Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XII. Il Cinquecento

XII. Il Cinquecento

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XI. Le Stanze XIII. L'Orlando furioso
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XII

IL CINQUECENTO


[L’ideale sensuale-letterario-artistico — L’idillio e l’Arcadia del Sannazaro: il comico come aspetto negativo — La calata degli stranieri e il mezzo secolo di guerre — Svolgimento, attraverso quel periodo, della cultura del Rinascimento — Lineamenti del Cinquecento — Progresso di cultura — Lo stile italiano-letterario, e il toscano-popolare — Crescente numero di scrittori — Rimatori e latinisti — Letteratura di corte — Culto della forma e indifferenza pel contenuto — Le arti figurative: le Madonne — Le architetture — La Scuola di Atene, la chiesa di San Pietro, e l’Orlando furioso: le tre grandi sintesi del secolo — La pura arte, e l’ironia chela dissolve, nel poema ariostesco — Vani tentativi di poemi gravi: il Trissino e Bernardo Tasso — Legami del poema ariostesco con l’idillio: Molza, Castiglione, Rucellai, ecc. — E con la poesia comica e burlesca: Francesco Berni — E con la novella. Novellieri del Cinquecento: il Lasca, lo Straparola e altri — Languore del fantastico e del tragico: rigoglio del comico e dell’osceno — Le Maccheronee del Folengo — Aspetto positivo della cultura italiana: la scienza: Pomponazzi e altri — Materialismo della vita — Lutero, barbaro per gli italiani: impossibilitá di una riforma religiosa in Italia — Non misticismo, ma realismo; non teologia, ma scienza: Niccolò Machiavelli — Il realismo nel Machiavelli: la scienza, la prosa e l’indirizzo moderno dell’arte.]

Di questo ideale, di cui adombra i lineamenti Giovanni Boccaccio, non hai finora che segni, indizi, frammenti. Il suo lato positivo è una sensualitá nobilitata dalla coltura e trasformata nel culto della forma come forma, il regno solitario dell’arte nell’anima tranquilla e idillica: di che trovi l’espressione filosofica nell’accademia platonica, massime nel Ficino e nel Pico, e l’espressione letteraria nell’Alberti e nel Poliziano, a cui con pari tendenza, ma con minore abilitá tecnica e artistica, si avvicina il Boiardo. Il protagonista di questo mondo nuovo è Orfeo, [p. 388 modifica]e il suo modello piú puro e perfetto sono le Stanze. Accanto al Poliziano, pittore della natura, sta Battista Alberti, pittore dell’uomo. Attorno a questi due spuntano egloghe, elegie, poemetti bucolici, rappresentazioni pastorali e mitologiche: la beata Italia in quegli anni di pace e di prosperitá s’interessava alle sorti di Cefalo e agli amori di Ergasto e di Corimbo. Le accademie, le feste, le colte brigate erano un’Arcadia letteraria, alla quale in quel vuoto e ozio degli spiriti il pubblico prendeva una viva partecipazione. A Napoli, a Firenze, a Ferrara si vivea tra novelle, romanzi ed egloghe. Gli uomini, giá cospiratori, oratori, partigiani, patrioti, ora vittime ora carnefici, sospiravano tra ninfe e pastori. E mi spiego l’infinito successo che ebbe l’Arcadia del Sannazaro, la quale parve a’ contemporanei l’immagine piú pura e compiuta di quell’ideale idillico. Ma di questo Virgilio napolitano non è rimasta viva che qualche sentenza felicemente espressa, come:

L’invidia, figliuol mio, se stessa macera...
Peggiora il mondo e peggiorando invetera.

Né della sua Arcadia è oggi la lettura cosa tollerabile, e per la rigiditá e artificio della prosa monotona nella sua eleganza, e per un cotal vuoto e rilassatezza di azione e di sentimento, che esprime a maraviglia quell’ozio interno, che oggi chiameremmo noia, e allora era quella placiditá e tranquillitá della vita, dove ponevano l’ideale della felicitá.

Il lato negativo di questo ideale era il comico: una sensualitá licenziosa e allegra e beffarda, che in nome della terra metteva in caricatura il cielo, e rappresentava col piglio ironico di una coltura superiore le superstizioni, le malizie, le dabbenaggini, i costumi e il linguaggio delle classi meno colte. Da questa coltura sensuale, cinica e spiritosa usci quell’epiteto «i piagnoni», che fu a Savonarola piú mortale della scomunica papale. I canti carnascialeschi sono il tipo del genere: il suo poeta è il Boccaccio, il suo storico è il Sacchetti, il suo istrione è il Pulci, il suo centro è Firenze. A questo lato negativo si congiunge il Pomponazzi, che spezza ogni legame tra cielo e terra, [p. 389 modifica]negando l’immortalitá dell’anima. Era il vero motto, il segreto del secolo, la coscienza filosofica di una societá indifferente e materialista, che si battezzava platonica, predicava contro i turchi e gli ebrei, voleva il suo papa, il suo Alessandro sesto, che cosí bene la rappresentava, e non poteva perdonare al Pomponazzi di dire ad alta voce i suoi segreti, quando ella medesima non si aveva fatta ancora la domanda: — Cosa sono? e dove vado? —

Questa societá tra balli e feste e canti e idilli e romanzi fu un bel giorno sorpresa dallo straniero e costretta a svegliarsi. Era verso la fine del secolo. Il Pontano bamboleggiava in versi latini e il Sannazaro sonava la sampogna; e la monarchia disparve, come per intrinseca rovina, al primo urto dello straniero. Carlo ottavo correva e conquistava Italia col gesso. Trovava un popolo, che chiamava lui un barbaro, nel pieno vigore delle sue forze intellettive e nel fiore della coltura, ma vuota l’anima e fiacca la tempra. Francesi, spagnuoli, svizzeri, lanzichenecchi insanguinarono l’Italia, insino a che, caduta con fine eroica Firenze, cesse tutta in mano dello straniero. La lotta durò un mezzo secolo, e fu in questi cinquant’anni di lotta che l’Italia sviluppò tutte le sue forze e attinse quell’ideale che il Quattrocento le aveva lasciato in ereditá.

All’ingresso del secolo incontriamo Machiavelli e l’Ariosto, come all’ingresso del Trecento trovammo Dante. Machiavelli aveva giá trentun anno, e ventisei ne aveva l’Ariosto. E sono i due grandi, ne’ quali quel movimento letterario si concentra e si riassume, attingendo l’ultima perfezione.

Gittando un’occhiata sull’insieme, è patente il progresso della coltura in tutta Italia. Il latino e il greco è generalmente noto, e non ci è uomo colto che non iscriva corretto ed anche elegante in lingua volgare, che oramai si comincia a dire senz’altro «lingua italiana». Ma fuori di Toscana il tipo della lingua si discosta dagli elementi locali e nativi e si avvicina al latino, producendo cosí quella forma comune di linguaggio che Dante chiamava «aulica e illustre». I letterati, sdegnando i dialetti e vagheggiando un tipo comune, e riconoscendo nel latino la [p. 390 modifica]perfezione e il modello, secondo l’esempio giá dato dal Boccaccio e da Battista Alberti, atteggiarono la lingua alla latina. E non pur la lingua, ma lo stile, mirando alla gravitá, al decoro, all’eleganza, con grave scapito della vivacitá e della naturalezza. Questo concetto della lingua e dello stile, creazione artificiosa e puramente letteraria, ebbe séguito anche in Toscana, come si vede ne’ mediocri, quale il Varchi o il Nardi, e anche ne’ sommi, come nel Guicciardini e fino talora nel Machiavelli. La quale forma latina di scrivere, sposata nel Boccaccio e nell’Alberti alla grazia e al brio del dialetto, cosí nuda e astratta ha la sua espressione pedantesca negli Asolani del Bembo, e giunge a tutto quel grado di perfezione di cui è capace nel Galateo del Casa e nel Cortigiano del Castiglione. Ma in Toscana quella forma artificiale di lingua e di stile incontrò dapprima viva resistenza; e senti negli scrittori il sapore del dialetto, quella non so quale atticitá, che nasce dall’uso vivo e che ti fa non solo parlare ma sentire e concepire a quella maniera, come si vede nelle Novelle del Lasca, ne’ Capricci del bottaio e nella Circe del Gelli, nell’Asino d’oro e ne’ Discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola. Ma anche in questi hai qua e lá un sentore della nuova maniera ciceroniana e boccaccevole, come non mancano fra gli altri italiani uomini d’ingegno vivace che si avvicinano alla spigliatezza e alla grazia toscana, quale si mostra Annibal Caro negli Straccioni, nelle Lettere, nel Dafni e Cloe. La lotta durò un bel pezzo tra la fiorentinitá e quella forma comune e illustre che battezzavano «lingua italiana», cioè a dire tra la forma popolare o viva ed una forma convenzionale e letteraria. Anche in Toscana gli uomini colti non si contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona, come faceva il Lasca e Benvenuto Cellini, ma avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma nobile e decorosa. La borghesia voleva il suo linguaggio, e lo stacco si fece sempre piú profondo tra essa e il popolo.

Fioccavano i rimatori. Da ogni angolo d’Italia spuntavano sonetti e canzoni. Le ballate, i rispetti, gli stornelli, le forme spigliate della poesia popolare, andarono a poco a poco in [p. 391 modifica]disuso. Il petrarchismo invase uomini e donne. La posteritá ha dimenticati i petrarchisti, e appena è se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da Pietro Bembo, boccaccevole e petrarchista, tenuto allora principe della prosa e del verso.

Certo, prose e versi erano nel loro meccanismo di una buona fattura, e l’ultimo prosatore o rimatore scrivea piú corretto e piú regolato che parecchi pregiati scrittori de’ secoli scorsi. E perché tutti scrivevano bene e tutti sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo ben sonante, moltiplicarono gli scrittori, e furono tentati tutt’i generi. Comparvero commedie, tragedie, poemi, satire, orazioni, storie, epistole, tutto a modo degli antichi. Il Trissino scrivea l’Italia liberata e la Sofonisba, Luigi Alamanni faceva il Giovenale e monsignor della Casa contraffaceva Cicerone. A’ misteri successero commedie e tragedie, con magnifica rappresentazione. E non solo le forme del dire latine, ma anche la mitologia s’incorporava nella lingua: e si giurò per gl’«iddii immortali»; e Apollo, le muse, Elicona, il Parnaso, Diana, Nettuno, Plutone, Cerbero, le ninfe, i satiri divennero luoghi comuni in prosa ed in verso. Sapere il latino non era piú un merito: tutti lo sapevano, come oggi il francese, e mescolavano il parlare di parole latine, per vezzo o per maggiore efficacia. Ci erano gl’improvvisatori, che nelle corti lí su due piedi fabbricavano epigrammi e facezie, come oggi si fa i brindisi, e ne avevano in merito qualche scudo o qualche bicchiere di buon vino, che Leone decimo dava annacquato al suo «archipoeta», un improvvisatore di distici, quando il distico mal riusciva. E c’erano anche non pochi che conoscevano ottimamente il latino e lo scrivevano con rara perfezione, come il Sannazaro, il Fracastoro e il Vida, i cui poemi latini sono ciò che di piú elegante siesi scritto in quella lingua ne’ tempi moderni. Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio.

Latinisti e rimatori erano le due piú grosse schiere de’ letterati. Nelle loro opere l’importante è la «frase», un certo artificio di espressione che riveli nell’autore coltura e conoscenza [p. 392 modifica]de’ classici. I lettori, non meno colti ed eruditi, rimanevano ammirati, trovando nel loro libro le orme del Boccaccio o del Petrarca, di Virgilio o di Cicerone. Pareva questa imitazione il capolavoro dell’ingegno. E mi spiego come uomini assai mediocri furono potuti tenere in cosí gran pregio, quali Pietro Bembo, il caposcuola, e monsignor Guidiccioni e Bernardo Tasso e simili, noiosissimi. Ma la frase, in tanta insipidezza del fondo, non poteva essere sufficiente alimento all’attivitá di una borghesia cosí svegliata ed eccitata, che decorava la sua sensualitá e il suo ozio co’ piaceri dello spirito. Salse piccanti si richiedevano, fatti maravigliosi e straordinari, intrecciati in modo che stimolassero la curiositá e tenessero viva l’attenzione. L’intrigo diviene la base delle novelle, de’ romanzi, delle commedie e delle tragedie; un intrigo cosí avviluppato che è assai vicino al garbuglio. Si cerca ne’ fatti il nuovo e lo strano, che stuzzichi l’immaginazione: il buffonesco e l’osceno nella commedia, il mostruoso e l’orribile nella tragedia. Dall’una parte ci è la frase, vacua sonoritá, dall’altra il fatto, il vacuo fatto uscito dal caso: e come la frase oltrepassa l’eleganza ed è pretensiosa, come nel Bembo, o leziosa e civettuola, come nel Firenzuola o nel Caro; cosí il fatto, per voler troppo stuzzicare, diviene osceno o mostruoso e sempre assurdo. Il realismo, abbozzato dal Boccaccio, sviluppato nel Quattrocento, corre ora a passo accelerato alle ultime conseguenze: la dissoluzione morale e la depravazione del gusto. Ci è nella societá italiana una forza ancora intatta, che in tanta corruzione la mantiene viva, ed è nel pubblico l’amore e la stima della coltura, e negli artisti e letterati il culto della bella forma, il sentimento dell’arte. In quella forma letteraria e accademica vedevano gl’italiani una traduzione della lingua viva, il parlare quotidiano idealizzato secondo quel modello dove ponevano la perfezione; ed eran larghi non pur di lodi ma di quattrini e di onori a questi artefici della forma. I centri letterari moltiplicarono: comparvero nuove accademie; e le piú piccole corti divennero convegni di letterati, i piú oscuri principi volevano il segretario che ponesse in bello stile le loro lettere, e letterati e artisti che li divertissero. Il centro principale fu a [p. 393 modifica]Roma, nella corte di Leone decimo, dove convenivano d’ogni parte novellatori, improvvisatori, buffoni, latinisti, artisti e letterati, come giá presso Federico secondo. Anche i cardinali avevano segretari e parassiti di questa risma; anche i ricchi borghesi, come il conte Gambara di Brescia, il Chigi, i Sauli a Genova, i Sanseverino a Milano. Intorno a Domenico Veniero in Venezia si aggruppavano Bernardo Tasso, Trifon Gabriele, il Trissino, il Bembo, il Navagero, Speron Speroni; a Vittoria Colonna facevano cerchio in Napoli il vecchio Sannazaro, e il Costanzo, il Rota, il Tarsia. Da questi noti s’indovini la caterva de’ minori. Pensioni, donativi, impieghi, abbazie, canonicati, era la manna che piovea sul loro capo. E c’era anche la gloria: onorati, festeggiati, divinizzati, e senza discernimento confusi i sommi e i mediocri. Furono chiamati «divini», con Michelangelo e l’Ariosto, Pietro Aretino e il Bembo e Bernardo Accolti, detto anche «l’unico». Costui, fatto duca, usciva con un corteggio di prelati e guardie svizzere; dove giungeva, s’illuminavano le cittá, si chiudevano le botteghe, si traeva ad udire i suoi versi dimenticati: tanti onori non furono fatti al Petrarca. I letterati acquistarono coscienza della loro importanza: pitocchi e adulatori, divennero insolenti e si posero in vendita, e la loro storia si può riassumere in quel motto di Benvenuto Cellini: «Io servo a chi mi paga». Come si facevano statue, quadri, tempii per commissioni, cosí si facevano storie, epigrammi, satire, sonetti a richiesta, e spesso l’ingiuria era via a vendere a piú caro prezzo la lode. In quest’aria viziata gli uomini anche meno corrotti divenivano servili e ciarlatani per far valere la merce. Non ci è immagine piú straziante che vedere l’ingegno appiè della ricchezza, e udir Machiavelli chiedere qualche ducato a Clemente settimo, e l’Ariosto gridare al suo signore che non aveva di che rappezzarsi il manto, e veder Michelangelo, quando,

                    da’ rei tempi costretto,
eroi dipinse a cui fu campo il letto:

sdegnose parole di Alfieri. Soverchiavano i mediocri con l’audacia, la ciarlataneria, l’intrigo e la bassezza, ora addentandosi [p. 394 modifica]ora strofinandosi, temuti e corteggiati. Vecchia storia; ed è a credere che la cosa fosse pure cosí a’ tempi di Federico o di Roberto. Se non che allora la dottrina era merce rara e richiedeva molta fatica ad acquistarla; dove ora la coltura e il sapere era diffuso, e lo scrivere in prosa e in verso era divenuto un vero meccanismo facile a imparare, che teneva luogo d’ispirazione, e per la somiglianza esteriore confondeva nella stessa lode sommi e mediocri. Di grandi uomini è pieno quel secolo, se si dee stare a’ giudizi de’ contemporanei. Francesco Arsilli nella sua elegia De poëtis urbanis ti dá la lista di cento poeti latini nella sola corte di Leone decimo, e lo stesso Ariosto celebra nomi oggi dimenticati. Bernardo Tasso, il Rucellai, l’Alamanni, il Giovio, lo Scaligero, il Muzio, il Doni, il Dolce, il Franco e altri infiniti furono tenuti cime d’uomini, che oggi nessuno piú legge. Pure ne’ piú, anche ne’ mediocrissimi, era viva la fede nella loro arte e lo studio di rendervisi perfetti. Venale era il Giovio, e ossequioso cortigiano era Bernardo Tasso; ma, quando prendevano la penna, c’era qualche cosa nel loro animo che li nobilitava, ed era lo studio della perfezione, il prendere sul serio il loro mestiere.

Quest’era la sola forza, la sola virtú rimasta intatta. La corruzione e la grandezza del secolo non era merito o colpa di principi o letterati, ma stava nella natura stessa del movimento ond’era uscito, che ora si rivelava con tanta precisione; generato non da lotte intellettuali e novitá di credenze, come fu in altri popoli, ma da una profonda indifferenza religiosa, politica, morale, accompagnata con la diffusione della coltura, il progresso delle forze intellettive e lo sviluppo del senso artistico. Qui è il germe della vita e qui è il germe della morte; qui è la sua grandezza e la sua debolezza.

Questo movimento è giá come in miniatura tutto raccolto presso il Boccaccio, il quale, se riproduce con vivacitá le apparenze, non ne ha coscienza e non sa qual mondo nuovo sia in fermentazione sotto le sue ciniche caricature. Del qual mondo nuovo appariscono i frammenti dal Sacchetti al Pulci, che ne fissano il lato negativo e comico, mentre il suo ideale [p. 395 modifica]trasparisce giá nell’Alberti, nel Boiardo, nel Poliziano. La violenta reazione del Savonarola non fa che accrescere forza e celeritá al movimento e dargli coscienza di sé. Il secolo decimosesto nella sua prima metá non è che questo medesimo movimento scrutato profondamente, rappresentato nel suo insieme e condotto per le varie sue forme sino al suo esaurimento. È la sintesi che succede all’analisi.

Qual è il lato positivo di questo movimento? È l’ideale della forma, amata e studiata come forma, indifferente il contenuto.

E qual è il suo lato negativo? È appunto l’indifferenza del contenuto: una specie di eccletismo negli uni, come Raffaello, Vinci, Michelangelo, il Ficino, il Pico, che abbracciano ogni contenuto, perché ogni contenuto appartiene alla coltura, all’arte e al pensiero; eccletismo accompagnato negli altri da una satira allegra e senza fiele di quei principi e forme e costumi del passato ancora in credito presso le classi inculte.

Ciò che è divino in questo movimento è l’ideale della forma, o, per trovare una frase piú comprensiva, è la coltura presa in se stessa e deificata. Il lato comico e negativo non è, esso medesimo, che una rivelazione della coltura.

Il «limbo» di Dante e l’Amorosa visione del Boccaccio fanno giá presentire quest’orgoglio di un’etá nuova, che comprendeva e glorificava tutta la coltura. Orfeo annunzia al suono della lira la nuova civiltá, che ha la sua apoteosi nella Scuola di Atene, ispirazione dantesca di Raffaello, rimasta cosí popolare perch’ivi è l’anima del secolo, la sua sintesi e la sua divinitá. Questa Scuola d'Atene con i tre quadri compagni, che comprendono nel loro sviluppo storico teologia, poesia e giurisprudenza, è il poema della coltura, di cosí larghe proporzioni come il paradiso di Dante, aggiuntovi il limbo. Il quadro diviene una vera composizione come lo vagheggiava Dante ne’ suoi dipinti del purgatorio: il suo santo Stefano e il suo Davide hanno un riscontro nel Cenacolo, nella Sacra famiglia, nella Trasfigurazione, nel Giudizio; poemi sparsi qua e lá di presentimenti drammatici. Il pittore vagheggia la bellezza nella forma come l’Alberti o il Poliziano, [p. 396 modifica]e studia possibilmente a non alterare con troppo vivaci commozioni la serenitá e il riposo de’ lineamenti: perciò riescono figure epiche anzi che drammatiche. Quel non so che tranquillo e soddisfatto, che senti nelle stanze del Poliziano e ti avvicina piú al riposo della natura che all’agitazione della faccia umana, quella «pace tranquilla senz’alcuno affanno», è l’impronta di queste belle forme: salvo che quella pace non è giá «simile a quella che nel cielo india», un ideale musicale, come Beatrice e Laura, ma vien fuori da uno studio del reale ne’ suoi piú minuti particolari. Senti che il pittore ha innanzi un «modello» accuratamente studiato e contemplato con amore, che nella sua immaginazione si compie e prende quella purezza e riposo di forma che Raffaello chiamava «una certa idea». In questa certa idea ci entra pure alcun poco il classico, il convenzionale e la scuola: difetti appena visibili ne’ lavori geniali, usciti da una sincera ispirazione, dove domina il sentimento della bellezza e lo studio del reale. Cosí nacquero le Madonne del secolo, nella cui fisonomia non è l’inquietudine, l’astrazione e l’estasi della santa, ma la ingenua e idillica tranquillitá della verginitá e dell’innocenza. Queste facce si vanno sempre piú realizzando, insino a che nella immaginazione veneziana di Tiziano pigliano una forma quasi voluttuosa.

La stessa larghezza di concezione nella purezza e semplicitá de’ lineamenti trovi nell’architettura: il gotico è debellato dal Brunelleschi; si collega insieme l’ardito e il semplice, Michelangiolo e Palladio. Chi ricordi in che guisa l’Alberti rappresenta il duomo di Firenze, può concepire il San Pietro: la vasta mole, che è il medio evo nella sua materia e il mondo nuovo ne’ suoi motivi; la vera e profonda sintesi di tutto quel gran movimento, che ti offriva nell’apparenza lo stesso mondo del passato, quelle forme, quei nomi, quei costumi, que’ concetti e quella materia, pure sostanzialmente trasformato ne’ suoi motivi, uscito dalla coscienza e divenuto un puro ideale artistico, l’ideale della forma. Questa materia antica, penetrata di uno spirito nuovo, nella sua vasta comprensione epica, dove trovi fusi tutti gli elementi della nuova civiltá, ti dá anche la letteratura [p. 397 modifica]nell’Orlando furioso. La Scuola di Atene, il San Pietro, l’Orlando furioso sono le tre grandi sintesi del secolo.

L’Orlando furioso ti dá la nuova letteratura sotto il suo duplice aspetto, positivo e negativo. È un mondo vuoto di motivi religiosi, patriottici e morali; un mondo puro dell’arte, il cui obbiettivo è realizzare nel campo dell’immaginazione l’ideale della forma. L’autore vi si travaglia con la piú grande serietá, non ad altro inteso che a dare alla sua materia l’ultima perfezione, cosí nell’insieme come ne’ piú piccoli particolari. Il poeta non ci è piú, ma ci è l’artista che continua il Petrarca, il Boccaccio, il Poliziano, e chiude il ciclo dell’arte nella poesia. Ma, poiché infine questo mondo cosí bello, edificato con tanta industria, non è che un giuoco d’immaginazione, vi penetra un’ironia superiore, che se ne burla e vi si spassa sopra col piú allegro umore. La parte plebea, che nel Decamerone occupa il proscenio, qui giace ne’ bassi fondi, con la sua oscenitá e la sua buffoneria; e sorge a galla il mondo della cortesia e del valore, ne’ suoi piú bei colori, ma accompagnato da questo sentimento, che è un bel sogno: la realtá si fa valere e disfá il castello incantato. È la visione severa di un’anima ricca che si effonde in amabili fantasie, elegiaca nelle sue turbazioni, idillica nelle sue gioie, con non altro fine e non altra serietá che la produzione artistica. Nelle arti figurative la produzione è accompagnata con un perfetto obblio dell’anima nella sua creatura: Raffaello è tutto intero nella sua opera, e non guarda mai fuori, e realizza la sua idea con quella serietá con la quale Dante costruisce l’altro mondo. L’ideale della forma, che si esprime con tanta serietá nelle arti, non ha ancora la coscienza che esso è mera forma, mero giuoco d’immaginazione. Ma qui l’arte si manifesta e si sente pura arte, e sa che il mondo reale non è quello, e accompagna con un sorriso la sua produzione. In questo sorriso, in questa presenza e coscienza del reale tra le piú geniali creazioni è il lato negativo dell’arte, il germe della dissoluzione e della morte.

Intorno a questo mondo ariostesco pullulano poemi e romanzi e novelle. Lascio stare il Girone e l’Avarchide dell’Alamanni, [p. 398 modifica]prette imitazioni, senza alcuna serietá. Dirò un motto di due che tentarono vie nuove, il Trissino e Bernardo Tasso. A tutti e due spiacque il sorriso ariostesco. Orlando e Rinaldo parvero al Trissino, non altrimenti che al cardinale d’Este, delle «corbellerie», fole e capricci di cervello ozioso. Cercando nella storia le sue ispirazioni e in Omero il suo modello, scrisse l’Italia liberata da’ goti. Nella sua intenzione dovea essere un poema eroico e serio come l’Iliade, che chiamasse l’Italia ad alti e virili propositi. Ma il Trissino non era che un erudito, non poeta e non patriota, e non potea trasfonder negli altri un eroismo che non era nella sua anima e nemmeno nella sua arida immaginazione. Di eroico non c’è nel suo poema che le armi e le divise: manca l’uomo. La sua punizione fu il silenzio e la dimenticanza; e il poveruomo, non volendo recarne la colpa a difetto d’ingegno, se la piglia con l’argomento, e prorompe:

Sia maledetta l’ora e il giorno, quando
presi la penna e non cantai d’Orlando.

Ma l’argomento cavalleresco non valse a salvare dal naufragio Bernardo Tasso, che nel suo Floridante e nel suo Amadigi, piú noto, vagheggiò una rappresentazione epica piú conforme a’ precetti dell’arte e lontana da ciò ch’egli diceva «licenza ariostesca». Non piacque al pubblico, ma piacque a Speron Speroni, come il Girone era piaciuto al Varchi. E il pubblico avea ragione; ché non s’intendeva di Aristotile e di Omero, e non poteva pigliare sul serio gli eroi cavallereschi, si chiamassero Orlando o Amadigi. Bernardo è tutto fiori e tutto mèle: cosí artificiato e prolisso lui, come il Trissino negletto e arido; tutti e due noiosi. Piacque invece l’Orlando innamorato rifatto dal Berni, dove la soverchia e uniforme serietá del testo è temperata da forme ed episodi comici, appiccativi dal Berni. Ma il comico non passa la buccia e non penetra nell’intimo stesso di quel mondo e non lo trasforma; e il Berni mi fa l’effetto di quel buffone nelle commedie, posto lí per far ridere il pubblico co’ suoi lazzi, mentre gli attori accigliati conservano la lor posa tragica. [p. 399 modifica]

Scrivere romanzi diviene un mestiere: l’epopea ariostesca è smembrata, e i suoi episodi diventano romanzi. Sei ne scrive Lodovico Dolce tra’ quali Le prime imprese di Orlando. Il Brusantini ferrarese canta Angelica innamorata, il Bernia canta Rodomonte, il Pescatore Ruggiero, e Francesco de’ Lodovici Carlo magno. Romanzi con la stessa facilitá composti, applauditi e dimenticati. Accanto agl’imitatori del Petrarca e del Boccaccio sorgono gl’imitatori dell’Ariosto.

Il mondo ariostesco nel suo lato positivo si collega con l’idillio, e nel suo lato negativo con la satira e la novella.

Dal Petrarca e dal Boccaccio al Poliziano l’idillio è la vera musa della poesia italiana, la materia nella quale lo spirito realizza l’ideale della pura forma, l’arte come arte. In quella grande dissoluzione sociale la poesia lascia le cittá e trova il suo ideale ne’ campi, tra ninfe e pastori, fuori della societá, o piuttosto in una societá primitiva e spontanea.

Lá trovi quell’equilibrio interiore, quella calma e riposo della figura, quella perfetta armonia de’ sentimenti e delle impressioni che chiamavano l’«ideale della bellezza» o della «bella forma». Questo spiega la grande popolaritá delle Stanze, dove questo ideale si vede realizzato con grande perfezione. Sono imitazioni la Ninfa tiberina del Molza e il Tirsi del Castiglione. Nella Ninfa tiberina hai di belle stanze: Euridice in fuga con alle spalle l’innamorato Euristeo è cosí dipinta:

     La sottil gonna in preda ai venti resta,
e col crine ondeggiando indietro torna.
Ella, piú ch’aura o piú che strale presta,
per l’odorata selva non soggiorna,
tanto che ’l lito prende snella e mesta,
fatta per la paura assai piú adorna.
Esce Aristeo la vaga selva anch’egli,
e la man par avergli entro i capegli.
     Tre volte innanzi la man destra spinse
per pigliar de le chiome il largo invito;
tre volte il vento solamente strinse,
e restò lasso senza fin schernito.

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Maniera corretta, e nulla piú. Manca in queste stanze il movimento, il brio, il sentimento, o piuttosto la voluttá idillica del Poliziano. La stessa parca lode è a fare de’ due poemi idillici, le Api del Rucellai e la Coltivazione dell’Alamanni. Ci è naturalezza, manca il sangue.

L’idillio fu la moda dell’Italia ne’ suoi anni di pace e di prosperitá. Era il riposo voluttuoso di una borghesia stanca di lotte e ritirata deliziosamente nella vita privata, fra ozi e piaceri eleganti. Ora, tra il rumore delle armi, fra tante avventure e agitazioni della vita, sottentra il romanzo cavalleresco. L’idillio cessa di essere un genere vivo e va a raggiungere il platonismo e il petrarchismo. Gli angeli e il paradiso, Giove e Apollo, le piagge apriche e i vaghi colli, i languori di Tirsi e le smanie di Aristeo fanno lega insieme, e n’esce un vasto repertorio di luoghi comuni dove attingono poeti e poetesse, ché di poetesse fu anche fecondo il secolo.

Il Quattrocento ondeggiava tra l’idillio e il carnevale: ozio di villa e ozio di cittá. La quiete idillica era il solo ideale superstite, nella morte di tutti gli altri, presso una societá sensuale e cinica, la cui vita era un carnevale perpetuo. Celebri diventano il carnevale di Venezia e il carnevale di Roma. I canti carnascialeschi fanno il giro d’Italia. La buffoneria, l’equivoco osceno, lo scherzo grossolano diventano un elemento importante della letteratura in prosa e in verso, l’impronta dello spirito italiano. Le accademie sono il semenzaio di lavori simili. Esse rassomigliano quelle liete brigate di buontemponi e fannulloni che ispirarono il Decamerone, modello del genere. Sono letterati ed eruditi in pieno ozio intellettuale, che fanno per sollazzarsi versi e prose sopra i piú frivoli argomenti; tanto piú ammirati per la vivacitá dello spirito e l’eleganza delle forme quanto la materia è piú volgare. Strani sono i nomi di queste accademie e di questi accademici, come lo Impastato, il Raggirato, il Propaginato, lo Smarrito, ecc. E recitano le loro dicerie o, come dicevano, «cicalate» sull’insalata, sulla torta, sulla ipocondria: inezie laboriose. Simili cicalate, fatte in verso, erano dette «capitoli»: il Casa canta la gelosia, il Varchi le ova sode, [p. 401 modifica]il Molza i fichi, il Mauro la bugia, il Caro il naso lungo: si cantano le cose piú volgari e anco piú turpi, e spesso con equivoci e allusioni oscene, al modo di Lorenzo, il maestro del genere. Il carnevale dalla piazza si ritira nelle accademie, e diviene piú attillato, ma anche piú insipido. Tra queste accademie era quella dei Vignaiuoli a Roma, dove recitavano il Mauro, il Casa, il Molza, il Berni tra prelati e monsignori. Il Berni piacque fra tutti, e si disputavano i suoi capitoli e se li passavano di mano in mano.

Francesco Berni, «maestro e padre del burlesco stile», detto poi «bernesco», è l’eroe di questa generazione, erede di Giovanni Boccaccio e di Lorenzo, nella sua sensualitá ornata dalla coltura e dall’arte. Nella sua ammirazione per questo «primo e vero trovatore» dello stile burlesco, il Lasca dice:

     Non sia chi mi ragioni di Burchiello;
chè saria proprio come comparare
Caron demonio all’agnol Gabriello.

Buontempone, amico del suo comodo e del dolce far niente la sua divinitá è l’ozio piú che il piacere:

     Cacce, musiche, feste, suoni e balli
giochi, nessuna sorte di piaceri
troppo il movea...
Onde il suo sommo bene era in iacere
nudo, lungo, disteso; e ’l suo diletto
era non far mai nulla e starsi in letto.

Ma il poveruomo è costretto a lavorare per guadagnarsi la vita, e fa il segretario, come tutti quasi i letterati di quel tempo, a’ servigi di questo e quel cardinale:

     Aveva sempre in seno e sotto il braccio
dietro e innanzi di lettere un fastello,
e scriveva e stillavasi il cervello.

[p. 402 modifica]

Dietro a’ capricci del suo padrone, una volta non ne può piú, ché ha sonno e dee stare li a guardarlo giocare la primiera:

     Può far la nostra donna ch’ogni sera
io abbia a stare a mio marcio dispetto
infino alle undici ore andarne a letto,
a petizion di chi giuoca a primiera?
     Direbbon poi costoro: — Ei si dispera,
e a’ maggiori di sé non ha rispetto. —
Corpo di..., io l’ho pur detto:
hassi a vegliar la notte intera intera?

La morte di papa Leone gitta il terrore tra’ letterati, che vedono mancare la mangiatoia; e piú quando il successore è Adriano sesto fiammingo, «oltramontano», «avaro», «contadino», e non so quanti altri epiteti gli appicca nella sua indignazione il Berni:

     Pur, quando io sento dire «oltramontano»,
vi fo sopra una chiosa col verzino:
«idest nimico del sangue italiano».

Era in fondo un brav’uomo, senza fiele, un buon compagnone col quale si passava piacevolmente un quarto d’ora, anima tranquilla e da canonico, vuota di ambizioni e di cupidigie e di passioni, e anche d’idee. Sapea di greco e piú di latino, e fece anche lui i suoi bravi versi latini e i suoi sonetti petrarcheschi, come portava il tempo. Scrivea il piú spesso «a sfogamento di cervello, il maggior suo passatempo». Non cercava l’eleganza per fuggire fatica, e gli veniva «il sudor della morte» quando si dovea «metter la giornea» e rispondere «per le consonanze o per le rime» a lettere eleganti. Lo scrivere stesso gli era fatica. «A vivere avemo sino alla morte — dice al Bini, — a dispetto di chi non vuole, e il vantaggio è vivere allegramente, come conforto a far voi, attendendo a frequentar quelli banchetti che si fanno per Roma, e scrivendo soprattutto il manco che potete; quia haec est victoria quae vincit mundum». Si qualifica «asciutto di parole, poco cerimonioso e intrigato in servitú»: ottime scuse alla sua pigrizia. E quando lo assediano e lo [p. 403 modifica]tormentano e si dolgono che non risponda e non li ami e li dimentichi, gli viene la stizza:

     Perché m’ammazzi con le tue querele,
Priuli mio, perché ti duoli a torto,
che sai che amo piú te che l’orso il miele?
     Sai che nel mezzo del petto ti porto
serrato, stretto, abbarbicato e fitto,
piú che non son le radici nell’orto.
     Se ti lamenti perché non ti ho scritto...

E qui si calma la stizza, e vince la pigrizia; e la lettera finisce con un «eccetera». Benedetta pigrizia, che lo fa parlare «come gli viene alla bocca» e gli fa scriver lettere che sono «un zucchero di tre cotte», intarsiate di brevi motti latini per vezzo, le piú saporite e semplici e disinvolte in quel tempo de’ segretari, che se ne scrissero tante e cosí sudate! E non bastava che dovesse scriver lettere per forza, ché volevano da lui anche i capitoli e i sonetti con la coda. — Fateci un capitolo sulla primiera! —

Compare — scrive il poveruomo, — io non ho potuto tanto schermirmi, che pure mi è bisognato dar fuori questo benedetto capitolo e comento della primiera; e siate certo che l’ho fatto non perché mi consumassi di andare in stampa né per immortalarmi come il cavalier Casio, ma per fuggir la fatica mia e la malevolenzia di molti che, domandandomelo e non lo avendo, mi volevono mal di morte. Avendoglielo a dare, mi bisognava o scriverlo o farlo scrivere; e l’uno e l’altro non mi piaceva troppo, per non mi affaticare e non mi obligare.

Eccolo dunque costretto a fare il capitolo e poi a stamparlo, eccolo immortale a suo dispetto. E scrisse sulle anguille, i cardi, la peste, le pèsche, la gelatina, e sopra Aristotile, il quale

     ti fa con tanta grazia un argomento,
che te lo senti andar per la persona
fino al cervello e rimanervi drento.

Cosí venner fuori capitoli, sonetti, epistole, dove vivono eterni i capricci e i ghiribizzi di un cervello ozioso e ameno. [p. 404 modifica]Il successo fu grande. Dicono, perchè era fiorentino e maneggiava assai bene la lingua. Ed è un dir poco. Il vero è che il Berni ha una intuizione immediata e netta delle cose, che rende vive e fresche con facilitá e con brio. Tra lui e la cosa non ci è nessun mezzo, o imitazione o artificio di stile o repertorio; egli l’attinge direttamente, secondo l’immagine che gli si presenta nel cervello. E l’immagine è la cosa stessa in caricatura, guardata cioè da un punto che la scopra tutta nel suo aspetto comico. Il quale aspetto balza improvviso innanzi alla nostra immaginazione, perché non esce fuori a pezzi e a bocconi da una descrizione, ma ti sta tutto avanti per virtú di somiglianze o di contrasti inaspettati. Tale è la pittura di maestro Guazzaletto, e la mula di Florimonte, e la bellezza della sua donna, contraffazione della Laura petrarchesca. In questi ritratti a rapporti non hai niente che stagni o langua: hai una produzione continua, che ti tien desto e ti sforza a ire innanzi insino a che il poeta trionfalmente ti accomiata:

               Ora eccovi dipinta
una figura arabica, un’arpia,
un uom fuggito dalla notomia.

Fin qui avevamo visto dal Boccaccio al Pulci messa in caricatura plebe e frati; e anche il Berni ci si prova nella Catrina e nel Mogliazzo: imitazioni caricate di parlari e costumi plebei, inferiori per grazia e spontaneitá alla Nencia. Ma la materia ordinaria del Berni è la caricatura della borghesia in mezzo a cui viveva. Non è piú la coltura che ride dell’ignoranza e della rozzezza; è la coltura che ride di se stessa: la borghesia fa la sua propria caricatura. Il protagonista non è piú il cattivello di Calandrino, ma è il borghese vano, poltrone, adulatore, stizzoso, sensuale e letterato, la cui immagine è lo stesso Berni, che mena in trionfo la sua poltroneria e sensualitá. L’attrattivo è appunto nella perfetta buona fede del poeta, che ride de’ difetti propri e degli altrui, come di fragilitá perdonabili e comuni, delle quali è da uomo di poco spirito pigliarsi collera. Il guasto nella borghesia era giá cosí profondo e tanto era oscurato il [p. 405 modifica]senso morale, che non si sentiva il bisogno dell’ipocrisia, e si mostravano servili e sensuali uomini per altre parti commendevoli; com’erano moltissimi letterati e il nostro Berni, «il dabbene e gentile» Berni, dice il Lasca, che si dipinge a quel modo con piena tranquillitá di coscienza e non pensa punto che gliene possa venire dispregio. Quando certi vizi diventano comuni a tutta una societá, non generano piú disgusto e sono magnifica materia comica, e possono stare insieme con tutte le qualitá di un perfetto galantuomo. Il Berni è poltrone e sensuale e cortigiano, e non lo dissimula (ciò che farebbe ridere a sue spese), anzi lo mette in evidenza, cogliendone l’aspetto comico, come fa un uomo di spirito, che non crede per questo ne scapiti la sua riputazione. Questa credenza o perfetta buona fede lo mette in una situazione netta e schiettamente comica, sí ch’egli contempla e vagheggia il suo difetto senz’alcuna preoccupazione di biasimo e con perfetta libertá di artista. È sottinteso che in questi ritratti berneschi non è alcuna profonditá o serietá di motivi; appena la scorza è incisa: ci è la borghesia spensierata e allegra, che non ha avuto ancora tempo di guardarsi in seno ed è tutto al di fuori, nella superficie delle cose. Questa superficialitá e spensieratezza è anch’essa comica: è parte inevitabile del ritratto. Perciò la forma comica sale di rado sino all’ironia, e rimane semplice caricatura, un movimento e calore d’immaginazione, com’ è generalmente ne’ comici italiani, a cominciare dal Boccaccio. Dove non è immaginazione artistica, il comico non si sviluppa, ed il difetto rimane prosaico, e perciò disgustoso, come è in tutti gli scrittori di proposito osceni. Ne’ ritratti del Berni entra anche l’osceno, ingrediente di obbligo a quel tempo; ma non è lí che attinge la sua ispirazione, non vi si piace e non vi si avvoltola. Ciò che l’ispira non è il piacere dell’osceno o la seduzione del vizio, ma è un piacere tutto d’immaginazione e da artista, che senti nel brio e nella facilitá dello stile, e che, mettendo in moto il cervello, gli fa trovare tanta novitá di forme, d’immagini e di ravvicinamenti, come è il ritratto della sua cameriera e l’altro, un vero capolavoro, della sua famiglia. Ecco perché [p. 406 modifica]il Berni è tanto superiore a’ suoi imitatori ed emuli, freddamente osceni e buffoni. Pure la buffoneria oscena diviene l’ingrediente de’ banchetti, delle accademie e delle conversazioni, e invade la letteratura, quasi condimento e salsa dello spirito: la statua di Pasquino diviene l’emblema della coltura. Ci erano capitoli e sonetti: sorgono poemi interi berneschi, com’è la Vita di Mecenate del Caporali, di una naturalezza spesso insipida e volgare, e il suo Viaggio al Parnaso e la Gigantea dell’Arrighi, e la Nanea del Grazzini o i Nani vincitori de’ giganti. Di tanti poeti berneschi si nomina pena il Caporali. Nondimeno questa lirica bernesca è la sola viva in questo secolo. Gli stessi poeti petrarcheggiando annoiano, e si fanno leggere piacevoleggiando; perché i loro sospiri d’amore escono da un repertorio giá vecchio di concetti e di frasi e non corrispondono allo stato reale della societá e della loro anima; dove in quel piacevoleggiare ci è il secolo, ci è loro, e non ci è ancora modelli o forme convenzionali, e qualche cosa dee pur venire dal loro cervello.

I canti carnascialeschi, come i rispetti e le ballate e le serenate, erano legati con la vita pubblica. Ora il circolo della vita si restringe: la vita letteraria è nelle accademie e tra’ convegni privati. Per le piazze si aggirano ancora i cantastorie e si sentono canzoni plebee. Ma la coltura se ne allontana, e la trovi in corte o nell’accademia o nelle conversazioni; centri di allegria spensierata e licenziosa, però da gente colta, che sa di greco e di latino, che ammira le belle forme e cerca ne’ suoi divertimenti l’eleganza o, come dicevasi, il «bello stile». Vi si recitavano capitoli, sonetti, poemi burleschi, poemi di cavalleria e novelle. Come però l’arte è una merce rara e la produzione era infinita, il pubblico diveniva meno severo, e pur d’esser divertito non mirava tanto pel sottile nel modo. In sostanza questa borghesia spensierata e oziosa era sotto forme cosí linde vera plebe, mossa dagli stessi istinti grossolani e superficiali: la curiositá, la buffoneria, la sensualitá; e quando quest’istinti erano accarezzati, accettava tutto, anche il mediocre, anche il pessimo: il che era segno manifesto di non lontana decadenza. [p. 407 modifica]

Questa letteratura comica o negativa si sviluppa in modo prodigioso. Accanto a’ capitoli e a’ romanzi moltiplicano le novelle. Il cantastorie diviene l’eroe della borghesia. E tutti hanno innanzi lo stesso vangelo, il Decamerone. Il petrarchismo era una poesia di transizione, che in questo secolo è un cosí strano anacronismo come l’imitazione di Virgilio o di Cicerone. Ma il Decamerone portava giá ne’ suoi fianchi tutta questa letteratura: era il germe che produsse il Sacchetti, il Pulci, Lorenzo, il Berni, l’Ariosto e tutti gli altri.

Quasi ogni centro d’Italia ha il suo Decamerone. Masuccio recita le sue novelle a Salerno, il Molza scrive a Roma il suo decamerone, e il Lasca le sue Cene a Firenze, e il Giraldi a Ferrara i suoi Ecatommiti o cento favole, e Antonio Mariconda a Napoli le sue Tre giornate, e Sabadino a Bologna le sue Porretane, e quattordici novelle scrive il milanese Ortensio Lando, e Francesco Straparola scrive in Venezia le sue Tredici piacevoli notti, e Matteo Bandello il suo novelliere, e le sue diciassette novelle il Parabosco. A Roma si stampano le novelle del Cadamosto da Lodi e di monsignor Brevio da Venezia. A Mantova si pubblicano le novelle di Ascanio de’ Mori mantovano; e a Venezia escono in luce le Sei giornate di Sebastiano Erizzo gentiluomo veneziano, e le dugento novelle di Celio Malespini, gentiluomo fiorentino; e i Giunti a Firenze pubblicano i Trattenimenti di Scipione Bargagli. Aggiungi la Giulietta di Luigi da Porto vicentino, e l’Eloquenza, attribuita a Speron Speroni.

Tutti questi scrittori, dal quattrocentista Masuccio sino al Bargagli che tocca il Seicento, si professano discepoli e imitatori del Boccaccio. Chi se ne appropria lo spirito, e chi le invenzioni anche e la maniera. I toscani, presso i quali il Boccaccio è di casa, scrivono con piú libertá, e ci hanno una grazia e gentilezza di dire loro propria, che copre la grossolanitá de’ sentimenti e de’ concetti: tale è il Lasca e il Firenzuola nelle novelle inserite ne’ suoi Discorsi degli animali e nel suo Asino d’oro. Gli altri procedono piú timidi e riescono pesanti, come il Giraldi e il Brevio e il Bargagli, o scorretti e trascurati, come il Parabosco o lo Straparola o il Cadamosto. Il linguaggio è [p. 408 modifica]quell’italiano comune che giá si usava dalla classe colta nello scrivere e talora anche nel parlare, tradotto in una forma artificiosa e alla latina che dicevasi «letteraria», e solcato di neologismi, barbarismi, latinismi e parole e frasi locali; salvo nei piú colti, come è il Molza} per speditezza e festivitá vicino a’ toscani.

Quel bel mondo della cortesia che nel Decamerone tiene sí gran parte, rifuggitosi ne’ poemi cavallereschi, scompare dalla novella. E neppure ci è quello stacco tra borghesia e plebe, quella coscienza di una coltura superiore, che si manifesta nella caricatura della plebe, quell’allegrezza comica a spese delle superstizioni e de’ pregiudizi frateschi e plebei, che tanto ti alletta nelle novelle fiorentine e fino nella Nencia. Questo mondo interiore scompare anch’esso. La novella attinge tutta la societá ne’ suoi vizi, nelle sue tendenze, ne’ suoi accidenti, con nessun altro scopo che d’intrattenere le brigate con racconti interessanti. L’interesse è posto nella novitá e straordinarietá degli accidenti, come sono i mutamenti improvvisi di fortuna, o burle ingegnose per far danari o possedere l’amata, o casi maravigliosi di vizi o di virtú. Re, principi, cavalieri, dottori, mercanti, malandrini, scrocconi, tutte le classi vi sono rappresentate e tutt’i caratteri, comici e seri, e tutte le situazioni, dalla pura storia sino al piú assurdo fantastico. Sono migliaia di novelle: arsenale ricchissimo, dove hanno attinto Shakespeare, Molière e altri stranieri.

La piú parte di queste novelle sono aridi temi, magri scheletri in forma affettata insieme e scorretta. L’interessante è stimolare la curiositá del pubblico e le sue tendenze licenziose e volgari. Perciò hai da una parte il comico e dall’altra il fantastico.

Nel comico, salvo i toscani, ne’ quali supplisce la grazia del dialetto, i novellieri mostrano pochissimo spirito. Una delle novelle meglio condotte è la «scimia» del Bandello, la quale si abbiglia co’ panni di una vecchia morta, e par dessa, e spaventa quelli di casa. Il fatto è in sé comico, ma l’esposizione è arida e superficiale, e i sentimenti e le impressioni comiche ci sono [p. 409 modifica]appena abbozzate. C’è una novella di Francesco Straparola, assai spiritosa d’invenzione, dove si racconta il modo che tenne un marito per rendere ubbidiente la moglie, e la sciocca imitazione fattane dal fratello: novella che suggerí al Molière la Scuola de’ mariti. Ma di spiritoso non c’è che l’invenzione, forse neppur sua: cosí triviale e abborracciata è l’esposizione. Un villano che fa la scuola ad un astrologo è anche un bel concetto del Lando, ma scarso di trovati e situazioni comiche. Pure il Lando è scrittor vivace e rapido e nelle descrizioni efficace e pittoresco. Il villano predice la pioggia; ma l’astrologo vede il cielo sereno.

Alzato il viso, guatava d’ogni intorno e, diligentemente ogni cosa contemplando, s’avvide essere il cielo tutto bello, il sole temperato, il monte netto da nuvoli, e appresso s’accorse che l’austro nel soffiare era dolcissimo, e cominciò attentamente a considerare in qual segno fosse il sole e in qual grado, che cosa stesse nel mezzo del cielo e qual segno stessegli in dritta linea opposto. Né potendo in verun modo conoscere che pioggia dovesse dal cielo cadere, al villano rivolto, disse con ira e con isdegno: — Dio e la natura potrebbono far piovere, ma la natura sola non lo potrebbe fare.

Sopravvenuta piú tardi pioggia dirottissima, descrive le sue rovine e i suoi effetti in questo modo:

Rovinarono torri, sbarbicaronsi molte querce, caddero bellissimi palagi, tremò tutta la riviera dell’Adige, parve che il cielo cadesse e che tutta la macchina mondana fosse per disciogliersi.

Tutta la novella è scritta in questa prosa spedita e animata, e si legge volentieri; ma il sentimento comico vi fa difetto, né vi supplisce una lingua poetica e senza colore locale.

Gran vantaggio ha sopra di lui il Lasca, non di spirito o di coltura o di arte, ma di lingua, essendo il dialetto toscano, ricco di sali e di frizzi e di motti e di modi comici, un istrumento giá formato e recato a perfezione dal Boccaccio al Berni. Materia ordinaria del Lasca è la semplicitá degli uomini «tondi e grossi», fatta giuoco de’ tristi e degli scrocconi. È la novella ne’ termini [p. 410 modifica]che l’aveva lasciata il Boccaccio. Il suo Calandrino è Gian Simone o Guasparri, rigirati e beffati da scrocconi che si prevalgono della loro credulitá. Il Boccaccio mette in iscena preti e frati; il Lasca astrologi, guardando meno alle superstizioni religiose che alle credenze popolari nell’«orco», tregenda e versiera, negli spiriti e ne’ diavoli. Oggi abbiamo i magnetisti e gli spiritisti; allora c’erano i maghi o gli astrologi, con la stessa pretensione di conoscere l’avvenire e di guarire gl’infermi, e conoscere i fatti altrui, e farti comparire i morti o le persone lontane: materia inesausta di ridicolo, non altrimenti che i miracoli de’ frati. Se il Boccaccio mette in gioco il mondo soprannaturale della religione, il Lasca si beffa del mondo soprannaturale della scienza. Il fantastico regna ancora qua e colá in Italia; ma a Firenze era morto sotto l’ironia del Boccaccio, del Sacchetti, di Lorenzo e del Pulci, né i piagnoni poterono risuscitarlo. Il nostro Lasca non ha lo spirito e la finezza del Boccaccio, non ha ironia ed è grossolano nelle sue caricature; ma è facile, pieno di brio e di vena, evidente, e trova nel dialetto immagini e forme comiche belle e pronte, senza che si dia la pena di cercarle. Ecco magnifica pittura dell’astrologo Zoroastro:

...era uomo di trentasei in quarant’anni, di grande e di ben fatta persona, di colore ulivigno, nel viso burbero e di fiera guardatura, con barba nera arruffata e lunga quasi insino al petto, ghiribizzoso molto e fantastico; aveva dato opera all’alchimia, era ito dietro e andava tuttavia alla baia degl’incanti; aveva sigilli, caratteri, filattiere, pentacoli, campane, bocce e fornelli di varie sorte da stillare erba, terra, metalli, pietre e legni; aveva ancora carta non nata, occhi di lupo cerviero, bava di cane arrabbiato, spina di pesce colombo, ossa di morti, capestri d’impiccati, pugnali e spade che avevano ammazzato uomini, la chiavicola e il coltello di Salomone, ed erba e semi còlti a vari tempi della luna e sotto varie costellazioni, e mille altre favole e chiacchiere da far paura alli sciocchi; attendeva all’astrologia, alla fisonomia, alla chiromanzia e cento altre baiacce; credeva molto alle streghe, ma soprattutto agli spiriti andava dietro, e con tutto ciò non aveva mai potuto vedere né fare cosa che trapassasse l’ordine della natura, benché mille scerpelloni e novellacce intorno a ciò raccontasse [p. 411 modifica]e di farle credere s’ingegnasse alle persone; e non avendo né padre né madre, ed assai benestante sendo, gli conveniva stare il piú del tempo solo in casa, non trovando per la paura né serva né famiglio che volesse star seco, e di questo infra sé maravigliosamente godea; e praticando poco, andando a casa con la barba avviluppata senza mai pettinarsi, sudicio sempre e sporco, era tenuto dalla plebe per un gran filosofo e negromante.

È un periodo interminabile, tirato giú felicemente, dove, come in un quadro, ti sta dinanzi tutta la persona, in una ricchezza di accessorii, espressi con una proprietá di vocaboli che si può trovar solo in un fiorentino. «Struggersi d’amore» è un sentimento serio che il Lasca traduce in comico, aggiungendovi le immagini del dialetto: la fará «in modo innamorare di voi ch’ella non vegga altro dio, e si consumi e strugga de’ fatti vostri come il sale nell’acqua, e... vi verrá dietro piú che i pecorini al pane insalato». Parlando del banchetto che tenne l’astrologo con i suoi compagni di giunteria, lo Scheggia, il Pilucca e il Monaco, alle spese del candido Gian Simone, dice: «E fecero uno scotto da prelati, con quel vino che smagliava». Se il Lasca dee molto al dialetto, ha pure un pregio proprio che lo mette accanto al Berni: una intuizione chiara e viva delle cose, che te le dá scolpite in rilievo. Tale è il viaggio per aria del Monaco, come Zoroastro dá a credere al dabben Simone:

[Zoroastro] si stese in terra bocconi e disse non so che parole, e, rittosi in piede e fatto due tomboli, si arrecò da un canto del cerchio inginocchioni e, guardando fisso nel vaso..., disse: — Il Monaco nostro ha giá riavuto il resto, e vassene con l’insalata verso Pellicceria per andarsene a casa; ma in questo istante io l’ho fatto invisibilmente alzare ai diavoli da terra. Oh eccolo che egli è giá sopra il Vescovado! Oh egli vien bene, egli è giá sopra la piazza di Madonna! Oh ora egli è sopra la vecchia di Santa Maria novella. Testé entra in Gualfonda. Oh eccolo a mezza la strada! Oh egli è giá presso a meno di cinquanta braccia! Oh eccolo, eccolo giá rasente alla finestra! Or ora sará nel cerchio. — E quest’ultima parola fornita, il Monaco che stava alla posta, data una spinta alla finestra, saltò nel mezzo del cerchio in pianelle, in mantello, in cappuccio, e con l’insalata e con le radici in mano.

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Il nostro speziale, ché colui che chiamavano «il Lasca» nell’accademia degli Umidi era appunto lo speziale Anton Maria Grazzini, dipinge con tanto rilievo gli oggetti, perché li vede chiarissimi nell’immaginazione, e non si ha a travagliare intorno alla forma, e non v’usa alcuno artificio: scrive parlando. Né è meno evidente e parlante nel dialogo. Simone, passata la paura e uscitogli tutto l’amore di corpo, non vuol piú dare all’astrologo i venticinque fiorini promessigli. E dice allo Scheggia:

— Io ti giuro sopra la fede mia che mi è uscito... tutto l’amor di corpo, e della vedova non mi curo piú niente... Oh che vecchia paura ebbi io per un tratto! e’ mi si arricciano i capelli quando vi ci penso. Sicché pertanto licenzia e ringrazia Zoroastro. — Lo Scheggia, udite le di colui parole, diventò piccino piccino...; e, parendoli rimanere scornato, cosí gli rispose dicendo: — Oimè, Gian Simone, che è quello che voi mi dite? Guardate che il negromante non si crucci. Che diavol di pensiero è il vostro? Voi andate cercando Maria per Ravenna: io dubito fortemente che, come Zoroastro intenda questo di voi, che egli non si adiri tenendosi uccellato e che poi non vi faccia qualche strano giuoco. Bella cosa e da uomini dabbene mancar di parola!... Tanto è, Gian Simone, egli non è da correrla cosí a furia: se egli vi fa diventar qualche animalaccio, voi avete fatto poi una bella faccenda. — Colui era giá per la paura diventato nel viso come un panno lavato, e, rispondendo allo Scheggia, disse: — Per lo sangue di tutt’i martiri, che fo giuro d’assassino che domattina, la prima cosa, io me ne voglio andare agli Otto, e contare il caso, e poi farmi bello e sodare: non so chi mi tiene che io non vada ora. — Tosto che lo Scheggia sentí ricordare gli Otto, diventò nel viso di sei colori, e fra sé disse: — Qui non è tempo da battere in camicia; faccián che il diavolo non andasse a processione! — E, a colui rivolto, dolcemente prese a favellare e disse: — Voi ora, Gian Simone, entrate bene nell’infinito, e non vorrei per mille fiorini d’oro in benefizio vostro, che Zoroastro sapesse quel che voi avete detto. Oh, non sapete che l’uffizio degli Otto ha potere sopra gli uomini e non sopra i demòni? Egli ha mille modi di farvi, quando voglia gnene venisse, capitar male, ché non si saperrebbe mai. —

Cosa manca al Lasca? La mano che trema. Scioperato, spensierato, balzano, vispo e svelto, ci è in lui la stoffa di un grande [p. 413 modifica]scrittor comico; ma gli manca il culto e la serietá dell’arte, e abborraccia e tira giú come viene, e lascia a mezzo le cose, e si arresta alla superficie: naturale e vivace sempre, spesso insipido, grossolano e trascurato, massime nell’ordito e nel disegno.

Questo basso comico, plebeo e buffonesco, ne’ confini della semplice caricatura, perciò superficiale ed esteriore, ritratto di una borghesia colta, piena di spirito e d’immaginazione e insieme spensierata e tranquilla, ha la sua sorgente colá stesso onde uscí il Morgante e poi i capitoli e i sonetti del Berni: è il bernesco nell’arte, buffoneria ingentilita dalla grazia e alzata a caricatura; maniera sviluppatasi gradatamente dal Boccaccio al Lasca, infiltratasi nel dialetto e rimasta forma toscana. Nelle altre parti d’Italia la buffoneria è senza grazia, spesso caricata troppo e lontana da quel brio, tutto spontaneitá e naturalezza, che senti nel Berni e nel Lasca. Tra’ piú sgraziati è il Parabosco.

Col comico va congiunto il fantastico. Il novelliere, in luogo di guardare nella vita reale e studiarvi i caratteri, i costumi, i sentimenti, cerca combinazioni tali di accidenti che solletichino la curiositá. Per questa via dal nuovo si va allo strano, e dallo strano al fantastico, al soprannaturale e all’assurdo. Cosí una borghesia scettica, che ride de’ miracoli, che si beffa del soprannaturale religioso e non vuol sentire a parlare di misteri e di leggende come forme barbare, sente poi a bocca aperta racconti di fate, di maghi, di animali parlanti, che tengano desta la sua curiositá. Il Mariconda narra con serietá rettorica i casi di Aracne, di Piramo e Tisbe e altre favole mitologiche. E con la stessa serietá Francesco Straparola raccoglie nelle sue Notti le piú sbardellate invenzioni di quel tempo, saccheggiando tutt’i novellieri, Apuleio, Brevio, soprattutto il napolitano Girolamo Morlino, autore di ottanta novelle in latino. Ivi trovi il fantastico spinto all’ultimo limite dell’assurdo. Vedi un anello trasformato in un bel giovane, pesci e cavalli e falconi e bisce e gatte fatate che fanno maraviglie, e satiri e uomini salvatici o in forma porcile, e morti risuscitati, e asini e leoni in conversazione, e fate e negromanti e astrologi. Queste, ch’egli [p. 414 modifica]chiama «favole», si accompagnano con altri racconti osceni e faceti o, come egli dice, «ridicolosi»; e sono le solite burle fatte alla gente semplice e grossa o, com’egli dice, «materiale». Il pretesto è uno scopo di volgare morale o prudenza, un «fabula docet»; ma in fondo l’autore mira a render piacevoli le sue Notti, eccitando il riso o movendo la curiositá. Non mostra alcuna intenzione letteraria, salvo nelle descrizioni, una goffa imitazione del Boccaccio; chiama egli medesimo «basso» e «dimesso» il suo stile; e dice che le invenzioni non son sue, ma suo è il modo di raccontarle. Non hai qui dunque contorcimenti, lenocini, artifici, eleganze: è un narrare alla buona e a corsa, in quella lingua comune italiana, di forma piú latina che toscana, mescolata di parole venete, bergamasche e anche francesi, come «follare» («fouler») per «calpestare». Non si ferma sul descrivere o particolareggiare, non bada a’ colori, salta le gradazioni, va diritto e spedito, cercando l’effetto nelle cose piú che nel modo di dirle. E le cose, non importa se di lui o di altri, contengono spesso concetti molto originali: come Nerino, lo studente portoghese, che fa le sue confidenze amorose al suo maestro Brunello, ch’egli non sa essere il marito della sua bella, onde Molière trasse il pensiero della sua École des femmes; o l’asino che co’ suoi vanti la fa al leone; o i bergamaschi che con la loro astuzia la fanno a’ dottori fiorentini; o la vendetta dello studente burlato dalle donne; o Flaminio che va in cerca della morte; o le nozze del diavolo. Il successo fu grande: si fecero in poco tempo del libro piú di venti edizioni, e di molte favole è rimasta anche oggi memoria. L’osceno, il ridicolo, il fantastico era il cibo del tempo: poi quella forma scorretta, imperfetta, ma senza frasche e spedita soprattutto nel vivo del racconto, dovea rendere il libro di piú facile lettura alla moltitudine che non gli Ecatommiti del Giraldi e le novelle dell’Erizzo e del Bargagli, di una forma artificiata e noiosa. Ma il successo durò poco. Anche la Filenia del Franco fu tenuta pari al Decamerone, e dimenticata subito. Manca allo Straparola il calore della produzione, e ti riesce prosaico e materiale anche nel piú vivo di una situazione comica, o nel maggiore [p. 415 modifica]allettamento dell’oscenitá, o ne’ movimenti piú curiosi del fantastico, come di uomini uccisi e rifatti vivi. Narra il miracolo con quella indifferenza che i casi quotidiani della vita, e mi rassomiglia un uomo divenuto per la lunga consuetudine frigido e ottuso, che non ha piú passioni ma vizi. Chi vuol vederlo, paragoni le sue «Nozze del diavolo» col Belfegor del Machiavelli, argomento simile, e il suo «studente vendicativo» col famoso «studente» del Boccaccio; e vedrá che a lui manca non meno il talento comico che la virtú informativa. Ma che importa? Non mira che a stuzzicare la sensualitá e la curiositá, e chi si contenta gode. E per meglio avere l’uno e l’altro intento, aggiunge al racconto un enigma o indovinello in verso, osceno di apparenza, e spiegato poi altrimenti che suona a prima udita. Cosí oggi i cervelli oziosi, per fuggir la noia, fanno o sciolgono sciarade e rebus. Il fantastico era il cibo de’ cervelli oziosi, non meno che l’enigma o i tanti poemi cavallereschi. L’arte era divenuta mestiere; e pur di sentire fatti nuovi e strani, non si cercava altro. Ristorare il fantastico in mezzo a una borghesia scettica e sensuale era vana impresa. Nelle antiche leggende senti il miracolo, e senti il maraviglioso ne’ romanzi antichi di cavalleria: ora manca l’ingenuitá e la semplicitá, e l’arte non può riprodurre il fantastico che con un ghigno ironico, volgendolo in gioco. Perciò la sola novella fantastica che si possa chiamare lavoro d’arte è il Belfegor: il diavolo accompagnato dal sorriso machiavellico. Cosa ha di vivo il diavolo borghese e volgare dello Straparola o la sua Teodosia, che è la leggenda messa in taverna?

Se una ristorazione del fantastico non era possibile, come poteva aversi una ristorazione del tragico? Ma ci furono anche novelle tragiche con la stessa intonazione del Decamerone, anzi della Fiammetta. E sono quello che potevano essere: fior di rettorica. D’immaginazione ce n’era molta, ma di sentimento non ce n’era favilla. Cosa di eroico o di affettuoso o di nobile poteva essere tra quelle corti e quelle accademie, ciascuno sel pensi. Chi desideri esempli di questa rettorica, vegga la Giulietta di Luigi da Porto, o nel Bandello i monologhi di Adelasia [p. 416 modifica]e Aleramo, o nell’Erizzo i lamenti di re Alfonso sulla tomba di Ginevra. Come a svegliare i romani ci voleva la vista del sangue, a muovere quella borghesia sonnolenta e annoiata si va sino al piú atroce e al piú volgare. La figliuola di re Tancredi nel Boccaccio è una nobile creatura, ma sono mostri volgari la Rosmonda del Bandello o l’Orbecche del Giraldi, che pur non ti empiono di terrore e non ti spoltriscono e non ti agitano, per il freddo artificio della forma. Tra gli eleganti elegantissimo è il Bargagli, che sceglie forme nobili e solenni anche dove è in fondo cosa da ridere, come è la sua Lavinella: situazione comica in forma seria, anzi oratoria.

Ciò che rimane di vivo in questa letteratura non è il fantastico e non il tragico, ma un comico, spesso osceno e di bassa lega e superficiale, che non va al di lá della caricatura, e talora è piú nella qualitá del fatto che ne’ colori. Alcuna volta ci è pur sentore di un mondo piú gentile, soprattutto nell’Erizzo e nel Bandello, come è la novella di costui della reina Anna; ma in generale, come nelle corti anche piú civili sotto forme decorose e amabili giace un fondo licenzioso e grossolano, la novella è oscena e plebea in contrasto grottesco con uno stile nobile e maestoso, puro artificio meccanico. È un comico che a forza di ripetizione si esaurisce e diviene sfacciato e prosaico. Il capitolo muore col Berni e la novella col Lasca.

È il Decamerone in putrefazione. Il difetto del capitolo è di cercare i suoi mezzi comici piú nelle combinazioni astratte dello spirito che nella rappresentazione viva della realtá. È lo stesso difetto del petrarchismo: il Petrarca del capitolo è Francesco Berni, e i petrarchisti sono i suoi imitatori, che a forza di cercar rapporti e combinazioni escono in freddure e sottigliezze. Il difetto della novella è la sensualitá prosaica e la vana curiositá: senza ideali e senza colori, e in una forma spesso pedantesca e sbiadita. E capitolo e novella hanno poi un difetto comune: la superficialitá; quel lambire appena la esterioritá dell’esistenza e non cercare piú addentro, come se il mondo fosse una serie di apparenze fortuite e non ci fosse uomo e non ci fosse natura. [p. 417 modifica]Essendo tutto un giuoco d’immaginazione, a cui rimane estraneo il cuore e la mente, la forma comica nella quale si dissolve è la caricatura degradata sino alla pura buffoneria. Lo spirito volge in giuoco anche quel giuoco d’immaginazione, intorno a cui si travagliarono con tanta serietá il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Poliziano, il Pulci, il Berni, il Lasca, divenuto nel Furioso il mondo organico dell’arte italiana; e traduce l’ironia ariostesca in aperta buffoneria, avvolgendo in una clamorosa risata tutti gl’idoli dell’immaginazione, antichi e nuovi. La nuova arte, uscita dalla dissoluzione religiosa, politica e morale del medio evo e rimasta nel vuoto, innamorata di solo se stessa come Narciso, va a morire per mano di un frate sfratato, di Teofilo Folengo: muore ridendo di tutto e di se stessa. La Maccaronea del Folengo chiude questo ciclo negativo e comico dell’arte italiana.

Ma ci era anche un lato positivo. Mentre ogni specie di contenuto è messa in giuoco e l’arte, cacciata anche dal regno dell’immaginazione, si scopre vuota forma, un nuovo contenuto si va elaborando dall’intelletto italiano, e penetra nella coscienza e vi ricostruisce un mondo interiore, ricrea una fede non piú religiosa ma scientifica, cercando la base non in un mondo soprannaturale e sopraumano, ma al di dentro stesso dell’uomo e della natura. Pomponazzi, negando l’esistenza degli universali, rigettando i miracoli, proclamando mortale l’anima e spezzando ogni legame tra il cielo e la terra, pose obbiettivo della scienza l’uomo e la natura. Platonici e aristotelici per diverse vie proclamavano l’autonomia della scienza, la sua indipendenza dalla teologia e dal dogma. La Chiesa lasciava libero il passo a tutta quella letteratura frivola e oscena e a tutta quella vita licenziosa, della quale era esempio la corte di Leone; ma non potea veder senza inquietudine questo risvegliarsi dell’intelligenza nelle scuole. Il materialismo pratico, l’indifferenza religiosa era spettacolo vecchio; ma la spaventava quel materialismo alzato a dottrina e l’indifferenza divenuta aperta negazione, con quella ipocrita distinzione di cose vere secondo la fede e false secondo la scienza. Il concilio lateranense testimonia la sua inquietudine. Leone decimo [p. 418 modifica] proclama eresia quella distinzione, proibisce l’insegnamento di Aristotile e sottopone i libri alla censura ecclesiastica. A che pro? Il materialismo era il motto del secolo. Leone decimo stesso era un materialista, come fu Lorenzo con tutto il suo platonismo. Né altro erano il Pulci, il Berni, il Lasca e gli altri letterati, ancoraché si guardassero di dirlo. Alcuni manifestavano con franchezza la loro opinione, come Lazzaro Bonamico, Giulio Cesare Scaligero, Simone Porzio, Andrea Cesalpino, Speron Speroni e quel professore Cremonini da Cento che fe’ porre sulla sua tomba: «Hic iacet Cremoninus totus». Quando gli studenti avevano innanzi un professore nuovo e lo vedevano nicchiare, gli dicevano subito: — Cosa pensate dell’anima? —

Quando il materialismo apparve, la societá era giá materializzata. Il materialismo non fu il principio: fu il risultato. Fino a quel punto il dogma era stato sempre la base della filosofia e il suo passaporto. Era un sottinteso che la ragione non poteva contraddire alla fede, e, quando contraddizione appariva, si cercava il compromesso, la conciliazione. Cosí poterono lungamente vivere insieme Cristo e Platone, Dio e Giove: tutta la coltura era unificata nell’arte e nel pensiero, e non si cercava con quanta logica e coesione e con quanta buona fede. In nome della coltura si paganizzavano le forme cattoliche anche da’ piú pii, come ne’ loro poemi sacri facevano il Sannazaro e e il Vida: si paganizzò anche san Pietro, e paganizzava anche Leone decimo. Tutto questo era arte, era civiltá, e non solo non era impedito, anzi promosso e incoraggiato: farvi contro non si poteva senza aver taccia di barbaro e incolto. E si tollerava pure Pasquino, voglio dire quella buffoneria universale, le cui maggiori spese le facevano preti, frati, vescovi e cardinali.

In quella corruzione cosí vasta, soprattutto nel clero, era il caso di dire: «petimusque damusque vicissim»; e tutti ridevano, e primi i beffati. Di cose di religione non si parlava; e, quando era il caso, le si faceva di berretto, se ne osservavano le forme e il linguaggio per l’antica abitudine, senza darvi alcuna importanza. Sotto il manto dell’indifferenza ci era la negazione. In [p. 419 modifica]quel vuoto immenso non rimaneva altro in piedi che la coltura come coltura e l’arte come arte. Ed era appunto la negazione che appariva nell’arte sotto forma comica e formava il suo contenuto. Che cosa era quell’arte? Era il ritratto dello spirito italiano. Era la contemplazione di una forma perfetta nella indifferenza o negazione del contenuto. La societá vagheggiava nell’arte se stessa.

Ma era una societá spensierata e accademica, che non si era ancora guardata al di dentro, non si avea fatto il suo esame di coscienza. E quando per la prima volta gitta l’occhio entro di sé e domanda: — Che sono dunque? onde vengo? ove vado? — la risposta non poteva essere altra che questa: — Sono corpo: vengo dalla terra e torno alla terra, l’«alma parens», la gran madre antica. — Questa risposta dapprima fa rabbrividire: sembra una scoperta, ed è un risultato. E invade le universitá e si attira i fulmini del concilio. — Zitto! — grida la borghesia gaudente e spensierata, che non volea esser turbata nel suo alto sonno. E la cosa rimase lí. «Intus ut libet, foris ut moris», diceva Cremonini. Credete come volete, ma parlate come parlano. E le audacie del Valla e del Pomponazzi si perdettero nel rumore de’ baccanali. Ci era la cosa, ma non si voleva la parola. Materialismo era in tutto: nella vita, nelle lettere, nelle sue applicazioni alla morale, alla politica, all’uomo e alla natura. Ma non si chiamava «materialismo»: si chiamava «coltura», «arte», «erudizione», «civiltá», «bellezza», «eleganza»: ipocrisia in alcuni, in altri corta intelligenza. Cosí si viveva tutti in buon accordo e allegramente, e quando veniva la bile ci era lo sfogatoio: permesso di dir male de’ preti e anche del papa e di abbandonarsi a tutt’i piaceri corporali, andando a messa, facendosi il segno della croce e gridando contro gli eretici, e specialmente contro i signori luterani che con le loro malinconie teologiche minacciavano il mondo di una nuova barbarie. Pigliare sul serio la teologia! Questo per i nostri letterati era un tornare indietro di due secoli.

Fu appunto in quel tempo che Lutero, spaventato come Savonarola alla vista di cosí vasta corruttela italiana, proclamò la [p. 420 modifica]Riforma e regalò al mondo una teologia purgata ed emendata. Se innanzi al papato fu un eretico, alla borghesia italiana apparve un barbaro, come Savonarola. E in veritá la sua teologia era in una vera contraddizione con la civiltá italiana, avendo per base la reintegrazione dello spirito e l’indifferenza delle forme, cioè a dire negando quella sola divinitá che era rimasta viva nella coscienza italiana, il culto della forma e dell’arte. Una riforma religiosa non era piú possibile in un paese coltissimo, avvezzo da lungo tempo a ridere di quella corruttela, che moveva indignazione in Germania e che avea giá cancellato nel suo pensiero il cielo dal libro dell’esistenza. L’Italia avea giá valica l’etá teologica e non credeva piú che alla scienza, e dovea stimare i Lutero e i Calvino come de’ nuovi scolastici. Perciò la Riforma non poté attecchire fra noi e rimase estranea alla nostra coltura, che si sviluppava con mezzi suoi propri. Affrancata giá dalla teologia e abbracciando in un solo amplesso tutte le religioni e tutta la coltura, l’Italia del Pico e del Pomponazzi, assisa sulle rovine del medio evo, non potea chiedere la base del nuovo edificio alla teologia, ma alla scienza. E il suo Lutero fu Nicolò Machiavelli.

Il Machiavelli è la coscienza e il pensiero del secolo, la societá che guarda in sé e s’interroga e si conosce; è la negazione piú profonda del medio evo, e insieme l’affermazione piú chiara de’ nuovi tempi; è il materialismo dissimulato come dottrina, e ammesso nel fatto e presente in tutte le sue applicazioni alla vita.

Non bisogna dimenticare che la nuova civiltá italiana è una reazione contro il misticismo e l’esagerato spiritualismo religioso, e, per usare vocaboli propri, contro l’ascetismo, il simbolismo e lo scolasticismo: ciò che dicevasi il «medio evo». La reazione si presentò da una parte come dissoluzione o negazione: di che venne l’elemento comico o negativo, che dal Decamerone va sino alla Maccaronea. Ma insieme ci era un lato positivo, ed era una tendenza a considerare l’uomo e la natura in se stessi, risecando dalla vita tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, un naturalismo aiutato potentemente dal culto de’ classici [p. 421 modifica]e dal progresso dell’intelligenza e della coltura. Onde venne quella tranquillitá ideale della fisonomia, quello studio del reale e del plastico, quella finitezza dei contorni, quel sentimento idillico della natura e dell’uomo, che die’ nuova vita alle arti dello spazio e che senti ne’ ritratti dell’Alberti, nelle Stanze, nel Furioso e fino negli scherzi del Berni. Questo era il lato positivo del materialismo italiano: un andar piú dappresso al reale ed alla esperienza, dato bando a tutte le nebbie teologiche e scolastiche, che parvero astrazioni. Il pensiero o la coscienza di questo mondo nuovo, e in quello che negava e in quello che affermava, è il Machiavelli.

Il concetto del Machiavelli è questo: che bisogna considerare le cose nella loro veritá «effettuale», cioè come son poste dall’esperienza ed osservate dall’intelletto; che era proprio il rovescio del sillogismo e la base dottrinale del medio evo capovolta: concetto ben altrimenti rivoluzionario che non è quel ritorno al puro spirito, della Riforma, e che sará la leva da cui uscirá la scienza moderna.

Questo concetto, applicato all’uomo, ti dá il Principe e i Discorsi e la Storia di Firenze e i Dialoghi dell’arte militare. E il Machiavelli non ha bisogno di dimostrarlo: te lo dá come evidente. Era la parola del secolo ch’egli trovava e che tutti riconoscevano.

Cosí nasce la scienza dell’uomo, non quale può o dee essere, ma quale è; dell’uomo non solo come individuo, ma come essere collettivo, classe, popolo, societá, umanitá. L’obbiettivo della scienza diviene la conoscenza dell’uomo, il «nosce te ipsum», questo primo motto della scienza, quando si emancipa dal soprannaturale e pone la sua indipendenza. Tutti gli universali del medio evo scompariscono. La «divina commedia» diviene la «commedia umana» e si rappresenta in terra: si chiama storia, politica, filosofia della storia, la scienza nuova. La scienza della natura si sviluppa piú tardi. Non si crede piú al miracolo, ma si crede ancora all’astrologia. Attendete ancora un poco, e il concetto del Machiavelli, applicato alla natura, vi dará Galileo e l’illustre coorte dei naturalisti. [p. 422 modifica]

Non è il caso di disputare sulla veritá o falsitá delle dottrine. Non fo una storia e meno un trattato di filosofia. Scrivo la storia delle lettere. Ed è mio obbligo notare ciò che si move nel pensiero italiano, perché quello solo è vivo nella letteratura che è vivo nella coscienza.

Da quel concetto esce non solo la scienza moderna, ma anche la prosa. Come nella scienza ci aveva ancora molta parte l’immaginazione, la fede, il sentimento; cosí nella prosa erano penetrati elementi etici, rettorici, poetici, chiusi in quella forma convenzionale boccaccevole, che dicevasi «forma letteraria», ed era giá divenuta maniera, un vero meccanismo. Ma il Machiavelli spezza questo involucro, e crea il modello ideale della prosa, tutta cose e intelletto, sottratta possibilmente all’influsso dell’immaginazione o del sentimento, di una struttura solida sotto un’apparente spezzatura.

E da quel concetto dovea uscire anche un nuovo criterio della vita, e perciò dell’arte. L’uomo e la natura hanno nel medio evo la loro base fuori di sé, nell’altra vita; le loro forze motrici sono personificate sotto nome di «universali» ed hanno un’esistenza separata. Questo concetto della vita genera la Divina commedia. La macchina della storia è fuori della storia ed è detta «la provvidenza». Questa macchina è nel mondo boccaccesco il caso o la fortuna. Non ci è piú la provvidenza, e non ci è ancora la scienza. Il maraviglioso non è piú detto «miracolo», anzi del miracolo si fanno beffe; ma è detto «intrigo», «nodo», «accidente straordinario». Le passioni, i caratteri, le idee non sono forze che regolano il mondo, sopraffatte da questo nuovo fato, la volubile e capricciosa fortuna. Il Machiavelli insorge e contro la fortuna e contro la provvidenza, e cerca nell’uomo stesso le forze e le leggi che lo conducono. Il suo concetto è che il mondo è quale lo facciamo noi, e che ciascuno è a se stesso la sua provvidenza e la sua fortuna. Questo concetto dovea profondamente trasformar l’arte.

La poesia italiana usciva dal medio evo libera da ogni ingombro allegorico e scolastico, ma insieme vuota di ogni contenuto: forma pura. Il suo vero contenuto è negativo, cioè a [p. 423 modifica]dire il ridere del suo contenuto, considerarlo come un giuoco d’immaginazione, un esercizio dello spirito. Questo doppio elemento dell’arte è detto dal Cecchi il «ridicolo» e il «grupposo», intendendo per «grupposo» il nodo, l’intreccio, la varietá e novitá de’ casi. Di questo maraviglioso perseguitato dal ridicolo ti dá il Machiavelli splendido esempio nel suo Belfegor. La novella, il romanzo, la commedia sono il teatro naturale di questa poesia, la Divina commedia dell’arte nuova. Ma nel concetto del Machiavelli la vita non è una farsa della provvidenza, e non è il giuoco capriccioso della fortuna; ma è regolata da forze o da leggi umane e naturali. Perciò la base dell’arte non è l’avventura o l’intrigo, ma il carattere; e se volete vedere quello che sará, guardate quali sono gli attori e quali le forze che mettono in giuoco. L’arte non può starsi contenta alla semplice esterioritá e presentare gli avvenimenti come un accozzo fortuito di casi straordinari, ma dee forare la superficie e cercare al di dentro dell’uomo quelle cause che sembrano provvidenziali o casuali. Cosí l’arte non è un vano e ozioso gioco d’immaginazione, ma è rappresentazione seria della vita nella sua realtá non solo esteriore, ma interiore. E quest’arte, che cerca la sua base nella scienza dell’uomo, ti dá la Mandragola e le Storie fiorentine, e piú tardi la Storia d'Italia del Guicciardini e i suoi Ricordi.

A questo modo si realizza questa grand’epoca detta il «Risorgimento», che dal Boccaccio si stende sino alla seconda metá del secolo decimosesto. Da una parte, mancati tutti gl’ideali, religioso, politico, morale, e non rimasta nella coscienza altra cosa salda che l’amore della coltura e dell’arte, il contenuto non ha alcun valore in se stesso e diviene una materia qualunque trattata a libito dall’immaginazione, che ne fa la sua creatura e spesso anche il suo gioco; un gioco che ha la sua idealitá nell’ironia ariostesca e trova la sua dissoluzione nella caricatura della Maccaronea. Mentre l’arte produce i suoi miracoli nella piena indifferenza del contenuto, come pura arte, un nuovo contenuto si forma e penetra nella coscienza, uno studio dell’uomo e della natura in se stessi, che cerca la sua base [p. 424 modifica]nell’esperienza, e non nell’immaginazione e non nelle vane cogitazioni. Questo senso profondo del reale ti crea la scienza e la prosa, e ti segna nella Mandragola un nuovo indirizzo dell’arte.

Se dunque vogliamo studiar bene questo secolo, dobbiamo cercarne i segreti ne’ due grandi che ne sono la sintesi: Ludovico Ariosto e Nicolò Machiavelli.





fine del volume primo.