene ed intrinsecamente coordinare ed unificare; la qual cosa ricerca un vasto sistema preconcepito di civile e politico perfezionamento: e a tale sistema intenderà il ministero con tutte le forze sue.

»Ciascuno di noi vi esporrà tra breve, o signori, lo stato del suo special dicastero e le mutazioni necessarie e profonde che fa pensiero d’introdurvi. Il ministro delle finanze segnatamente v’intratterrà delle condizioni attuali del pubblico erario, e vi proporrà quei partiti, che dopo maturo esame e finissima diligenza egli reputa esser migliori per ristorare così il tesoro, come il credito pubblico, e affine che ciò si adempia col minore aggravio possibile delle popolazioni.

»Ai ministri sta pure a cuore di presto sottoporre al giudizio e deliberazione vostra quelle proposte di legge, che lo Statuto promette, e sono organi principali alla [p. 359 modifica]vita nuova costituzionale, in cui la Dio mercè siamo entrati. Principalissimi fra gl’istituti e le leggi nuove e fondamentali, a cui dovrete por mano, saranno la costituzione dei municipi e la responsabilità effettiva e non illusoria dei ministri e de’ pubblici funzionari. L’istruirvi e ragguagliarvi quest’oggi sopra particolari moltissimi di tali proposte e di somiglianti, non credo che riuscirebbe opportuno. Presto l’esigenze del nostro ufficio condurrannoci a farlo con quella chiarezza e puntualità che domanda ciascuna materia.

»Signori! i tempi corrono più che mai procellosi. Nei popoli è una soverchia impazienza di tramutare gli ordini, e perfino i principi e le fondamenta della cosa pubblica. Tutto ciò che i secoli effettuarono e stabilirono con fatica e lentezza, vien minacciato di subita distruzione. Ma dopo avere atterrato, conviene rifabbricare con gran saldezza e con felice magistero; e da questa opera sola potrà giudicar il valore della moderna sapienza civile. Il ministero ha piena fiducia che voi radunati nella città eterna, daccanto all’immobile seggio del cristianesimo, varrete a compiere l’impresa difficilissima dei riedificare e ricostruire; e che voi in queste arti di pace e di civiltà saprete pareggiare la gloria de’ nostri armati fratelli, che là sulle rive del Mincio e dell’Adige rispondono con eroica bravura allo straniero insolente, che lanciava sul nostro capo inerme e innocente l’accusa bugiarda di slealtà, d’ignavia e di codardia.»4

Questo è il discorso che il Mamiani lesse in Consiglio e che venne propalato al pubblico. Il Farini riporta quello che asserisce essere stato letto dal Mamiani al pontefice, e che da questo venne postillato e corretto; egli indica le correzioni papali che si riducono a piccolissima cosa. Circa poi alle correzioni non possiamo negare, ma neppure [p. 360 modifica]garantire l’asserto del Farini. Il tempo che scopre la verità, forse la farà conoscere un giorno anche in questo caso.

Riassumendo le considerazioni che facemmo in fine del precedente capitolo sulla poca simpatia ch’esisteva fra il Santo Padre ed il conte Marchetti ministro degli affari esterni secolari, aggiungeremo ora che ciò che nel maggio dicevasi a bassa voce, venne fatto di pubblica ragione nel giugno e precisamente il giorno 9, quando il Labaro (giornale scritto da chierici ma chierici progressisti, e le cui idee eransi informate e riscaldate sul Primato morale e civile del Gioberti) ci venne manifestando la cosa con maggior fondamento. Ed è certo che i suoi scrittori non avrebbero arrischiato di accampare questa questione delicatissima in quei momenti, se non ne avessero ricevuto l’ispirazione, o come dicesi, l’imbeccata dal Quirinale stesso. In questo caso il Quirinale e non il Labaro avrebbe parlato. Sentiamo dunque che cosa diceva l’articolo:

«Una nuova crisi ministeriale sembra ormai manifestamente prepararsi, crisi provocata più che altro da vari atti ideati, dicesi, o compiti dal ministero alquanto fuori della linea d’idee che ad esso era stata accennata da seguire. Noi nè persona al mondo potrà di leggieri sciogliere questa questione, ma dal tutto insieme potrebbe sembrare che il giusto desiderio, che i secolari ancora partecipassero al pubblico reggimento, e al ministero, anzi vi fossero in tale maggioranza da togliere ogni dubbio ai sospettosi d’un qualunque ritorno all’antico sistema, non sia ormai ultimo scopo: ma che uria proscrizione ed una esclusività contraria si voglia proclamare contro il clero a nome di quella stessa libertà ed eguaglianza che servì a distruggere l’antica esclusione de’ secolari. Questo è veramente un effetto, che preveder si potea dell’ordinaria legge di reazione, la quale quando un sistema fu troppo lungamente spinto all’eccesso da un lato, suole poi spingerlo egualmente con eccesso all’opposto: ma se da questo impeto di reazione si suol lasciar [p. 361 modifica]condurre chi poco ragiona, non sono certamente gli uomini di stato, i principali magistrati della nazione quelli che debbono lasciarsi trascinare: essi destinati fra gli urti degli estremi partiti a governarli col senno.

»Due fatti ci vanno principalmente insinuando il nostro pensiero, mormorati a bassa voce qui in Roma, ma fuori d’essa resi ormai pubblici persin colla stampa; l’essersi cioè compiti degli atti a nome del ministero senza che vi prendessero parte i due membri eeclesiastici che vi appartenevano, come a cagione d’esempio alcuni non sottoscritti dall’eminentissimo Vizzardelli, e l’indirizzo al pontefice in risposta alla lettera all’imperatore non conosciuto dal presidente del Consiglio.5

»Il secondo punto si è la divisione effettuata, o piuttosto abburrattata degli affari esteri secolareschi dagli eclesiastici; diciamo abburrattata, giacchè v’è chi afferma che quel ministro dei secolari non abbia sinora nè ministero nè subalterni, e che non si sa bene quanto sia riconosciuto per tale, o dal suo o dagli stranieri sovrani.»

A queste rivelazioni del Labaro seguono alcune considerazioni sulla incompatibilità o sconvenienza di cosiffatta separazione, che per brevità tralasciamo.6

Pubblicato questo articolo, trovavami in casa del ministro Marchetti, al quale professavo così sincerissima stima per le sue qualità personali, come obbligazioni per aver scritto a mia richiesta le parole della cantata in onore di Sua Santità, data la sera del 1° gennaio 1847 nella gran sala del Campidoglio. Gli tenni proposito dell’articolo del Labaro, e fui io stesso che dappresso la sua domanda gli porsi il numero quarantuno ov’era l’articolo. Ricordo pur anco che interpellato da me, asserimmi di trovarsi regolarmente al [p. 362 modifica]suo posto, avendo ricevuto il biglietto di nomina colla firma del cardinale Orioli.

Stando a questi fatti converrebbe inferire che nei trambusti dei primi di maggio, ed allorquando il papa acconsentì alla formazione del ministero Mamiani, si acconciasse di mala voglia a tollerare un ministro per gli affari esteri secolareschi, nella persuasione o speranza che la cosa forse potesse non incontrare gravi ostacoli nella sua attuazione, e che poi o le difficoltà incontrate per via, o le esorbitanti pretese del ministero secolaresco quando si trovò insediato, o le osservazioni di qualche rappresentante dei governi esteri in Roma, o le corti stesse per lettere private facesser sentire l’incompatibilità di un simile stato di cose, mentre da tempo immemorabile avevan corrisposto con un cardinale di santa Chiesa, come ministro degli affari esterni, senza la distiazione di ecclesiastici o secolareschi. Ad ogni modo egli è un fatto che fin dai primi momenti il Santo Padre mostrò una ripugnanza invincibile a piegarsi allo impostogli cambiamento, e questa ripugnanza man mano si venne aumentando fino al punto di convertirsi in aperta rottura. In una parola ciò che nel maggio era un sospetto, divenne nel giugno una evidenza, e l’articolo del Labaro del 9 scoperse il velo che ricopriva la verità.

Se ne allietarono gli uomini assennati perchè dicevano non potersi determinare gli esatti confini di ciò ch’è ricisamente ecclesiastico o secolare, essendochè si confondano è compenetrino a vicenda soventi volte insieme, in guisa che non è dato distinguere e separare una cosa senza urtare o intaccare un brano dell’altra; e in questo appunto consistere la incompatibilità del costituzionalismo in Roma.

S’impegnò allora una lotta vivissima fra il Labaro che aveva spezzato la prima lancia contro il ministero, e l’Epoca che lo difendeva.7 A lode del vero però la discussione si contenne nei limiti della moderazione e della tolleranza.

[p. 363 modifica]Abbastanza avendo detto su ciò che concerne lo svolgimento della vita costituzionale in Roma, rivolgiamoci agli avvenimenti di altro genere che occorsero in quel tempo.

Partiva il 10 giugno da Roma il famoso Gioberti, festeggiato più o meno secondo il solito, ma non mai a coro pieno, perchè i più ferventi rivoluzionari in Roma non erano nè pel papa nè pel Piemonte, ma per la repubblica.8 Il giorno precedente alla sua partenza, diresse il Gioberti una lettera in ringraziamento al pro-direttore del circolo popolare Sisto Vinciguerra.9 Qualche giorno prima era stato pubblicato un foglio favorevole al Gioberti sul discorso tenuto contro il medesimo al circolo romano da Pietro Sterbini. Era costui un antagonista pronunziatissimo dell’abate piemontese, e cercò d’insinuare nel suo discorso che il Gioberti era mandato in giro da Carlo Alberto in Italia per fargli un partito nel senso di divenire dominatore e re della penisola italiana.10

Cadeva lo stesso giorno 10 di giugno dopo una ostinata difesa la città di Vicenza custodita dai nostri dodici o tredici mila combattenti, parte composti di truppe regolari e parte di volontari, i quali cedevano dopo aver pugnato coraggiosamente contro un numero di assalitori due o tre volte maggiore. Il colonnello della prima legione romana, Natale Del Grande, vi perdette la vita, e i prodi difensori ottennero una onorevole capitolazione. Con ciò i capi austriaci resero ai Romani un omaggio non tanto pel nome che portavano, quanto per aver saputo rendersene degni.

I Romani abbandonarono Vicenza il giorno 11 con tutti gli onori militari e promisero per tre mesi di non combattere contro l’Austria.

[p. 364 modifica]Perdettero gli Austriaci seicentosettantadue uomini in quella fazione, fra i quali il generale principe Thurn e Taxis, tre colonnelli e un capitano. Il rapporto del general Durando su quel fatto non si conobbe in Roma che il giorno 15.

Ma di questo avvenimento glorioso per le armi italiane, ma che riuscì fatale per la causa d’Italia, avendone parlato abbastanza la storia, ci sentiamo dispensati dal darne le particolarità che possono rinvenirsi nelle opere da noi citate a piè di pagina.11

È impossibile di descrivere lo sbigottimento e il dispiacere profondo che produsse in Roma tale inaspettato avvenimento. Inaspettato diciamo perchè la resistenza di Vicenza nel maggio teneva in liete speranze che i suoi difensori potessero durare a qualunque successivo attacco.

La morte di Del Grande sopra tutto fu sentita profondamente perchè era uomo popolare ed universalmente conosciuto ed amato.

Lo stesso Gioberti che trovavasi in Ancona quando ne giunse l’annunzio, diresse lettera di condoglianza agli Anconitani e d’incoraggiamento a non lasciarsi abbattere ma a perseverare nella concordia e nel valore.

In detta lettera12 sono notevoli le seguenti parole in coerenza sempre alle idee che aveva insinuato negli altri suoi scritti: «Difendo la monarchia legale, perchè questa forma di governo mi pare la sola atta a rendere l’Italia una, libera e potente. Difendo il trono di Carlo Alberto, perchè in lui e nella sua stirpe s’incarna il principato [p. 365 modifica]guerriero della penisola. La repubblica non è che una astrazione, bella, ma priva di sussistenza: Carlo Alberto e il suo esercito sono la realtà.»

Riavutisi i Romani dallo sgomento, e rincorati dai molti elogi che da ogni parte giungevano sull’eroismo della difesa di Vicenza, venne pubblicato il 25 un ordine del giorno dal ministro delle armi principe Doria ai soldati ch’erano stati a presidio in quella città, affine di lodarli per la gloriosa difesa della medesima ed eccitarli a non deporro le armi infino a che l’Italia non fosse redenta, e la morte dei loro compagni vendicata. 13

Ma quantunque il disastro di Vicenza, veduta la cosa dal lato dell’onore e del valore militare, desse una certa compiacenza non disgiunta da orgoglio, pure non lasciava di essere una sventura ed una ferita mortale alla causa italiana, imperocchè mancato il soccorso de’ Napoletani, retroceduti e sconfitti i Toscani, tutte le speranze riconcentravansi nell’armata del general Durando. Ora se ancor questa in seguito della capitolazione di Vicenza dovea ritirarsi, andava a ricadere, siccome ricadde, tutta la Venezia sotto la dominazione degli Austriaci.

Era stato in quel frattempo chiamato in Roma il general Ferrari per dare schiarimenti sulla condizione dell’esercito nel Veneto lasciando perciò senza il lor comandante supremo le guarnigioni di Padova e di Treviso, 14 le quali subito dopo cederono; cosicchè per la capitolazione di Vicenza l’esercito pontificio parte si ritrasse in Venezia e parte ritornò a casa. L’armata rimasta nel Veneto era sotto gli ordini dei generali Pepe, Antonini e Ferrari.

Un nuovo attacco su Verona per parte di Carlo Alberto era andato fallito. Udine cadde sotto il comando del generale Nugent, ed il 21 giugno capitolò Palmanova ch’era retta dal general Zucchi. Meno dunque la città di Venezia [p. 366 modifica]e la piccola fortezza di Osopo, tutto il territorio di Venezia era sul finir di giugno tornato in potere degli Austriaci.15

Se in quel tempo riuscì lieto per Carlo Alberto l’atto di fusione ch’ebbe luogo il giorno 11, della Lombardia col Piemonte, il quale, non ostante gli sforzi del Mazzini per impedirlo, gli fu presentato colle sottoscrizioni dei membri di quel governo provvisorio, egli ebbe però a l’rattristarsi per lo stato d’isolamento in cui era posto, e che obbligavalo di sostener solo il pondo tutto dell’oste nemica.16

Questo rovinio di fortuna intanto inaspriva ed esacerbava gli animi, e porgeva esca al fuoco distruggitore che ardeva negl’italici petti.

In Roma poi, ch’era divenuta ancor essa una fucina ardente, i discorsi eran vaghi, confusi, irosi, acerbi: e chi contro Carlo Alberto metteva fuori la bile, dii accagionava la sua smodata ambizione siccome causa dei patiti rovesci, quasi che volesse ingemmare la sua corona a prezzo d’italiche sventure; nè mancava chi già incominciava a parlare della necessità di sostituir la guerra dei popoli alla guerra regia.

Altri poi querelavansi dei repubblicani che sotto il Pepe e il Ferrari combattevano, ed a cui erano in uggia gli Albertisti e la lancia spezzata di quel partito ch’era il generale Durando il quale, quasi volesse sacrificarli, veniva accagionato di averli abbondonati negli estremi cimenti. Lo stesso Durando difatti bersagliato dalle accuse e dalle contumelie, e fatto segno all’invidia ed alla calunnia, trovò in Bologna chi ne prese le difese con uno scritto intitolato:» Almeno due parole di verità;»17 ed egli stesso trovossi costretto di giustificare la sua condotta con uno scritto che pubblicò in Roma e che porta per titolo: «Schiarimenti sulla [p. 367 modifica]condotta del general Durando comandante le truppe pontificie nel Veneto scritti da lui medesimo e dedicati ai prodi di Vicenza18 Ma non basta. Esecravansi perfino da molti il Balbo, il Gioberti, il d’Azeglio, e tutti quelli della così detta parte mezzana quantunque fossero stati i promotori dell’italico risorgimento.

Nè si creda già che questi sdegni fossero originariamente romani. Eran le prime rampe di quel fuoco repubblicano che covava sotto la cenere e che veniva eccitato dallo Sterbini, dal Canino, dal Masi, dal Dall'Ongaro ed altrettali, nemici giurati del nome sabaudo sol perchè volevano che la repubblica romana potesse assidersi sulle rovine del piemontismo in Italia, e servire di centro ad una repubblica italiana.

Del re di Napoli poi diremo soltanto che quanto il dizionario della nostra bella lingua italiana somministrava di epiteti per biasimare e vilipendere l’altrui condotta, tutto contro di lui acerbamente riversavasi. Re bomba, o re bombardatore era l’epiteto per eccellenza, cui accodavansi quelli di tiranno, spergiuro, fedifrago, traditore ed infame. E sotto questi auspici di disprezzo, maldicenza ed ignominiosa calunnia, i quali sono dissolventi della umana società, pretendevasi di fondare il regno dell’Italia una, libera, indipendente..

Giunse a tal punto la maldicenza giornalistica, che la stessa Gazzetta di Roma scritta sotto gl’influssi del Mamiani, disapprovava il linguaggio contro il re di Napoli.19

Intanto quella peste ch’è stata sempre il flagello degli Italiani, il municipalismo, e le discordie intestine venivano estollendo arditamente il capo e preparavano al comun nemico quel trionfo cui il sospetto e la maldicenza tracciavano la via.

Con simili preliminari quale interesse poteva prendersi per gli atti e le discussioni del romano parlamento? [p. 368 modifica]Desiderosi di averlo quando se ne era privi, avutolo, pochisssimi se ne interessavano, a tal punto che in una riunione di collegi elettorali tenutasi il 13 giugno, v’intervennero soltanto ventisei votanti.20

Volendo ora discorrere delle altre cose occorse nel mese ’ di giugno in Roma, che pure crediamo meritevoli di ricordanza, rammenteremo come il 6 del detto mese pubblicaronsi nella Gazzetta di Roma l’ordinanza del ministro delle finanze Lunati, non che gli elenchi relativi ai beni dei luoghi pii assegnati in garanzia dei due milioni e mezzo di boni del tesoro in virtù del chirografo pontificio del 19 di maggio.21

Questa misura fu applaudita perchè riconosciuta giusta e necessaria: essendochè mentre col chirografo di sopra memorato si dava un accenno generico dei detti beni, il pubblico ch’era invitato a ricevere in pagamento i boni del tesoro, a garanzia dei quali erano ipotecati, era in diritto di conoscerne specialmente la denominazione, l’ubicazione ed il valore relativo; e così veniva a sparire qualunque difficoltà nella circolazione. Ed in seguito di ciò fu rilasciata la prima serie per l’ammontare di duecentocinquanta mila scudi, la quale ebbe un facile smaltimento.22

La estirpazione poi degli abusi essendo tal cosa che alla quasi universalità dei cittadini andava a grado, fece accogliere con favore una circolare del ministro Mamiani del 12 giugno colla quale richiedevasi il novero di tutti gl’impiegati i quali adempivano a più di un ufficio governativo. Ciò per altro era in coerenza del capitolo VI, art. 94 del motu-proprio del 30 decembre 1847 sul Consiglio dei ministri, ove si dispone: che niuno possa coprire diversi impieghi governativi, ed avendoli sia astretto all’oziane.

Egli è come tutti sanno cosa importantissima negli stati costituzionali la verificazione delle nomine dei [p. 369 modifica]deputati. Il Consiglio dei medesimi impertanto seguì nella verificazione dei mandati il metodo più breve, tenendo per valide quelle nomine contro alle quali non era alcun richiamo. Si adottò questo temperamento per brevità, e senza che l’esempio dato dal Consiglio potesse formar legge per l’epoca futura. Può leggersi su di ciò un articolo importante nella nostra gazzetta.23

Il giorno 15 si ebbero due atti del ministro di polizia Galletti. Coi primo in forma di circolare ai presidi regionari si davano disposizioni sui precettati. Era il secondo un proclama ai carabinieri per annunziare ad essi che tanti di loro sarebbero spediti alla guerra per quanti ne ritornerebbero dal campo di quelli che avendo capitolato, non potevan battersi per tre mesi.24

Nella tornata del Consiglio dei deputati del 15 venne dal presidente Sereni fatta la mozione di eleggere una deputazione allo effetto di presentare al Sommo Pontefice le affettuose gratulazioni della Camera in occasione dell’anniversario della fausta sua esaltazione al pontificato. Assentiron tutti coll’alzarsi in piedi, ed applaudendo. 25

Giunto però il giorno 17, che nell’anno antecedente avea provocato la più grande dimostrazione che mai siasi veduta in Roma, tutto si restrinse allo sparo del cannone che annunziò il secondo anniversario della elezione del pontefice, e dopo la cappella papale, alle gratulazioni di forma e di rubrica per parte del sacro collegio, de’ prelati, dei funzionar! pubblici ec.

Tranne ciò non troviamo traccia veruna nel giornalismo, di alcuna dimostrazione popolare. La sola Pallade parla di una dimostrazione alla sera sul Quirinale.26 Il Farini però ne dà un cenno dicendo che: Roma volle far testimonianza di grato animo con una delle solite processioni popolari [p. 370 modifica]al Quirinale. Fu poco numerosa, poco lieta: e fu l’ultima.27 E dev’essere stata cosa di ben lieve momento, perchè non se ne fece menzione in Roma.

E pure nell’anno antecedente quando si fece la grande dimostrazione, il Santo Padre non aveva accordato ancora nè la civica nè il municipio nè lo statuto nè il ministero laicale nè l’oppignoramelo dei beni ecclesiastici. Strana contradizione degli uomini! Fare maggiori feste quando eransi ottenute minori concessioni; non farne o farle languide quando si era ottenuto al di là di quello che si poteva desiderare! Noi narriamo il fatto: i commenti ai lettori.

Lo stesso giorno il Santo Padre nominò altri membri dell’Alto Consiglio, e furono i seguenti:


Professor cavaliere Giovanni Battista Magistrini
» Giuseppe de Mattheis
» Maurizio Brighenti
Monsignor Tommaso Gnoli
Conte Luigi Donini
Cavaliere Ottavio Sgariglia del Monte
Conte Edoardo Fabbri
Conte Francesco Lovatelli
Principe don Cosimo Conti
Marchese Carlo Bevilacqua
Principe don Clemente Spada
Cavaliere Angelo Maria Ricci
Conte Cesare Bianchetti
Monsignor Domenico Consolini
Conte Annibale Ranuzzi
Marchese Antonio Cavalli.


Ed in seguito della dimissione dei membri dell’Alto Consiglio: [p. 371 modifica]

Avvocato Marcantonio Ridolfi
Monsignor Ignazio Alberghini e
Michele Adriani,


Sua Santità nominò per surrogarli:

Monsignor Francesco Pentini
Avvocato Luigi Ciofi
Avvocato Luigi Santucci. 28

La tiepida dimostrazione al pontefice del giorno 17 trovò una facile spiegazione nella contrarietà ogni giorno più manifesta del medesimo verso i ministri Mamiani e Marchetti, della cui rinunzia e specialmente di quella del primo, fortemente temevasi. E siccome il Mamiani aveva un partito potente nella borghesia, amante di novità, nella scolaresca e in tutti coloro cui andava a sangue l’abbassamento della chieresia, così tutti quelli che gli eran devoti, non solo si astennero dal festeggiare il pontefice, ma adoperaronsi attivamente affinchè altri noi facesse. Che anzi per dimostrare al Mamiani le lor simpatie, organizzarono per la sera del 19 una delle solite ragunate di piazza con torce, stemmi, iscrizioni, cui si unirono anche i circoli e buona parte della guardia civica. 29

Sembrò a molti cosa irregolare non solo ma esorbitante quel continuo avversare l’autorità nell’esercizio di quelle prerogative che competevanle. Imperocchè la presenza della civica in dimostrazioni siffatte vale quanto forzar la mano al potere, e forzar la mano anche in quelle cose ch’erasi riservate, equivaleva a volersi prendere tutto per se e lasciare un bel nulla al sovrano.

Egli è cosa ovvia negli stati costituzionali di subire le crisi ministeriali senza dar luogo a simili dimostrazioni.

[p. 372 modifica]Che seppure talvolta le simpatie o antipatie de’ partiti han provocato qualche perturbazione popolaresca, mai i corpi armati non vi si son veduti frammisti; e quando ciò pure fosse accaduto (come accadde talvolta in Ispagna e in Francia nei tempi moderni), perduto il carattere di dimdstrazione pacifica, avrebbe assunto quello di politico rivolgimento.

Queste verità inconcusse eran così poco sentite dai nostri civici, che molti di essi, meno per mai volere che per inesperienza, preser parte alla dimostrazione in favore del Mamiani. In questo argomento basti per ora, perchè dovrem ritornarci nel mese successivo.

Proseguiva intanto quell’aspra guerra a parole di cui parlammo, fra la Pallade e il Labaro. Rivoluzionario il primo, progressista cattolico il secondo giornale. Il delitto del Labaro cui burlescamente piacevansi di chiamare Don Labaro, era quello di avere assunto le difese del cardinalato nella questione del ministero degli affari esteri secolari. E come il corpo dei cardinali sopratutto era in uggia ai liberali, sfogavansi questi da quando a quando per far comprendere le loro antipatie, col gridare: viva Pio IX solo.

Ed è a rammentarsi essere giunta a tale punto cotesta disistima o avversione, che come già dicemmo, lo stesso padre Ventura quantunque pronunziatissimo promotore dell’italico risorgimento, cadde in disgrazia ai liberali per avere nel marzo, quando elaboravasi lo statuto, divulgato per le stampe un suo scritto ove sosteneva che i cardinali costituivano di diritto e di ragione la Camera dei pari.30

Se dunque nel marzo, a cose meno scomposte ed in tempo in cui gli umori non avevan fermentato, come fermentarono dopo la famosa allocuzione, era già un delitto imperdonabile il parlare di cardinali, quanto maggiore non doveva essere nel giugno questa antipatia, perciocchè alla ìoró influenza si attribuiva in parte quell’atto? Poche [p. 373 modifica] parole che trascriviamo qui sotto potranno dare un’idea degli umori che fervevano contro il corpo cardinalizio., Eccole:

«Per ora non è ad ammalarsi, se non abbiamo un cardinale alla testa della politica straniera: il mondo non cadrà per questo, ne siamo sicuri. Sta a vedere che la repubblica di Francia, di Svizzera e di Venezia si terranno adontate per non aver da fare con un cardinale!

»Eh don Labaro mio, passò stagione, in cui una parrucca, un codino, una lunga zimarra ec. erano argomento gravissimo di sapienza e di autorità. Oggi valgono i fatti, non le apparenze, le virtù, non,le divise, l’ingegno, e non i titoli. Il mondo non si pasce più d’illusioni e di fantasmagorie: egli cerca la realtà, gli uomini, e non i nomi.

Non vi è più necessità di alture e di eminenze: la politica moderna sta meglio nella piazza che nella corte; perciocchè l’operosità dei popoli è subentrata al mistero della diplomazia, e tuttociò che un giorno si teneva per opera di oracolo, oggi dee riputarsi opera della ragione, della giustizia e della verità.31

Queste parole stampavansi in Roma, e il giornale che le stampava non era di quei che leggonsi nelle adunanze, negli offici e dagli uomini di alto affare, no: era un giornaletto umoristico per il popolo, che moltissimi non solamente leggevano stante la modicità del prezzo, ma che si faceva leggere gratis al popolo romano, per uso del quale affiggevasi in sulle pubbliche vie. Abbiamo creduto di memorare questa circostanza essenzialissima per ispiegare i mezzi di cui servironsi a pervertire anche la bassa popolazione, ed i motivi pei quali non solo si mostrò più tardi indifferente, ma dispregiatrice ed ostile verso l’autorità cardinalizia.

Dobbiamo ora rammentare altro episodio storico. Il Labaro del 19 ci dette per intiero la risposta dell’ [p. 374 modifica]imperatore d’Austria alla lettera del Santo Padre del 3 maggio, dicendo di averla estratta della Gazzetta di Augusta. Essa era espressa nel modo seguente:


«Beatitudine,

»Quanto fosse al mio cuore di consolazione il sentir proferire dalla bocca di Vostra Santità il desiderio di pace, che ad ogni buon sovrano preme, qual base primaria per la felicità dèi popoli fedeli al loro sovrano, non so bastantemente esprimere; ma purtroppo una gran parte di questi si sono allontanati dal retto sentiere per ragione di una propaganda rivoluzionaria incendiaria, la quale ad altro non rifugge che alla distruzione dell’ordine sociale, coll’ingrandirsi, incolpando essere la cagione i regnanti. La libertà della stampa accrebbe la loro audacia; che per lo contrario questa concessa, si sperava un migliore avvenire; ma non fu così. Provocato, e non provocatore concessi alla fine una larga costituzione al mio regno lombardo-veneto, che non fu accettata per mene di un ambizioso che da noi, e nostri alleati fu rimesso in trono. Ora costui ricompensa col farmi la guerra, decantando la indipendenza italiana, ed infierisce i popoli contro la nazione germanica ad un odio implacabile, dichiarandola orde infami e barbare.

»Beatissimo padre! Chi fu che nel 1815 rimise in trono Pio VII, se non l’Austria? Chi alla venuta del re Gioacchino Murat salvò la Santa Sede? Chi nel 1831 sedò l’altra rivoluzione, in cui il Papa fu dichiarato decaduto di fatto e di diritto, se non l’Austria? Chi ad altre mene rivoluzionarie in ogni tempo era pronto a salvare il pontefice, se non l’Austria?

Duolmi pertanto il cuore di vedere al giorno di oggi parte dei sudditi pontifici, toscani e napolitani armati contro me, per privarmi de’ miei stati in Italia, che col sangue de’ miei popoli acquistai, e con un trattato solenne, [p. 375 modifica]e che oggi mi si voglion togliere non so per qual ragione. Conosco che alcuni dei nominati sovrani hanno dovuto concedere non per impulso di loro volontà, ma forzati dalle esigenze popolari rivoluzionarie, e che ora questi potentati sono divenuti i servitori per servire i piani non ancora intieramente conosciuti di questi settari.

»Saprà Ferdinando ancora mantenere con ogni possa la religione cattolica, e non deporrà la spada finchè un solo superstite della imperiale famiglia esista, volendo, e dichiarando di non cedere un palmo de1 suoi stati a lui appartenenti sino agli estremi mezzi di difesa, pronto però alla pace, ed a concedere a’ suoi popoli un’ampia costituzione ed un perdono generale. Voglia Iddio illuminare quelli i quali, si sono allontanati dal retto sentiero, ed invocando ec. 32

Il 23 di giugno fu smentita l’autenticità della detta lettera, leggendosi nella Gazzetta di Roma quanto segue:


«Parte officiale.


»La Santità di Nostro Signore Pio IX non ha certamente ricevuta la lettera, che si dice a lui scritta da Sua Maestà l’imperator d’Austria, e che è stata primamente pubblicata dalla Gazzetta d’Augusta, poi in Roma.»33

Questa dichiarazione la quale per essere inclusa nella parte ufficiale ci persuade essere stata fatta inserire dal papa medesimo, c’imporrebbe il dovere di non parlarne. Però col riportare noi tanto la lettera, quanto la smentita adempiamo al dovere di cronisti, poichè questi due fatti sussistono entrambi. Aggiungeremo di più. Sia pure verissimo che il 23 di giugno il Santo Padre non avesse ancor ricevuto la risposta; ciò non escluderebbe che l’avesse avuta qualche giorno dopo, precisamente come accadde [p. 376 modifica]della lettera del papa all’imperatore, che prima la pubblicarono i giornali e poi ebbe il suo corso regolare.

Eran queste tali cose che in quei tempi occorrevano: e giova pur rammentare che entrambi i governi pontificio ed austriaco versavano in condizioni identiche, ma l’austriaco forse anche peggiori, perchè l’imperatore e tutta la sua corte aveano riparato ad Innspruck, mentre quei di Roma occupava tuttavia il suo seggio al Quirinale.

Venendo ora a parlare del Consiglio dei deputati, diremo che la seduta che si tenne il giorno 27 fu notevole per la discussione apertasi sull’indirizzo del Consiglio stesso in risposta a quello del Santo Padre, che modernamente direbbesi della corona.

Il deputato Orioli propose il suo ammendamento pregiudiziale. Incontrò opposizione nel Mayer, il quale accusò l’Orioli d’insinuare sospetti di disaccordo, che secondo la sua opinione, non esisteva affatto. Trattò in somma l’Orioli da maldicente. Sforzato l’Orioli a discolparsi, prese la parola, e proruppe in questa sentenza:

» E bene. Io toglierò questi veli dal primo sino all’ultimo, e parlerò francamente come non avrei voluto, innanzi ai signori ministri che rappresentano il governo, che rappresentano il potere esecutivo. Essi hanno iniziato fra noi una politica di separazione

Pronunziò allora il discorso che può leggersi in sommario; ciò non ostante il suo emendamento venne rigettato.34

Si lesse il detto giorno nel giornale officiale che il Santo Padre non accettava la rinunzia di monsignor Muzzarelli presidente dell’Alto Consiglio. Detta rinunzia si disse provocata da un acerbo rimprovero fattogli dal Santo Padre, qualificandolo da cervello poco men che balzano. Ripetiamo si disse.35

[p. 377 modifica]Il giorno 30 venne emessa dal ministro Mamiani una circolare per mantenere la concordia e il coraggio nelle popolazioni, ove il disastro di Vicenza lo avesse affievolito.36

Chiuse il mese di giugno coll’annunzio dell’incominciamento dei torbidi in Parigi, i quali convertironsi poscia nella terribile insurrezione nel senso prettamente socialistico che costò tanto sangue, e che prima di essere spenta parve volesse far ritornare gl’infelici giorni del 1793. Essa incominciò il giorno 23, e fu soffocata completamente il 26. Pur troppo, ove non fosse stata repressa in tempo, addio ordine, addio proprietà, addio civiltà. E così da quella nazione stessa la quale vantavasi di aver portato fino all’ultimo grado l’umano incivilimento, ci sarebbe venuta la barbarie e il terrore che sarebbonsi assidi per qualche tempo sopra i seggi beati e mai sempre desiderabili delta pace e della civiltà. 37





Note

  1. Vedi la Gazzetta di Roma del 5 giugno 1848, pag. 406.
  2. Vedi la Gazzetta di Roma del 5 giugno 1848, pag. 406. — Vedi l’Epoca di detto giorno, pag. 265. — Vedi il Farini, vol. II, pag. 166.
  3. Vedi il cap. IX, vol. II, della storia del Farini, ove si dà un minuto ragguaglio dei fatti.
  4. Vedi la Gazzetta di Roma del 9 giugno 1848. — Vedi i Documenti del vol. VI, n. 18 e 20.
  5. «Possiamo assicurare che nell’indirizzo del ministero presentato a Sua Santità in occasione della sua lettera all’imperatore d’Austria non fu apposta la sottoscrizione dell’eminentissimo Orioli allora presidente del Consiglio, nè gliene fu tampoco comunicato il contenuto.»
  6. Vedi il Labaro del 9 giugno 1848.
  7. Vedi il Labaro n. 44, 45, 49, 54. — Vedi l'Epoca n. 72, 79, 85. — Vedi la Speranza n. 93.
  8. Vedi la Gazzetta di Roma del 10 giugno 1848.
  9. Vedi il Sommario al n. 23. — Vedilo pure nel VI vol. Documenti n. 21.
  10. Vedi il VI vol. Documenti, n. 10.
  11. Vedi Storia delle guerre d’Italia dal 18 marzo 1848 al 28 agosto 1849, vol. I, pag. 101. — Vedi Memorie della guerra d’Italia degli anni 1848-1849 di un Veterano austriaco, vol. II, da pag. 43 a pag. 52.— Vedi Ranalli, vol. II, pag. 421. — Vedi Stefani, Le tre giornate di Vicenza 20, 21, 24 maggio e la sua gloriosa sventura 10 giugno 1848, nel vol. 26 Miscellanee n. 8. — Vedi il VI vol. dei Documenti della mia raccolta n. 23, 24, 25, 26, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 35 e 36.
  12. Vedila nel VI vol. Documenti, n. 11.
  13. Vedi la Gazzetta di Roma del 26 giugno 1848, n. 118.
  14. Treviso cadde il 14. — Vedi la Gazzetta di Roma del 23, pag. 470, e Documenti n. 48.
  15. Vedi Memorie ec. di un Veterano austriaco, vol. II, pag. 69. — Vedi Ranalli, vol. II, pag. 425.
  16. Vedi la Gazzetta di Roma del 17 e 21 giugno, pag. 456 e 466. — Vedi Memorie ec. di un Veterano austriaco, vol. II, pag. 59.
  17. Vedilo nel VI vol. Documenti, n. 60.
  18. Roma 1 agosto 1848, volumetto in-8 di 60 pagine — Vedilo nel vol. IV delle Miscellanee, n. 18.
  19. Vedi la Gazzetta di Roma dell’8 giugno 1848, pag. 417.
  20. Vedi la Speranza del 14 giugno 1848.
  21. Vedi la Gazzetta di Roma del 6 detto.
  22. Vedi oltre la Gazzetta di Roma del 6 giugno, il vol. I Motu-propri n. 57 A.
  23. Vedi la Gazzetta di Roma del 14 giugno 1848.
  24. Vedi la Gazzetta di Roma del 16. — Vedi il vol. VI Documenti, n. 38.
  25. Vedi la Gazzetta di Roma del 15 giugno 1843.
  26. Vedi la Pallade del 19.
  27. Vedi Farini, vol. II, pag. 200.
  28. Vedi la Gazzetta di Roma del 17 giugno 1848.
  29. Vedi la Speranza del 20 detto. — Vedi la Pallade di detto giorno.
  30. Vedi padre Ventura, Sopra una camera di pari nello stato pontificio, Roma, Zampi, in-12. nel Voi. IX, n. 8 delle Miscellanee.
  31. Vedi la Pallade del 21 giugno 1848, n. 275
  32. Vedi il Labaro del 19 giugno 1848.
  33. Vedi la Gazzetta di Roma del 23 giugno 1848.
  34. Vedi il Sommario n. 24. — Vedi il Supplemento della Gazzetta di Roma del 27 giugno, n. 119.
  35. Vedi la detta Gazzetta del 27 giugno.
  36. Vedi la Gazzetta di Roma del 30 giugno.
  37. Vedi la Gazzetta di Roma del 30 giugno 1848.