Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XIII. L'Orlando furioso
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XIII
L’«ORLANDO FURIOSO»
[Versi latini e rime italiane dell’Ariosto: imitazioni e giuochi letterari — L’imitazione latina e le commedie dell’Ariosto. Inferioritá di esse rispetto ad altre commedie del Cinquecento — Qualche bel tratto sparso — Vita e indole dell’Ariosto — Comicitá nell’una e nell’altra, espressa nelle Satire — Valore artistico delle Satire — Abbassamento della terzina a metro comico — Genesi dell’Orlando. Serietá con cui fu concepito e lavorato — Ma serietá derivante dal puro sentimento dell’arte — Contrasto tra l’Ariosto e Dante — Il mondo cavalleresco nel Rinascimento e in Italia: mondo senza serietá, di mera immaginazione: ideale della cortesia — Mancanza di unitá e di ordine nel poema ariostesco, come vera unitá e vero ordine — Tela dell’Orlando — Libertá e individualitá della vita cavalleresca: spirito d’avventura e capricci di passione — Il soprannaturale come macchinario — Naturalezza che l’Ariosto dá a questo suo mondo — Perfezione della rappresentazione e finitezza della forma — La «chiarezza omerica», la semplicitá o la «divinitá» dell’Ariosto — Assenza in lui di maniera — La storia della «rosa» nel Poliziano e nell’Ariosto — Aspetto di sogno che serba il suo poema — Emozioni subitanee e fugaci, senza scosse profonde e senza strazio — Brandimarte e Fiordiligi, Zerbino e Isabella — Le comparazioni: loro ufficio — Le descrizioni degli spettacoli naturali, senza sentimento della natura — Le riflessioni e sentenze — Ancora l’Ariosto e Dante — Leggerezza apparente della nuova letteratura, di cui l’Orlando è il capolavoro — Ma sotto quell’apparenza c’è lo spirito negativo e dissolvente, lo spirito del Boccaccio: il comico — Il riso dell’Ariosto — L’ironia: Orlando, Astolfo, Angelica ecc., e le loro avventure: la discordia dei cavalieri — La rozzezza di Rodomonte e la virtú di Ruggiero: inferioritá di Ruggiero — Fantasie infantili descritte col risolino di un secolo adulto — Tra il serio e il ridicolo — L’Ariosto e il Cervantes — L’Orlando, per arte, l’opera piú perfetta della immaginazione italiana: per l’ironia del suo contenuto, colonna luminosa nella storia dello spirito umano.]
Ludovico nacque nello stesso anno che Michelangiolo, il 1474. Machiavelli, Berni, Bembo, Guicciardini, Folengo, Aretino, i principali personaggi di questa etá letteraria, nacquero in questo scorcio del secolo, a poca distanza di anni: il Machiavelli nel sessantanove, il Bembo nel settanta, il Guicciardini nell’ottantadue, e nel novantaquattro il Folengo, e nel novantadue Pietro Aretino.
Nel novantotto, proprio l’anno che il Machiavelli era eletto segretario del comune fiorentino, Ludovico scrivea in prosa le sue due prime commedie. L’uno attendeva alle gravi faccende dello Stato, e ne’ suoi viaggi in Italia e in Europa attingeva quella scienza dell’uomo e quella pratica del mondo, che dovea fare di lui la coscienza e il pensiero del secolo; l’altro faceva il letterato in corte, e scrivea sonetti, canzoni, elegie, capitoli, commedie, tutto nel mondo della sua immaginazione.
Aveva allora ventisei anni. Cinque ne aveva sciupati intorno alle leggi; finché, avuta dal padre licenza, si mise con ardore allo studio delle lettere, e, tutto pieno il capo di Virgilio, Orazio, Petrarca, Plauto, Terenzio, cominciò a far versi latini e italiani, come tutti facevano: elegie, canzoni, odi, epigrammi, madrigali, sonetti, epistole, epitalami, carmi.
Nel novantaquattro, quando Carlo ottavo scendeva in Italia, il giovane Ludovico scrive un’ode oraziana a Filiroe, nome ch’egli appicca ad una contadinella. Carlo minaccia
asperi |
E il giovane, sdraiato sull’erba e con gli occhi alla sua Filiroe, scrive:
Rursus quid hostis prospiciat sibi, |
Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris, |
E scrive De puella, De Lydia, nome oraziano di una sua amata di Reggio, De Iulia, una cantante, De Glycere et Lycori, De Megilla, e fino De catella puellae, imitazione felice di Catullo. Luigi decimosecondo conquista il ducato di Milano, chiamatovi da Alessandro sesto; e che importa
si furor, Alpibus |
Che importa servire a re gallo o latino,
si sit idem hinc atque hinc non leve servitium? |
Tutti barbari e tutti tristi. E il giovane, esclamando «improba sedi conditio!» e lamentando «clades et Latii interitum»,
nuper ab occiduis illatum gentibus, olim |
svolge l’occhio dallo spettacolo e cerca un asilo in Orazio e Catullo. L’anno appresso, alla calata di Carlo ottavo, l’Ariosto recita l’orazione inaugurale degli studi nel duomo di Ferrara, De laudibus philosophiae, e poi la reca in esametri. Scrivea pure sonetti, canzoni, elegie, dove si sente lo studio del Petrarca. Nel novantatré, a diciannove anni, scrive un’elegia per la morte di Leonora d’Aragona, moglie del duca di Ferrara. Nell’introduzione si scopre ancora lo studente e il dilettante:
Rime disposte a lamentarvi sempre, |
I suoi amori in italiano sono platonici, alla petrarchesca; in latino sono sensuali, all’oraziana. In latino tiene Megilla tra le braccia, e non può credere a’ suoi occhi, e dice:
An haec vera Megilla, |
Ma in italiano Megilla è «l’alta beltade», che «col suo beato lume illustra e imbianca l’occaso»; e l’amante è «nel dir lento e restio», e non descrive, perché «chi descriver puote a pieno il sole»?
Non è valor uman che tanto ascenda. |
Se avesse potuto apprendere il greco, Anacreonte o Teocrito gli avrebbe instillata nell’immaginazione un’altra fraseologia: perché tutto questo è un gioco di frasi. Ma, tutto dietro al latino, non pensò per allora al greco:
Ché ’l saper nella lingua degli achei |
Morí il padre ch’egli aveva soli ventott’anni, e lo lasciò tra sorelle e piccoli fratelli capo della casa: cosí dové mutare Omero nel libro de’ conti:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero |
Né poté avere piú agio e modo d’intendere «nella propria lingua dell’autore» ciò che Ulisse sofferse a Troia e poi nel lungo errore, e ciò che scrisse Euripide, Pindaro e gli altri, a cui le muse argive «donar sí dolci lingue e sí faconde»; perché, venuto in corte, fu mandato qua e lá, oppresso dal giogo del cardinale d’Este:
E di poeta cavallar mi feo: |
Fra questi studi e imitazioni uscí la Cassaria, una commedia in prosa, scritta con tutte le regole della commedia plautina, e che parve un miracolo a Ferrara, appunto perché vedevano in italiano quello che erano usi ad ammirare in latino. Ai misteri e alle farse succedea la commedia e la tragedia, con tutte le regole dell’arte poetica e con le forme di Plauto e Terenzio. E non solo s’imitava quel meccanismo, ma si riproducea lo stesso mondo comico: servi, parasiti, cortigiane, padri avari e figli scapestrati. Il giovane autore, a quel modo che trasforma le sue contadine in Filli e Licori, vive tutto in quel mondo di Plauto, e nel suo lavoro d’imitazione perde di vista la societá in mezzo a cui si trova. La sua commedia è una ricostruzione, non è una creazione; e, intento al meccanismo, si lascia fuggire le piú belle situazioni e contrasti comici. Nel Bibbiena e nel Lasca ci è una certa vita che viene dal Decamerone, non so che licenzioso e buffonesco, conforme allo spirito comico, quale s’era sviluppato a Firenze e si sentiva nel Lasca e nel Berni, segretario del Bibbiena. Ma l’Ariosto vive fuori di questo ambiente e in un mondo tutto di erudizione, e, quando vuol essere faceto, ti riesce grossolano. Oltreché, essendo quello un mondo di accatto e con caratteri giá dati, ci sta a disagio, e non ci si abbandona, e non se lo assimila. Un effetto comico ci è; ed è ne’ viluppi, negl’intrighi, negli equivoci, prodotti dal caso o dalla malizia, in un imbroglio drammatico che spesso stanca l’attenzione. Ma l’intrigo non basta a sostenere l’interesse, quando i caratteri non sieno bene sviluppati e l’intrigo non si trasformi in situazione comica. Trappola, Volpino, Nebbia, Erofilo, Lucrano sono esseri insignificanti, né dall’intreccio esce alcuna scena fondamentale, dove si raccolga l’interesse. Piú tardi scrisse altre commedie, intestatosi a farle in versi sdruccioli per rendere l’imitazione latina perfetta, parendogli che quel metro rispondesse a capello al giambo. Né in questa forma sgraziata, che vuol essere poesia e non è prosa, gli riesce meglio la commedia, ancorché il soggetto alcuna volta potesse convenire a quella societá, come è il Negromante. Sbagliata la via, non si raddrizza piú. Un negromante o astrologo, che fa mestiere di sua arte e con sue bugie cava quattrini da’ gonzi, è un argomento popolarissimo e trattato allora da tutt’i novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il frate, come il prete di Varlungo o frate Cipolla: allora la parte di scroccone e giuntatore era rappresentata dall’astrologo. Il nome era mutato: il motivo comico era lo stesso. Ricordiamoci con che brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella. Ci si sente la tradizione e la malizia del Boccaccio e l’ambiente di Firenze, dove lo speziale arguto continua il Sacchetti, il Pulci, il Magnifico. Ma nel Negromante ariostesco senti la societá latina, dove il servo è piú astuto del padrone, rappresentata da chi non vi sta in mezzo e non l’intende, e la studia su’ libri. Cintio, Camillo, Massimo sono mummie piú che uomini, preda facile de’ birboni che ci vivono intorno. Sono essi non il principale, ma il fondo del quadro, la vile moltitudine sulla quale si esercita la malizia de’ servi e degli avventurieri. Concetto profondo, se l’Ariosto l’avesse trovato lui e ne avesse cavato un mondo comico. Ma ci sta a pigione e senza alcun senso, come se fosse cosa naturalissima questo mondo còlto al rovescio, sí che i servitori ne sappiano piú dei padroni e diventino i loro tutori e salvatori, come Fozio e Temolo, che scoprono e sventano le malizie del negromante. Costui, che è il protagonista, non è proprio un astrologo com’è nel Lasca, e come il prete è prete nel Boccaccio; ma è un birbone matricolato, che fa l’astrologo senza crederci punto. Nel Lasca la materia comica è cavata dall’astrologia messa in burla: qui l’astrologia ci sta per comparsa, né da essa escono i mezzi d’azione. Se maestro Iachelino, che è il negromante, fosse un vero astrologo, che mentre vuol farla a’ padroni è burlato da’ servitori, il concetto sarebbe cosí spiritoso com’è nell’astrologo del Lando, di cui si mostra piú sapiente un contadino, anzi l’asina del contadino. Ma qui l’astrologo è un ignorantaccio, che, come dice il Nibbio, suo servo e confidente, mal sapendo leggere e male scrivere, fa professione di filosofo, di medico, di alchimista, di astrologo, di mago:
e sa di queste e dell’altre scïenzie |
Sicché il tutto si riduce a una gara di malizia tra maestro Iachelino e Nibbio da una parte, e Fazio e Temolo, che sono i servi, dall’altra. Non mancano bei tratti, che rivelano nell’autore un ingegno e uno spirito comico non comune. Cintio racconta al servo le maraviglie del negromante, e il servo si beffa del negromante e del padrone, ed è in ultimo colui che l’accocca a tutti. Cintio l’assicura gravemente che sa trasformare uomini e donne in animali. Risponde Temolo:
Si vede far tutto il dí, né miracolo |
— Capisco — dice Cintio. — La poca esperienza che hai del mondo ti fa parlare cosí. Ma non credi tu dunque che e’ possa scongiurare gli spiriti? — E Temolo risponde:
Di questi spirti, a dirvi il ver, pochissimo |
Questo tratto è stupendo d’ironia: è il popolano ignorante che col suo naturale buon senso si prende spasso de’ grandi uomini. Bella situazione drammatica è dove Nibbio, viste le reti tese a Cintio, a Massimo e a Camillo, il piú ricco, domanda al negromante:
Delle tre starne che in piè avete, ditemi Astrologo
Nibbio
Astrologo
Nibbio
Astrologo
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E questo Nibbio, quando vede scoperte le magagne dell’astrologo, egli, suo servo, confidente e mezzano, gli dá il calcio dell’asino, e lo ruba e lo pianta lí. Sono bei tratti perduti in un mondo convenzionale e superficiale, e poco studiato e abborracciato nei momenti piú interessanti. L’autore vi mostra un’attitudine piú a narrare, ad esporre, a descrivere cbe a drammatizzare. Che uomo sia maestro Iachelino, è benissimo esposto in un monologo di Nibbio; ma, quando lo si vede in azione, lo si trova noioso, insipido, grossolano, molto al di sotto dell’aspettazione.
Ludovico era di coltura al di sotto de’ tanti dotti di quel tempo, ed anche di alcuni della corte. Il cardinale Ippolito pregiava assai meno i poeti, gente oziosa, che i suoi staffieri e camerieri; e, volendo trarre un utile dal nostro poeta, ne fece un «cavallaro», mandandolo qua e lá in suo servigio. Ludovico, ricordandosi la grande amicizia di Leone decimo, quando era proscritto con la sua famiglia da Firenze, vistolo papa, andò a lui pieno di speranza, e non ne cavò altro che belle parole. Fu anche in Firenze per commissione della corte ferrarese, e la profonda impressione fattagli da quella vista si rivela in una elegia scritta in quell’occasione:
A veder pien di tante ville i colli |
Inviato governatore in Garfagnana, alza le strida perché il cardinale lo abbia tolto a’ dolci studi e a’ cari amici e spintolo in quel «rincrescevole laberinto». Da ultimo il cardinale volea trarselo appresso in Ungheria; e qui il nostro poeta perde le staffe e dichiara che in Ungheria non vuole andare. Lodare il cardinale in versi, sta bene; ma far da comparsa nel suo corteggio, questo no:
Io, stando qui, farò con chiara tromba |
E lo loda in latino e in volgare, e piú sfacciatamente in latino:
Quis patre invicto gerit Hercule fortius arma? |
Ma Ippolito non si curava delle lodi, e lo volea servo e non poeta:
Non vuol che laude sua da me composta |
Ludovico, scrittor di commedie, è egli medesimo un carattere de’ piú comici; e se, rappresentando un mondo convenzionale è riuscito nelle commedie poco felice, è stato felicissimo dipingendo se stesso alla buona e al naturale. Alcune sue qualitá te gli affezionano. Ama i fratelli e la vecchia madre, e per loro si acconcia a servitú, rodendo il freno. Il suo ideale è la tranquillitá della vita, starsene a casa fantasticando e facendo versi, vivere e lasciar vivere. Ma il punto è che sia lasciato vivere. Il poveruomo era un personaggio idillico, non aveva ambizioni, non curava grandezze né onori, gli sapeva «meglio una rapa» in casa sua che «tordo, starna o porco selvaggio» all’altrui mensa:
E cosí sotto una vil coltre, Questo mi basta, il resto della terra, |
Ma non è lasciato vivere, e ha tra’ piedi il cardinale, e ne sente una stizza che sfoga con questo e con quello. Qualche rara volta la stizza si alza a indignazione e gli strappa nobili accenti:
Apollo, tua mercé, tua mercé, santo |
Ma sono scarse faville. Non è cosí rimesso d’animo o cupido d’onori, che imiti i cortigiani e sacrifichi la sua comoditá per fare a gusto del cardinale; e non è cosí altero, che rompa la catena una buona volta e lo mandi con Dio. Serve borbottando e sfogando il mal umore, con una sua propria fisonomia nella scala de’ Sancio Panza e de’ don Abbondio. E ne nascono situazioni stupendamente comiche. Tale è il suo viaggio a Roma, con tante speranze nell’amico Leone. Come lo accoglie bene! Ma sono parole, e la sera gli tocca andare a cena sino all’insegna del Montone:
Piegossi a me dalla beata sede: Indi, col seno e con la falda piena |
Ora lo prende la stizza, e si sfoga descrivendo la cupiditá ingorda de’ cardinali; ora fa il filosofo, come volesse dire: — E quando anche avessi le ricchezze del Gran Turco e tre e quattro mitre, ne val poi la pena? —
Sia ver che d’oro m’empia la scarsella |
Ora ha aria di scusare il papa. — Poerino! Parenti, cardinali che gli diedero «il piú bel di tutt’i manti», amici che lo aiutarono a tornare a Firenze, dee dar bere a tanti!
Se fin che tutti beano aspetto a trarme |
Questa magnifica situazione è sviluppata con ricchezza di motivi e di gradazioni, con una perfetta veritá di caratteri e con un’ironia tanto piú pungente quanto appare piú ingenua e piú bonaria. Lo stesso ho a dire di Ludovico fatto governatore, che fa un ritratto stizzoso de’ suoi amministrati e deplora il tempo sciupato intorno ad essi, o di Ludovico che nega di andare in Ungheria, o che raccomanda a Pietro Bembo il figlio, e gli narra la sua vita e le sue contrarietá, i suoi studi. Ci si vede tra la stizza quella specie di rassegnazione delle anime fiacche, che significa: — Ma che ci è a fare? Pazienza! — E anche una specie di bonomia, che gli fa sciorinare tutt’i suoi difetti, come fossero perle. Anche il Berni è cosí, e si fa bello della sua poltroneria; ma carica e buffoneggia con lo scopo di far ridere: dove Ludovico si dipinge tutto al naturale, a semplice sfogo del malumore, e meno cerca l’effetto e piú l’ottiene. Si ride a spese degli altri e anche un po’ a sue spese, e senza ch’egli se ne accorga o se ne guardi. In un secolo cosí artificiato, dove per soverchio studio d’imitazione o per conseguire certi effetti artistici si perdeva di vista la realtá della vita, Ludovico, che scrivendo commedie o canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in un mondo convenzionale, qui, in presenza di se stesso, come Benvenuto Cellini, crea un carattere comico de’ piú interessanti, perché non è solo il suo ritratto, ma del borghese e letterato italiano a quel tempo, nel suo aspetto men reo. Ha visto Roma, ha visto Firenze, è stato in Lombardia; ma il suo mondo non si è ingrandito, il suo centro è rimasto Ferrara; e le sue cure domestiche, i suoi umori con la corte, i suoi piccoli fastidi, i suoi amori, le sue relazioni letterarie, i suoi interessi privati sono tutta la sua preoccupazione, allora appunto che l’Italia era corsa da’ barbari e si dibatteva nella sua agonia. Il borghese colto, spensierato, pigro, tranquillo, ritirato nella famiglia o tra le allegre brigate, è tutto qui con la sua quiete e il suo «fuge rumores». Ci è in questo ritratto un po’ di Orazio; ma l’imitazione è qui natura, è somiglianza di anima e di genio. Il riso è puro di amarezza e di disprezzo, perché senti che l’uomo di cui tu ridi è onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo, ha tutte le qualitá amabili delle anime deboli e buone. Non ci è il capitolo e non la satira, perché quell’uomo non si propone di berteggiare né di censurare, ma unicamente di sfogare il suo umore col fratello o l’amico. E perciò la sua narrazione è mescolata di osservazioni, facezie, motti, proverbi, movimenti stizzosi d’immaginazione, tratti e pitture satiriche, e soprattutto di apologhi graziosissimi, piccoli capilavori. La terza rima, il linguaggio eroico e tragico del medio evo, il linguaggio della Divina commedia e de’ Trionfi, in questa profonda trasformazione letteraria diviene il linguaggio della commedia, il metro del capitolo, della satira e della epistola, con una sprezzatura che arieggia alla prosa. La parabola si compie in queste epistole dell’Ariosto, dove la terzina è profondamente modificata e prende forma pedestre, aguzzata e sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.
La terzina, come il sonetto e la canzone, era il genere letterario e tradizionale. L’ottava, la cui immagine si vede giá abbozzata ne’ rispetti e ne’ canti popolari, era il linguaggio de’ romanzi, delle narrazioni e delle descrizioni, recata a perfezione dal Poliziano. Era il linguaggio di moda e popolare. E la terzina sarebbe rimasta, come il sonetto e la canzone, stazionaria e convenzionale, se il Berni e l’Ariosto non le avessero data nuova vita, traendola dal cielo e dandole abito conforme al tempo. L’ottava rima cantava; la terzina discorreva, berteggiava, satirizzava, esprimeva la parte prosaica e reale della vita.
Fra tanti fastidi e piccole miserie della vita Ludovico scriveva l’Orlando furioso, con molta noia del cardinale Ippolito, che vedeva sciupato in quelle «corbellerie» il tempo destinato al suo «servizio».
Il Boiardo interruppe il suo Orlando innamorato proprio allora che calava le Alpi Carlo ottavo per andar «non so in che loco». Morí qualche anno dopo, quando Ludovico traduceva Plauto e Terenzio e scriveva commedie, rappresentate magnificamente nel teatro di corte. La gloria dell’Omero ferrarese spronò l’Ariosto a tentar qualche cosa di simile. Cominciò in terza rima una storia epica de’ fasti estensi, ma smise subito, disacconcio il metro alla sua larga vena. E si risolve, senz’altro, di continuar la storia di Orlando, ripigliandola lá dove l’avea lasciata il Boiardo. Se ne consigliò col Bembo, il quale lo esortò a scrivere il poema in latino. L’Orlando in latino! Il Bembo non capiva cosa fosse l’Orlando innamorato. Ma lo capiva l’Ariosto, che di quella lettura facea sua delizia, e deliberò senza piú di usare lo stesso metro e le stesse forme. Cosí cansò l’imitazione classica e ricuperò la libertá del suo ingegno. Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno, e vi si seppellí per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita a emendarlo. Si racconta che andasse sino a Modena in pianelle e non se ne accorse che a metá della via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa c’era dunque nella sua testa? C’era l’Orlando furioso. Niuna opera fu concepita né lavorata con maggior serietá.
E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale o patriottico, di cui non era piú alcun vestigio nell’arte, ma il puro sentimento dell’arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi. Ci è ne’ suoi fini il desiderio un po’ di secondare il gusto del secolo e toccare tutte le corde che gli erano gradite, un po’ di tessere la storia o piuttosto il panegirico di casa d’Este. Ma sono fini che rimangono accessorii, naufragati e dimenticati nella vasta tela. Ciò che lo anima e lo preoccupa è un sentimento superiore, che è per lui fede, moralitá e tutto; ed è il culto della bella forma, la schietta ispirazione artistica. E lo vedi mutare e rimutare, finché non abbia dato alle sue creazioni l’ultima forma che lo contenti. Da questa serietá e genialitá di lavoro uscí l’epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla sola divinitá riverita ancora in Italia: l’Arte.
Ludovico e Dante furono i due vessilliferi di opposta civiltá. Posti l’uno e l’altro tra due secoli, prenunziati da astri minori, furono le sintesi in cui si compí e si chiuse il tempo loro. In Dante finisce il medio evo: in Ludovico finisce il Rinascimento.
Ritratto tutti e due della loro etá. Dante fu piú poeta che artista: all’artista nocquero la scolastica, l’allegoria, l’ascetismo e la stessa grandezza ed energia dell’uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo vivo e appassionato e resistente, perché l’arte potesse dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo reale era involuto in forme cosí dense e fisse, che il suo sguardo profondo non poté sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato.
Tutto questo mondo è giá sciolto innanzi a Ludovico, nella sua realtá e nelle sue forme. È sciolto per un lavoro anteriore, al quale egli non ha partecipato. Giá nel Petrarca spunta l’artista, che si foggia il mondo del suo cuore, e se lo compone e atteggia come pittore, e ci crede e ci si appassiona e ne sente i tormenti e le gioie. Giá nel Boccaccio l’arte si trastulla a spese di quella realtá e di quelle forme. Giá su quel mondo è passato il ghigno di Lorenzo e il riso beffardo del Pulci, e giá, vòto il tempio, è surta sugli altari la nuova divinitá annunziata da Orfeo, tra’ profumi eleganti del Poliziano. Ludovico non ha niente da affermare e niente da negare. Trova il terreno giá sgombro, e senza opera sua. Non è credente e non è scettico: è indifferente. Il mondo in mezzo a cui si forma, destituito di ogni parte nobile e gentile, senza religione, senza patria, senza moralitá, non ha per lui che un interesse molto mediocre. Buona pasta d’uomo, con istinti gentili e liberi, servo non fremente e ribelle ma paziente e stizzoso, adempie nella vita la parte assegnatagli dalla sua miseria con fedeltá, con intelligenza, ma senza entusiasmo e senza partecipazione interiore. Lo chiamavano distratto. Ma la vita era per lui una distrazione, un accessorio; e la sua occupazione era l’arte. Andate a vedere quest’uomo mezzano e borghese come quasi tutt’i letterati di quel tempo, nella sua bontá e tranquillitá facilmente stizzoso, e che non sa conquistare la libertá e non sa patire la servitú, e tutto rimpiccinito e ritirato tra le sue contrarietá e le sue miserie si fa spesso dar la baia per le sue distrazioni e le sue collere; andate a vedere quest’uomo quando fantastica e compone. Il suo sguardo s’illumina, la sua faccia è ispirata, si sente un iddio. Lá, su quella fronte, vive ciò che è ancora vivo in Italia: l’artista.
Giá questo mondo cavalleresco, che riempie la sua immaginazione, non era stato altro mai in Italia che un mondo di fantasia e visto da lontano. E quando ogni idealitá si corruppe, molti cercavano ivi quell’ideale di bontá e di virtú che altri trovavano nella vita pastorale; cosí sorse sulle rovine del medio evo il poema cavalleresco e l’idillio, i due mondi poetici o ideali del Rinascimento. Una reminiscenza di quel mondo cavalleresco c’era, ma lontana e confusa per le date, per i luoghi e per i fatti; sicché veniva alla coscienza non da tradizioni nazionali, ma dalla lettura di romanzi tradotti o imitati. Pure, una immagine vicina di quel mondo era nelle corti, dove appariva quel non so che signorile e gentile e umano che fu detto «cortesia», e dove spesso si davano spettacoli che richiamavano alla mente quelle forme e que’ costumi. Ci era dunque nella coscienza italiana un mondo della cortesia, contrapposto al mondo plebeo per la pulitezza delle forme e la gentilezza de’ sentimenti; un mondo le cui leggi non erano derivate dal Vangelo né da alcun codice, ma dall’essere cavaliere o gentiluomo; e anche oggi sentiamo dire: «in fé di gentiluomo». Ci era il codice dell’onore e dell’amore, che comprendeva gli obblighi del prode e leale cavaliere. La costanza e fedeltá nell’amore, la devozione al suo signore, l’osservanza della parola, la difesa de’ deboli, la riparazione delle offese, erano gli articoli principali di quel codice, il cui complesso costituiva il cosí detto «punto d’onore». Questo è quel mondo della cortesia che nel Decamerone apparisce come il mondo poetico in contrapposto con la rozzezza plebea; e in veritá Gerbino e Guglielmo e la figlia di Tancredi e Federigo degli Alberighi sono belle immagini di un mondo superiore per finezza e fierezza di tempra. Ma nelle corti italiane, come quelle di Urbino, di Ferrara, di Mantova, era rimasto di quel mondo appena un barlume, e piú nell’apparenza che nella sostanza, anzi non rado avveniva di vedere accoppiata con l’eleganza e la galanteria dei costumi la piú sfacciata perfidia, come in Cesare Borgia. Un sentimento vero e profondo dell’onore non era dunque parte intima del carattere nazionale; e se allora potevano esserci uomini di onore, non ci era certo né un popolo né una classe dove l’onore fosse regola della vita, anzi quegli uomini colti e svegliati erano inclinati a dar dello sciocco a quelli che con loro danno o incomoditá osservavano quelle leggi: non era virtú, era dabbenaggine, e destava quel leggier senso ironico, la cui punta è appena dissimulata nell’esclamazione del poeta:
O gran bontá de’ cavalieri antiqui! |
Non ci era dunque in Italia un serio sentimento cavalleresco, che potesse ispirare qualche cosa come il Cid; e scaduto ogni sentimento religioso, morale e politico, l’onore rimaneva senza base, e non avea serbate che alcune delle sue qualitá superficiali, e piú brillanti che solide, di cui si vede il codice nel Cortigiano del Castiglione. Perciò la cavalleria, come la mitologia e come il mondo religioso, non era fra noi altro che pura leggenda o romanzo; un mondo d’immaginazione, che interessava non per il suo ideale, ma per la novitá, la varietá e la straordinarietá degli accidenti. Meno il suo significato era serio, e piú il suo contenuto era fantastico e licenzioso, cancellati tutt’i limiti di spazio e di tempo e di verisimiglianza. Il cantastorie non si proponeva altro scopo che di stuzzicare la curiositá e appagare l’immaginazione, intessendo sul vecchio fondo tradizionale cavalleresco le favole piú assurde, e intrigandole fra loro in modo da tener sospesa e curiosa l’attenzione. Indi quelle forme di narrare bizzarre, interrompendo, intramettendo, ripigliando co’ passaggi piú bruschi, e portando l’incoerenza fino nell’esterna orditura del racconto.
Giá cominciava a spuntare una scienza dell’uomo e della natura. L’invenzione della stampa, la scoperta di Copernico, i viaggi di Colombo e di Amerigo Vespucci, gli scritti del Pomponazzi, i Discorsi del Machiavelli, la Riforma, la costruzione solida di grandi Stati, come la Spagna, la Francia, l’Inghilterra, erano fatti colossali, che rinnovavano la faccia del mondo. Ma le conseguenze non erano ancora ben chiare; e il mondo moderno, il mondo dell’uomo e della natura, o, per dirlo in una parola, la scienza, era ancora come un sole inviluppato di vapori, che non dánno via a’ suoi raggi. E i vapori erano il mondo popolare dell’immaginazione, che suppliva alla scienza, riempiendo la terra di miracoli. Ogni specie di soprannaturale era accumulata e ammessa, il miracolo de’ cristiani, il prodigio de’ pagani, gl’incanti de’ maghi e delle fate, le imposture degli astrologi. L’uomo stesso, in mezzo a questa natura fatata e incantata, era un attore degno di quel teatro: essere ancora primitivo, credulo, ignorante, abbandonato alle sue inclinazioni e passioni, determinato all’azione da súbiti movimenti anzi che da posata riflessione, e che non si ripiega mai in sé, non si studia, non si conosce, è tutto superficie, tutto fuori nel tumulto e nel calore della vita. Perciò è piuttosto anch’esso una forza naturale che un essere consapevole, una forza tirata e avvolta nel vario gioco degli avvenimenti, povera di carattere e di autonomia.
Nondimeno l’Italia era il paese dove l’uomo, come intelligenza, era piú adulto, piú formato dall’educazione e dalla coltura, e dove il soprannaturale sotto tutte le sue forme non era ammesso che come macchina poetica, un gioco d’immaginazione. Perciò, se in altre parti di Europa ci era ancora un legame tra il mondo cavalleresco e il mondo reale, questo legame era spezzato tra noi, e la cavalleria non era che un mondo di pura immaginazione.
Ludovico era tutt’altro che uomo cavalleresco, anzi tirava al comico. E quando prese a voler continuare la storia del Boiardo, era come un pittore che dipinge con la stessa indifferenza una santa o una ninfa o una fata, pur di dipingerla bene. Molti chiedono: quale fu lo scopo dell’Ariosto? Non altro che rappresentare e dipingere quel mondo della cavalleria. Omero canta l’ira di Achille, Virgilio canta Enea, Dante canta la redenzione dell’anima. L’Ariosto non canta l’impresa di Agramante o di Carlo, e non le furie di Orlando e non gli amori di Ruggiero e Bradamante: l’impresa di Agramante è per lui come un punto fisso intorno al quale si sviluppa il mondo cavalleresco; non lo scopo, ma il tempo e il luogo nel quale si mostra quel mondo. Egli canta le donne e i cavalieri, le cortesie e le audaci imprese, che furono a quel tempo che Agramante venne in Francia. Le furie di Orlando e gli amori di Ruggiero sono non episodi, appunto perché non ci è un’azione unica e centrale, ma parti importanti di quell’immensa totalitá che dicesi «mondo cavalleresco». L’unitá è dunque non questa o quella azione e non questo o quel personaggio, ma è tutto esso mondo nel suo spirito e nel suo sviluppo nel tal luogo e nel tal tempo. Se l’impresa di Agramante fosse non il semplice materiale dove si sviluppa il mondo cavalleresco, ma una vera e seria azione, lo scopo del poema; e se Orlando e Ruggiero fossero episodi in quest’azione, il romanzo sarebbe cosí difettoso come difettosa sarebbe la Divina commedia, a volerla giudicare con lo stesso criterio. Belli questi episodi che invadono l’azione e la soperchiano! Bella quest’azione che ha i suoi accidenti piú importanti fuori del poema nella storia del Boiardo, e che ispira un interesse molto mediocre al poeta, il quale se ne ricorda solo allora che ha bisogno di raccogliere le fila troppo sparse in un centro, e volentieri e per lungo tempo se ne dimentica, e, finita essa, continua senza di essa! «Unitá d’azione» ed «episodi» sono un linguaggio convenzionale venutoci da Aristotile e da Orazio, e sarebbe cosa assurda a volerlo applicare al mondo cavalleresco. Perché l’essenza di quel mondo è appunto la libera iniziativa dell’individuo, la mancanza di serietá, di ordine, e di persistenza in un’azione unica e principale, sí che le azioni si chiamano «avventure» e i cavalieri si dicono «erranti». Staccarsi dal centro, andare vagando e cercare avventure, è lo spirito di un mondo che ripugna cosí alla unitá come alla disciplina. Volere organizzare questo mondo co’ precetti di Orazio e di Aristotile è un volerlo falsificare. Il disordine qui è ordine, e la varietá è unitá. Come l’unitá del mondo, nella sua infinita varietá, è nel suo spirito o nelle sue leggi, cosí l’unitá di questa vasta rappresentazione è nello spirito o nelle leggi del mondo cavalleresco.
La forza centripeta è assai fiacca in questo mondo della libertá e dell’iniziativa individuale; e ci vuole l’angiolo Michele o il demonio per tirare i cavalieri erranti a Parigi, dove si combatte. E non ci si trovano che un par di volte, e appena una giornata; ché il dí appresso corrono di nuovo dietro a’ fantasmi delle loro passioni, tirati da amore, da vendetta, da gloria, e vaghi tutti di avventure strane e maravigliose. La stessa impresa di Agramante non è un fatto religioso o politico, ma anch’essa una grande avventura, cagionata dal desiderio della vendetta. Parigi è un punto stabile, dove stanno a offesa e difesa con gli eserciti Carlo e Agramante; ma i loro paladini e cavalieri, la piú parte re e signori, vanno discorrendo per il mondo, e Parigi non è che un punto di convegno dove il racconto si raccoglie alcuna volta e si riposa, e di cui si vale il poeta per comporre e annodare le fila in certi grandi intervalli. Perché al di sopra di quest’anarchia cavalleresca ci è uno spirito sereno e armonico, che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente, e sa stuzzicare la curiositá e non affaticare l’attenzione, cansare in tanta varietá e spontaneitá di movimenti il cumulo e l’imbroglio, ricondurti innanzi improvviso personaggi e avvenimenti che credevi da lui dimenticati, e nella maggiore apparenza del disordine raccogliere le fila, egli solo tranquillo e sorridente in mezzo al tumulto di tanti elementi cozzanti. Parigi è il principal nodo dell’ordito: è come un faro, che di tanto in tanto brilla e illumina tutto intorno. La scena si apre a Parigi, appunto allora che le genti cristiane hanno avuto una gran rotta. E allora appunto, quando il bisogno è maggiore, Rinaldo, Orlando, Brandimarte vanno via. Rinaldo corre dietro a Baiardo, Orlando corre dietro ad Angelica, e Brandimarte corre dietro ad Orlando. Vi trovate giá in pieno mondo cavalleresco: vi si sviluppano le avventure. E mentre essi corrono, Agramante mette il fuoco a Parigi, e Rodomonte vi entra solo e vi sparge il terrore. Parigi è salvato, perché una pioggia miracolosa spenge l’incendio, e Rinaldo, guidato dall’angiolo Michele, giunge proprio a tempo e disfá i pagani: Agramante, che assediava, è assediato. I cavalieri pagani sono anche erranti. Ferraú cerca Orlando, a cui ha giurato di toglier l’elmo; Gradasso cerca Rinaldo, a cui vuol togliere Baiardo; Sacripante cerca Angelica; Marfisa, Rodomonte, Ruggiero, Mandricardo contendono e pugnano tra loro. Riesce al demonio di farli correre appresso al ronzino di Doralice, che li tira seco a Parigi. Giungono e disfanno i cristiani. Ma il dí appresso si raccende la discordia e vengono alle mani. Mandricardo è ucciso da Ruggiero; Marfisa e Rodomonte lasciano per ira il campo; e chi rimane? Rinaldo tra’ cristiani, Ruggiero tra’ pagani. Un duello tra Rinaldo e Ruggiero dee porre fine alla guerra. Ma Agramante rompe i patti: è disfatto, la sua flotta è dispersa da nemici e da’ venti, e vede di lungi la sua patria arsa da’ cristiani. Il poema, cominciato a Parigi, si termina a Parigi con le nozze di Ruggiero e la morte di Rodomonte. Parigi è il legame esteriore del racconto, ma non ne è l’anima o il motivo interiore. Il motivo è lo spirito di avventura e la soddisfazione degli appetiti, l’amore o il punto d’onore o il maraviglioso, che tirasi appresso il cavaliere, quando non sia sviato e impedito da forze soprannaturali. Il soprannaturale è qui come semplice macchina o forza, senza personalitá; e forze sono e non persone Michele e il demonio e la Discordia e Atlante e Melissa. È un soprannaturale privo di ogni aureola e prestigio; e tali sono pure le spade e gli scudi incantati, e gli anelli fatati, e gl’ippogrifi, e la lancia di Argalía, e il corno di Astolfo, e simili storie viete e note, che lasciano fredda l’immaginazione del poeta. Si è cosí avvezzi a questo soprannaturale, che ci si sta dentro come in un mondo ordinario: quel fantastico in permanenza uccide se stesso e perde le sue punte e i suoi colori: se interesse ci è, non è in quello, ma negli effetti tragici o comici che sa cavarne il poeta, come sono gli effetti comici del corno di Astolfo. Tra questo mondo soprannaturale vive una forza indisciplinata e quasi ancora primitiva, nelle varie sue gradazioni, dal mostro e dal gigante e dal pagano sino al cavaliere cristiano, il cui modello è nel codice di onore, e che rappresenta la civiltá e il progresso nella comune barbarie. I motivi spirituali di questo mondo, l’amore, l’onore e il maraviglioso e lo spirito di avventura, sono dal poeta portati a quell’ultimo punto che confina col ridicolo; l’amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia Rodomonte; il punto d’onore degenera in puntiglio e produce i piú strani effetti, la cui immagine tragica è Mandricardo e il cui modello comico è Rodomonte nelle sue imprese sul ponte; il maraviglioso ti conduce sino alla soglia dell’inferno e nel paradiso terrestre e nel regno della luna. Il mondo cavalleresco ne’ suoi motivi interni è spinto all’ultima punta. Se l’elemento soprannaturale è fiacco, e la stessa Alcina pare quasi piú una personificazione allegorica che una verace persona poetica, vivacissima è al contrario la pittura degli avvenimenti determinati da forze naturali e umane, che abbracciano tutto il circolo della vita nelle sue varie e contrarie apparenze. Vi si sviluppano profonde combinazioni estetiche, serie e comiche, come è Angelica che finisce moglie di un povero fante, la pazzia di Orlando, la peregrinazione di Astolfo nella luna, la discordia nel campo di Agramante, Agramante in vista di Biserta, e Gradasso fatato, che, guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo e Durlindana, quando le ha ottenute e si crede felice è ammazzato da Orlando. Reminiscenza di Achille è Ruggiero, liberato dagli ozi del castello incantato e dalle delizie di Alcina, e riuscito il piú perfetto modello di cavaliere. Intorno a queste grandi combinazioni si aggruppano fatti minori, che dánno il finito e il contorno a questo mondo nelle sue piú lievi sfumature, come è la morte di Zerbino e il lamento d’Isabella, Olimpia abbandonata, la morte e le esequie di Brandimarte, le avventure di Grifone, Dudone, Marfisa, e le scene comiche di Martano, di Gabrina e di Giocondo. Quantunque un mondo cosí fatto abbia un aspetto fuori dell’ordinario e si discosti tanto da’ costumi e dal sentire del suo tempo, pure Ludovico ci sta cosí a suo agio e ne ha sí vivamente impressa l’immaginazione, che te lo dá alla luce con tutt’i caratteri di una vita presente e reale. E qui è il maraviglioso del genio ariostesco: rappresentare un mondo cosí straordinario con semplicitá e naturalezza. Le condizioni di esistenza sono veramente fantastiche sino all’assurdo; ma, una volta ammesse quelle basi, il movimento storico diviene profondamente umano e naturale. Si vegga con che fine gradazioni psicologiche è condotto Orlando sino a perdere il senno; con che scala intelligente è rappresentato il dolore di Olimpia, o la discordia de’ pagani nel campo di Agramante. Perciò tutti quei personaggi ti stanno innanzi vivi, e non puoi dimenticarli piú. Alcuni anzi son divenuti caratteri comici proverbiali, come Rodomonte, Gradasso, Sacripante, Marfisa. Il poeta non s’intromette niente nella sua storia, e, piú che attore, è spettatore che gode alla vista di quel mondo, quasi non fosse il mondo suo, il parto della sua immaginazione. Indi quella perfetta obbiettivitá e perspicuitá del mondo ariostesco, che è stata detta «chiarezza omerica». L’arte italiana in questa semplicitá e chiarezza ariostesca tocca la sua perfezione, ed è per queste due qualitá che l’Ariosto è il principe degli artisti italiani, dico «artisti» e non «poeti». Non dá valore alle cose, slegate dalla realtá e puro gioco d’immaginazione, ma dá un immenso valore alla loro formazione, e intorno vi si travaglia con la maggiore serietá. Non ci è cosí piccolo particolare che non tiri la sua attenzione e non abbia le sue ultime finitezze. Appunto perché l’interesse è non nella cosa ma nella sua forma, la maniera sobria e comprensiva di Dante è abbandonata; e non hai schizzi, hai quadri finiti. Ciò che nel Decamerone ti dá il periodo, qui te lo dá l’ottava, di una ossatura perfetta, e congegnata a modo di un quadro, col suo protagonista, i suoi accessorii e il suo sfondo. Il Poliziano ti dá una serie di cui lascia il legame all’immaginazione: l’Ariosto ti dá un vero periodo, cosí distribuito e proporzionato che pare una persona. E l’effetto è non solo in quella ossatura materiale cosí solida e bene ordinata, ma in quell’onda musicale, in quella superficie scorrevole e facile, che ti fa giungere all’anima insieme coi fatti i loro motivi e i loro affetti. Nel secolo de’ grandi pittori, quando l’immaginazione italiana mirava a dare all’immagine tutta la sua finitezza, l’Ariosto è pittore compito, che non ti lascia l’oggetto finché non ne abbia fatto un quadro. E non è che cerchi effetti di luce o di armonia straordinari, o lusso di colori e di accessorii: non ci è ombra di affettazione o di pretensione; ci è l’oggetto per se stesso, che si spiega naturalmente. Il poeta fissa l’esterioritá nel punto che è viva, quando cioè è atteggiata cosí o cosí per movimenti interni o esteriori; e non osserva, non riflette, non la scruta, non l’interroga, non cerca al di dentro, non la palpa, non la maneggia per volerla abbellire. Nessun movimento subbiettivo viene a turbare l’obbiettività del suo quadro, nessun movimento intenzionale. Non ci è il poeta: ci è la cosa che vive e si move; e non vedi chi la move, e pare si mova da sé. Questa sublime semplicità nella piena chiarezza della visione è ciò che il Galilei chiamava a ragione la «divinitá» dell’Ariosto. E non è solo nel minuto, ma nelle grandi masse. La sua vista rimane tranquilla e chiara ne’ più bruschi e complicati movimenti d’insieme. Indi è che dipinge duelli, battaglie, giostre, feste, spettacoli, paesaggi, castella, con quella purezza e semplicità di disegno che dipinge le cose minime. Nelle ottave del Poliziano la superficie non ha più nulla di scabro, ma ti accorgi che è stata strofinata, leccata, lisciata, e si vede l’intenzione dell’eleganza. Qui la superficie è cosí naturalmente piana, che ti par nata a quel modo e che non possa essere altrimenti. Pigliamo ad esempio la rosa:
Questa di verde gemma s’incappella; |
Qui la rosa m’ha aria di una fanciulla civettuola, che prende questa o quell’attitudine per parer vezzosa, L’«incappellarsi», lo «sportello», quell’«ardere in dolce foco», sono immagini appiccatele da immaginazione umana. È la rosa non nella sua naturalezza immediata, ma come pare all’uomo. Ci si vede il lavoro dello spirito, che l’orna e la vezzeggia, la rosa passata attraverso lo spirito e uscitane trasformata. Vedi ora nell’Ariosto, la rosa,
che in bel giardin sulla nativa spina |
Questa è la storia o il romanzo della rosa. Il poeta ha aria non di descrivere, ma di raccontare; e ti pone innanzi la cosa nella sua veritá naturale, sí che niente paia oltrepassato, esagerato o trasformato. L’«alba rugiadosa», il «ceppo verde», la «nativa spina», i «gioveni vaghi», le «donne innamorate», i «seni e le tempie», il «gregge e il pastore» sono tutte immagini naturali, distinte, plastiche, obbiettive, prodotte da una immaginazione impersonale, assorbita dallo spettacolo. E guarda alla movenza dell’ottava, con tanta semplicitá che l’ultimo verso par ti caschi per terra, come vil prosa, a quel modo che è cascata la rosa da quella sua altezza verginale. Gli è che qui eleganza, armonia, colorito non vengono da alcun preconcetto dello spirito, ma sono la forma stessa delle cose, non il loro ornamento o la loro veste, ma la loro chiarezza. Come le cose minime, cosí le grandi masse sono disegnate con la stessa perspicuitá e purezza. Fra tante battaglie e duelli e incanti e paesaggi non trovi mai ripetizioni o reminiscenze, perché ciascuna cosa è come un individuo perfettamente distinto e caratterizzato. Quadro, piccolo o grande che sia, prende la sua movenza e il suo colore dalla cosa rappresentata, e però ciascun quadro è in sé distinto e compíto, condotto e disegnato negli ultimi particolari. Lo spirito ne’ suoi preconcetti è limitato e produce la «maniera», che ti pone innanzi non la cosa vista, ma il modo di guardarla, la visione: e perciò facilmente imitabili sono i poeti subbiettivi, ne’ quali prevale la maniera, come il Petrarca, il Tasso, il Marino e simili. Al contrario inimitabile è l’Ariosto, che non ha maniera, perché è tutto obbliato e calato nelle cose, e non ha un guardare suo proprio e personale. Anzi egli ha una perfetta bonomia, un’aria di raccontare alla schietta e alla buona, come le cose gli si presentano, senza mettervi niente di suo. Ha un ingegno poroso, che riceve e rende le cose nella evidenza e distinzione della loro personalitá, senza che esse trovino ivi intoppo o alterazione. Perciò il suo ingegno è trasmutabile in tutte guise, non secondo il suo umore, ma secondo la varia natura delle cose. Con la stessa facilitá e sicurezza vien fuori l’eroico, il tragico, il comico, l’idillico, il licenzioso, come qualitá naturali delle cose anziché del suo spirito. Di che viene l’evidenza miracolosa di questo mondo nella sua infinita varietá e libertá, e la sua serietà artistica nel suo insieme e nelle minime parti. L’evidenza è in quel coglier gli oggetti vivi, cioè in azione, e metterti innanzi tutti gli accessorii essenziali, anch’essi in azione, cioè come movimenti, attitudini o motivi: accessorii, che Dante fa indovinare, e che qui si sviluppano nelle larghe pieghe dell’ottava. E perché gli oggetti sono còlti in azione o in movimento, le descrizioni sono rare e sobrie, e appena accennati i caratteri e i paesaggi, che sono l’uomo e la natura nel loro stato d’immobilitá, e abbozzate le intramesse e le commettiture e le circostanze facilmente intelligibili, e gli antecedenti richiamati brevemente, e l’azione còlta nel momento più interessante e condotta innanzi con le vele gonfie e con prospero vento. Mai non ti accade d’impaludare o di deviare: come in questo mondo par che non esistano limiti di spazio o di tempo, cosí nello stile non trovi intoppi o ingombri, e sei in acqua limpida e corrente. Tutto è succo e pieno di senso. Niente ci sta in modo assoluto: tutto è relativo e intenzionale, e concorre all’effetto, ora serio ora comico. L’effetto è quale te lo può dare un mondo di sola immaginazione, al quale il poeta non prende altra partecipazione che artistica, che non ha alcuna relazione con le sue passioni e i suoi sentimenti. L’effetto è una viva curiositá sempre nutrita e accompagnata spesso da una tranquilla soddisfazione, come chi sa di sognare, e gli piace, e tiene gli occhi mezzo chiusi, immerso in quella contemplazione. Il sogno gli piace; pure non dice nulla al suo cuore e alla sua mente: è un dolce ozio dell’immaginazione. È un flutto d’immagini cosí vive e limpide, cosí naturali e cosí espressive, che ti tengono a sé e non ti concedono alcuna distrazione; e ti giungono portate da onde sonore, tra colori e tra mormorii che dilettano la vista e suonano deliziosamente nell’orecchio. Quel mondo è il tuo rêve o, per dirla con linguaggio tolto a quel mondo, è il tuo castello incantato, il tuo sogno dorato. L’impressione non è cosí profonda che oltrepassi l’immaginazione e colpisca il tuo essere in ciò che di più serio ha il pensiero o il sentimento. La piú gagliarda impressione ti suscita appena una emozione: nuvoletta nel suo formarsi giá sciolta in quel limpido cielo. Di queste nuvolette leggiere, appena disegnate, è sparso il racconto; e sono movimenti subitanei che provocano una risata o una lacrima, immediatamente repressi e trasformati. Eccone qualche esempio:
— Né men ti raccomando la mia Fiordi... —
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Cosí subitanee e cosí fugaci sono le tue emozioni, quando ti balzano innanzi certe immagini tenere. Si sveglia subito nel tuo cuore qualche cosa che si move e che non puoi chiamare ancora «sentimento», quando una nuova immagine ti avverte del gioco e ricaschi nella tranquillitá della tua visione. Una delle creature più simpatiche dell’Ariosto è Zerbino, e, quando gli giunge addosso la spada di Mandricardo, ci è nel nostro cuore un piccol movimento, che risponde ai palpiti della sua Isabella; ma il poeta con una galanteria piena di grazia paragona la lunga e non profonda ferita al nastro purpureo, che partisce la tela d’argento ricamata dalla sua bella, e spenge in sul nascere quel movimento. La morte di Zerbino è una scena molto tenera, il cui sentimento troppo straziante è rintuzzato da immagini graziosissime. Isabella è china sul morente: il poeta la guarda, e la trova pallidetta come rosa:
rosa non còlta in sua stagion, sí ch’ella |
Zerbino, morendo, nella sua disperazione manda un ultimo sguardo pieno di passione all’amata:
Per questa bocca e per questi occhi giuro, |
Talora è una sola circostanza ben collocata, che dal sentimentale ti gitta nell’immagine:
E straccia a torto l’auree crespe chiome. |
A questo ufficio adempiono specialmente i paragoni, che nel piú vivo dell’emozione te ne distraggono e ti presentano un altro oggetto. Sacripante nel suo dolore paragona la verginella alla rosa. Angelica incalzata da Rinaldo pare una cavriola fuggente, che abbia veduta la madre sotto i denti del pardo:
ad ogni sterpo, che passando tocca, |
L’«impasto leone», l’«uscito di tenebre serpente», l’«orsa assalita nella petrosa tana», il «vase a bocca stretta e a lungo collo, onde l’acqua esce a goccia a goccia», e simili spettacoli, non nuovi e non originali, come presso Dante, ma di apparenze e movenze vivacissime, sono gagliarde diversioni e distrazioni, che riconducono la vita al di fuori anche nel maggiore strazio della passione. Veggasi nel canto quarantacinquesimo il lamento di Bradamante, che è una vera canzone elegiaca, sparsa di amabili paragoni. Quell’occhio vagante, che cerca se stesso nella natura, ha giá rasciutte le lacrime. Onde nasce quel tono generale del sentimento, più vicino all’elegiaco e all’idillico che all’eroico e al tragico: ciò che è conforme non pure alla natura impressionabile e tenera del poeta, ma alla stessa tendenza dell’arte, dal Petrarca in qua. Anche la natura rimane tutta al di fuori e non ti cerca l’anima, com’è il giardino di Alcina e il paradiso terrestre. Ci è l’immagine, non ci è il sentimento:
Zaffir, rubini, oro, topazi e perle |
Qual è il suono che manda questa natura? quali impressioni? quali ispirazioni? Astolfo fra tanta bellezza guarda e passa, e non gli si move il core che di maraviglia alla vista di un muro che è tutto di una gemma
più che carbonchio lucida e vermiglia. |
Non hai dunque il sentimento della natura, come non hai il sentimento della patria, della famiglia, dell’umanitá, e neppure dell’amore, dell’onore. In luogo del sentimento hai la sentenza morale, che è la sua astrazione, il sentimento naturalizzato e cristallizzato in bei versi, come:
Il miser suole |
Ecco magnifiche sentenze intorno all’amore:
Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,
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Queste sentenze non sono osservazioni profonde e originali, ma luoghi comuni assai bene versificati, che non lasciano alcun vestigio di sé. Il sentimento, ora condensato in una sentenza, ora tradotto in una immagine, appena nato, si dissolve. Non mancano tratti sentimentali, come è la risposta di Dardinello a Rinaldo, o di Agramante a Brandimarte, o i lamenti di Olimpia o di Orlando o di Cloridano, cosí musicali ed elegiaci; ma stanno come inviluppati in quel mare fantastico e naufragati sotto a quei flutti d’immagini. Sono voci d’angoscia e di passione, che prima di giungere a noi giá si confondono col rumore delle onde e diventano visibili: sono immagini. Un ultimo esempio ce lo dá Orlando, che, piangendo e chiamando Angelica, la paragona ad un’agnella smarrita e ci fa intorno de’ ricami.
In una societá cosí poco sentimentale, cosí superficiale e mobile, e cosí ricca d’immaginazione come povera di coscienza, si può concepire quale viva ammirazione dovessero destare questi quadri plastici. La nuova letteratura, iniziata in quei giri musicali del Decamerone, si contemplava e si ammirava in queste flessuose ottave, dove la vita nella sua rapida vicenda è cosí palpabile e cosí limpida. «Procul este, profani». Nessuna ombra del reale, nessuno spettro del presente, nessuna voce profonda del cuore o della mente venga a turbare questa danza serena. Siamo nel regno della pura arte: assistiamo a’ miracoli dell’immaginazione. Il poeta volge le spalle all’Italia, al secolo, al reale e al presente, e naviga, come Dante, in un altro mondo; e quando dalla lunga via ritorna, si circonda, come d’una corona, di poeti e di artisti: vera immagine di quella Italia, madre della coltura e dell’arte, a cui egli presentava l’Orlando. Ma Dante si traeva appresso nell’altro mondo tutta la terra: la patria lo inseguiva anche colá co’ suoi fantasmi. Ludovico naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo, come un pittore che viaggia e dipinge quello che vede. Ciò che gli fa tremare la mano, ciò che gli fa battere il cuore, è questo solo pensiero: — Quello che mi sta nella testa, quello che io vedo cosí bene qua dentro, uscirá cosí sulla tela? — E tocca e ritocca sino alla morte, scontento, inquieto; perché non è tranquillo, chi ha qualche cosa a realizzare, sulla terra. Ciò che Ludovico ha a realizzare non è questo o quel contenuto nella sua realtá e serietá. Il mondo cavalleresco è per lui fuori della storia, libera creatura della sua immaginazione. Ciò che ha a realizzare in quello è la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel secolo e di quella societá, la musa del Risorgimento. Ed ha tutte le qualità da ciò. Ha sensibilitá piú che sentimento, ha impressioni ed emozioni più che passioni, ha vista chiara piú che profonda, ha l’anima tranquilla, sgombra di ogni preoccupazione, piena di fantasie, allegra nella produzione e tutta versata al di fuori nei suoi fantasmi. È lo spirito non ancora consapevole, che vive al di fuori e si espande nel mondo e s’immedesima con quello e lo riflette puro con brio giovanile. Cosí è venuto fuori quasi di un getto, quasi per generazione spontanea, questo mondo cavalleresco, sorriso dalle Grazie, di una freschezza eterna, tolto alle ombre e a’ vapori e a’ misteri del medio evo e illuminato sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave. Niente è uscito dalla fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo omerico. Il Risorgimento realizzava il suo sogno, la nuova letteratura avea trovato il suo mondo.
E che cosa volea questa nuova letteratura? Non volea giá questo o quel contenuto. Era scettica e cinica, e credeva solo all’arte. E l’Ariosto le dava questo mondo dell’arte in un contenuto di pura immaginazione.
Ma non ci accostiamo molto a questa bella esterioritá. Se ci mettiamo sopra la mano, la ci fugge come ombra; e se guardiamo al di sotto, pare non ci sia nulla. Quando leggi Omero, senti uscirne, non sai come, le mille voci della natura, che trovano un’eco nelle tue fibre, e sembrano le tue voci, le voci della tua anima. Gli è che ivi la forma è esso medesimo il contenuto, e il contenuto sei tu, è vita della tua vita, è sangue del tuo sangue. Qui il contenuto è un giuoco della immaginazione, e non ti ci profondi e non ti ci appassioni, appunto perché hai il sentimento che è un giuoco. Talora sta per spuntarti la lacrima, quando ti svegli di un tratto e scoppi in una risata.
Pare, ma non è vero, che al di sotto di questa bella esterioritá non ci è nulla. Al di sotto ci è Momo, ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio.
L’elemento dell’arte negativo e dissolvente avea giá percorso tutto il suo ciclo a Firenze, giunto sino alla pura buffoneria. Il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura, hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo il lato comico. L’Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la cavalleria, come fece il Cervantes; e nel suo mondo s’incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e anche grotteschi, come la Gabrina, con la stessa indifferenza che s’incontrano episodi tragici ed elegiaci. Ma, se il suo riso non è intenzionale, non è neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori buffoneggiando, come fece poi il Berni nel suo Orlando. Il suo riso è più serio e piú profondo. È il riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni qualitá; è, se non ancora la scienza, il buon senso, generato da un sentimento giá sviluppato del reale e del possibile; è il riso precursore della scienza.
Ludovico è innanzi tutto un artista. A questo mondo cavalleresco egli non ci crede; pur se ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, piú serio a lui che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un amore, un interesse semplicemente di artista. La sua immaginazione se lo assimila, ne acquista una piena intelligenza, fa e disfá, compone e ricompone, con assoluta padronanza, come materia di cui conosce tutti gli elementi e che atteggia e configura a suo genio. La materia, in Dante cosí resistente e scabra, qui perde i suoi angoli e le sue punte e, come cera, riceve tutte le impressioni. L’immaginazione le si accosta sgombra di ogni preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e vi si obblia, e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore è scomparso nella creatura. L’obbiettivitá è perfetta. Ma guarda bene, e vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco riverente di colui che l’ha creata, e che in certi momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la mano. Non sai se è di te che si burli o della sua creatura; e, a ogni modo, ci mette una grazia, che gli daresti un bacio. La burla ti coglie improvviso, nella maggiore serietá della rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti disfá in un istante le creazioni piú interessanti; e ti avviene cosí spesso, che non ti abbandoni piú e prendi guardia, e ti avvezzi a poco a poco a quell’ambiente equivoco nel quale si aggira quel mondo. Quando l’autore sembra interamente scomparso nella sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che un bel momento metterá fuori il capo e ti fará una smorfia. Di sotto a quella obbiettivitá omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d’ironia l’elemento subbiettivo e negativo.
Cosa è dunque questo mondo? È la sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze. È il medio evo, il mondo chiamato «barbaro», il passato, rifatto dall’immaginazione e disfatto dallo spirito. Ci è lí dentro quel sentimento dell’arte, quel culto della forma e della bellezza, quella obbiettivitá di una immaginazione giovane, ricca, analitica, pittoresca, che caratterizza la nuova letteratura, che genera i miracoli della pittura e dell’architettura, e che li giunge alla sua perfezione, congiunta con lo splendore e con l’armonia la massima semplicitá e naturalezza di disegno. E c’è insieme quell’intimo senso dell’uomo e della natura o del reale, che ti atteggia il labbro ad un ghigno involontario, quando ti vedi sfilare innanzi un mondo fuori della natura e fuori dell’uomo, generato dalla tua immaginazione. Tu ammassi le nuvole, tu le configuri, tu formi i magnifici spettacoli; e tu te la ridi, perché sai che quel mondo sei tu che lo componi, e non ci vedi altra serietá se non quella che gli dá la tua immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo e uomo. Come fanciullo, senti bisogno di esercitare la tua immaginazione, e formi soldati e castelli e ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere l’uomo, che ti fa un ghigno, e quel ghigno vuol dire: — Sono soldati e castelli di carta. — La cultura è nel suo fiore, l’immaginazione è nel maggior vigore della sua espansione ed opera i piú grandi miracoli dell’arte; ma lo spirito è giá adulto, materialista e realista, incredulo, ironico, e si trastulla a spese della sua immaginazione. Questo momento dello spirito moderno, che ricompone il passato non come realtá ma come arte, e, appunto perché semplice gioco d’immaginazione o arte pura, lo perseguita della sua ironia, è la vita interiore del mondo ariostesco, è il suo organismo estetico. Prendi un quadro di Raffaello ed un sonetto del Berni, ed avrai accentuati gli estremi tra’ quali erra questa unitá superiore, dove sono fusi e contemperati ciò che è troppo ideale nell’uno e ciò che è troppo grossolano nell’altro. La quale fusione è fatta con gradazioni cosí intelligenti e con passaggi cosí naturali, e il lettore fin dal principio vi è cosí ben preparato, che non hai dissonanze o stonature; e niente ti urta, perché il poeta opera senza coscienza o intenzione, e concepisce a quel modo naturalmente, ed è lui medesimo l’unitá che comunica al suo mondo.
Vedi come concepisce. Il protagonista non è il savio Orlando, ma Orlando matto e furioso. Questo tipo della cavalleria, cosí trasformato, è giá una concezione ironica. Ma guarda ora come vien fuori questa concezione. Il momento della pazzia è rappresentato con tale realtá di colorito, che la tua illusione è perfetta. Ci si vede una profonda conoscenza della natura umana nelle sue piú fine gradazioni. È un «crescendo» di particolari e di colori, che ti rendono naturalissimo un fatto cosí straordinario. «Venuto in furore e matto», il poeta te lo abbandona alle risate del pubblico. Ad una scena tenera succede la piú schietta allegrezza comica: la caricatura spinta sino alla buffoneria. Anche il modo come Orlando riacquista il senno ha un profondo senso comico. Secondo le tradizioni del medio evo, l’uomo non può trovare la pace che nell’altro mondo: è la base della Divina commedia. Il poeta materializza questo concetto e lo rende comico, cavandone la bizzarra concezione che ciò che si perde in terra si ritrova nell’altro mondo. Di qui il viaggio di Astolfo sull’ippogrifo nell’altro mondo, che è una vera parodia del viaggio dantesco. Il fumo e il puzzo gli impedisce di entrare nell’inferno; ma all’ingresso trova le prime peccatrici, punite, come Lidia, per la soverchia crudeltá verso gli amanti. È il concetto della Francesca da Rimini preso a rovescio e divenuto comico. Poi sale al paradiso terrestre, e in un bel palagio di gemme trova san Giovanni evangelista, Enoch ed Elia, che gli dánno alloggio in una stanza e provvedono di buona biada il suo cavallo, e a lui dánno frutti di tal sapore,
ch’a suo giudicio sanza |
Astolfo vi trova buon cibo, buon riposo e «tutt’i comodi». È il paradiso terrestre materializzato. Di lá, «uscito del letto», con san Giovanni ascende sulla luna. Qui la parodia prende forma satirica, senza fiele e in aria scherzosa. In un vallone è ammassato ciò che in terra si perde:
Le lacrime e i sospiri degli amanti, |
di sofisti e di astrologhi raccolto |
Chiama «sofisti» i filosofi e li mette a un mazzo con gli astrologhi e i poeti. Dove il medio evo vedea il maggior senno, egli vede vacuitá e astrazione. La fine è di una schietta allegria:
E vi son tutte l’occorrenze nostre; |
L’ironia colpisce anche Angelica, la figliuola del maggior re del Levante, l’amata di Orlando, di Rinaldo, di Sacripante, di Ferraú, che finisce moglie di un «povero fante». La scena comincia nel Boiardo con le piú eroiche apparenze della cavalleria: giostre, tornei, duelli; con Carlomagno circondato de’ suoi paladini, tra il fiore de’ cavalieri di Francia, di Spagna, di Lamagna, d’Inghilterra, tra cui pompeggia la figura di Angelica, la reina del racconto; e va a finire in un idillio, negli amori di Angelica e Medoro. Ciò che nel Boiardo ha proporzioni epiche e cavalleresche, soprattutto nelle battaglie di Albracca, passando nel cervello di Ludovico, si trasforma in una concezione ironica.
Anche nella guerra tra Carlo e Agramante, unitá esteriore e meccanica del poema, la cavalleria è guardata da un aspetto comico. Il lato eroico della cavalleria è l’individualitá, quella forza d’iniziativa che fa di ogni cavaliere l’uomo libero, che trova il suo limite in se stesso, cioè a dire nelle leggi dell’amore e dell’onore, a cui ubbidisce volontariamente. Togli il limite, e l’iniziativa individuale diviene confusione e anarchia, l’eroico divien comico. Il cavaliere non ubbidisce piú che a’ suoi istinti e passioni; si sviluppa in lui la parte bestiale: nascono collisioni e attriti del piú alto effetto comico. Il concetto è giá adombrato con brio nel ritratto della Discordia, capitata da san Michele in un convento di frati, «tra santi uffici e messe»:
avea dietro e dinanzi e d’ambo i lati |
Questa scena, dove sono attori san Michele, il Silenzio, la Frode, la Discordia, è ammiratissima per originalitá di concezione e fusione di colori:
Dovunque drizza Michel angel l’ale, |
Versi stupendamente epici, che vanno digradando fin nel satirico con naturali mutamenti di tono. Ed è un satirico ancora piú efficace, perché non ci è apparenza d’intenzione satirica, anzi ci si rivela una bonomia, un’aria senza malizia, dov’è la finezza dell’ironia ariostesca. La Discordia fa il suo mestiere, e ne viene la famosa scena nel campo di Agramante, rimasta proverbiale, dov’è il vero scioglimento dell’azione, il motivo interno della dissoluzione e della sconfitta dell’esercito pagano. I movimenti comici in questa scena sono piú nelle cose che nelle frasi, fondati su quel subitaneo e impreveduto delle impressioni e degl’istinti, che toglie luogo alla riflessione e spinge i cavalieri gli uni contro gli altri. Rodomonte è il piú spiccato carattere di questo genere, ed è rimasto proverbiale: mistura di forza e di coraggio e di bestialitá. Le sue imprecazioni contro le donne, la sua credulitá e sciocchezza nel fatto d’Isabella, la sua comica lotta col pazzo Orlando, la sua scurrilitá e grossolanitá verso Bradamante sono tratti felicissimi, che mettono in evidenza il cavaliere errante nel suo aspetto comico: materia gigantesca, vuota di senno, grossolana e bestiale. Il contrapposto è Ruggiero, «di virtú fonte», nel quale il poeta ha voluto rappresentare la parte seria ed eroica del cavaliere: leale, gentile, magnanimo. Nella sua concezione ci entra un po’ l’Achille omerico, un po’ Damone e Pizia, Quinzio e Flaminio, collisioni tra l’onore e l’amore, tra l’amore e l’amicizia, da cui escono molti effetti drammatici. Ma chi ha studiato un po’ Ludovico come si dipinge egli medesimo, vede che l’uomo è al di sotto del poeta, né in lui ci è la stoffa da cui escono le grandi figure eroiche, né ci è nel suo tempo. Manca al suo eroe prediletto semplicitá e naturalezza: l’eroico va digradando nel fantastico e nell’idillico. Perciò il suo Ruggiero non ha potuto togliere il posto a Orlando e Rinaldo, gli eroi dell’antica cavalleria; e malgrado le sue simpatie pel fondatore di casa d’Este, l’interesse è assai piú per Orlando e Rodomonte, creazioni geniali e originali.
L’ironia è non solo nella concezione fondamentale del poema, ma negli accessorii cavallereschi. L’amore di Orlando verso Angelica è stato perfettamente cavalleresco, sí che, avendola per molto tempo in sua mano, non le ha tolto l’onore, «almeno» secondo che Angelica ne assicura Sacripante, il quale dal canto suo non vuole essere «cosí sciocco». Doralice piange la morte di Mandricardo; ma, se non fosse vergogna, andrebbe «forse» a stringer la mano a Ruggiero:
Io dico «forse», non ch’io ve l’accerti, |
Un riso scettico aleggia sulle virtú cavalleresche e sui grandi colpi de’ cavalieri, quei gran colpi «ch’essi soli sanno fare». Una frase, un motto scopre l’ironia sotto le piú serie apparenze. È un riso talora a fior di labbra, appena percettibile nella serietá della fisonomia.
Questo risolino, che quasi involontariamente erra tra le labbra e non si propaga sulla faccia e non degenera che assai di rado in aperta e sonora risata, questa magnifica esposizione artistica che ti dá tutta l’apparenza e l’illusione della realtá nelle cose piú strane e assurde; tutto questo, fuso insieme senz aria d’intenzione e di malizia e con perfetta bonarietá, ti mostra la concezione come un corpo in movimento e cangiante, che non puoi fissare e definire, piú simile a fantasma che a corpo. Non sai se è cosa seria o da burla; pur ti piace, perché, mentre la tua immaginazione è soddisfatta, il tuo buon senso non è offeso, e contempli le vaghe fantasie egregiamente dipinte di secoli infantili col risolino intelligente di un secolo adulto.
Questo mondo, dove non è alcuna serietá di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore, e non amore; questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la serietá di un’alta ispirazione artistica. Il poeta considera il mondo non come un esercizio serio della vita nello scopo e ne’ mezzi, ma come una docile materia abbandonata alle combinazioni e a’ trastulli della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è cosí serio artisticamente, come è serio il lavoro di Omero, di Virgilio o di Dante; e ci è insieme la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò, dal punto di vista del reale, uno scherzo o, come dicea il cardinale Ippolito, una «corbelleria». E sarebbe stata una corbelleria, se l’autore avesse voluto dargli piú serietá che non portava e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la corbelleria diviene una concezione profonda di veritá, perché il poeta è il primo a riderne dietro la tela, ed ha l’aria di beffarsi lui de’ suoi uditori. Questo stare al di sopra del mondo, e tenerne in mano le fila, e fare e disfare a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d’immaginazione, è ciò che dicesi «capriccio» e «umore». Se non che il poeta è zimbello spesso della sua immaginazione, e si obblia in quel suo mondo, e gli dá l’ultima finitezza. Di che nasce che l’umore piglia la forma contenuta dell’ironia, e tu ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtú, vero e falso confondono i loro confini, e dove tutto è superficie: passioni, caratteri, mezzi e fini; superficie maravigliosa per chiarezza, semplicitá e naturalezza di esposizione, che all’ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una frase ironica: dispare, ma dopo di avere destata la tua ammirazione e suscitate in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco dell’immaginazione, dove si rivela un cosí alto sentimento dell’arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno. E perché questo è fatto senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro in antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l’uno nell’altro, sono la rappresentazione artistica dell’un mondo con sópravi l’impronta dell’altro. In questa fusione piú sentita che pensata, e che fa dell’autore e della sua creazione un solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la veritá e la perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza artistica il lavoro piú finito dell’immaginazione italiana, e per il profondo significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito umano.