Satire (Ariosto 1857)/Satira VII
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SATIRA SETTIMA.
A MESSER PIETRO BEMBO.
Bembo, io vorrei, com’è il comun desio
De’ solleciti padri, veder l’arti
3Che esaltan l’uom, tutte in Virginio mio.1
E perchè di esse in te le miglior parti
Veggio, e le più, di questo alcuna cura
6Per l’amicizia nostra vorrei darti.
Non creder però, ch’esca di misura
La mia domanda, ch’io voglia tu facci
9L’ufficio di Demetrio o di Musura.2
Non si dànno a’ par tuoi simili impacci;
Ma sol che pensi e che discorri teco,
12E saper dagli amici anco procacci,
S’in Padova o in Vinegia è alcun buon Greco,
Buono in scïenzia, e più in costumi, il quale
15Voglia insegnarli e in casa tener seco.
Dottrina abbia e bontà, ma principale
Sia la bontà; chè non vi essendo questa,
18Nè molto quella, alla mia estima,3 vale.
So ben che la dottrina fia più presta
A lasciarsi trovar, che la bontade:
21Sì mal l’una nell’altra oggi s’innesta.
O nostra male avventurosa etade,
Che le virtudi che non abbian misti
24Vizî nefandi si ritrovin rade!
Senza quel vizio son pochi umanisti,4
Che fe a Dio forza, non che persüase,
27Di far Gomorra e i suoi vicini tristi.
Mandò fuoco dal ciel, ch’uomini e case,
Tutto consunse, ed ebbe tempo a pena
30Lot a fuggir, ma la moglier rimase.
Ride il volgo se sente un ch’abbia vena
Di poesia, e poi dice: — È gran periglio
33A dormir seco, e volgergli la schiena. —
Ed oltra questa nota, il peccadiglio
Di Spagna gli dànno anco, che non creda
36In unità del Spirto, il Padre e ’l Figlio.
Non che contempli come l’un proceda
Dall’altro, o nasca, e come il debol senso
39Ch’uno o tre possano essere, conceda;
Ma gli par che, non dando il suo consenso
A quel che approvan gli altri, mostri ingegno
42Da penetrar più su che ’l cielo immenso.
Se Nicoletto5 o fra Martin fan segno
D’infedele o d’eretico, ne accuso
45Il saper troppo,6 e men con lor mi sdegno;
Perchè salendo lo intelletto in suso
Per veder Dio, non dê parerci strano
48Se talor cade giù cieco e confuso.
Ma tu7 del qual lo studio è tutto umano,
E sono tuoi suggetti i boschi e i colli.
51Il mormorar d’un rio che righi il piano;
Cantar antiqui gesti, e render molli
Con preghi animi duri, e far sovente
54Di false lode i principi satolli:
Dimmi, che truovi tu che sì la mente
Ti debbia avviluppar, sì tôrre il senno,
57Che tu non creda come l’altra gente?
Il nome che di apostolo ti denno,
O d’alcun minor santo i padri, quando
60Cristiano d’acqua, e non d’altro, ti fenno,
In Cosmico, in Pomponio vai mutando;
Altri Pietro in Pïerio, altri Giovanni
63In Giano o in Giovïan va riconciando:8
Quasi che ’l nome i buon giudici inganni,
E che quel meglio t’abbia a far poeta,
66Che non farà lo studio di molti anni!9
Esser tali devean quelli che vieta
Che sian nella repubblica Platone,
69Da lui con sì santi ordini discreta:
Ma non fu tal già Febo, nè Anfïone,
Nè gli altri che trovaro i primi versi;
72Che col buon stile, e più con l’opre buone,
Persüasero agli uomini a doversi
Ridurre insieme, e abbandonar le ghiande,
75Che per le selve li traean dispersi;
E fêr che i più robusti, la cui grande
Forza era usata alli minori tôrre
78Or mogli, or gregge ed or miglior vivande,
Si lasciaro alle leggi sottoporre,
E cominciâr, versando10 aratri e glebe,
81Del sudor lor più giusti frutti a côrre.
Indi i scrittor fêro all’indôtta plebe
Creder, che al suon delle soavi cetre
84L’un Troja e l’altro edificasse Tebe;
E avesson fatto scendere le pietre
Dagli alti monti; ed Orfeo tratto al canto
87Tigri e leon dalle spelonche tetre.
Non è, s’io mi corruccio e grido alquanto11
Più con la nostra, che con l’altre scole,
90Ch’in tutte l’altre io non veggia altrettanto;
D’altra correzïon, che di parole,
Degne: nè del fallir de’ suoi scolari,
93Non pur Quintilïano è che si duole.
Ma se degli altri io vuò scoprir gli altari,
Tu dirai che rubato e del Pistoja12
96E di Pietro Aretino abbia gli armari.
Degli altri studî, onor e biasmo, noja
Mi dà e piacer; ma non, come s’io sento
99Che viva il pregio de’ poeti e moja.13
Altrimenti mi dolgo e mi lamento
Di sentir riputar senza cervello
102Il biondo Aonio, e più leggier che ’l vento;
Che se del dottoraccio suo fratello14
Odo il medesmo, al quale un altro pazzo
105Donò l’onor del manto e del cappello.
Più mi duol che in vecchiezza voglia il guazzo
Placidïan, che gioven dar soleva,
108E che di cavalier torni ragazzo;
Che di sentir che simil fango aggreva
Il mio vicino Andronico, e vi giace
111Già settant’anni, e ancor non se ne lieva.
Se mi è detto che Pandaro è rapace,
Curio goloso, Pontico idolatro,
114Flavio biastemator, via più mi spiace,
Che se per poco prezzo odo Cusatro
Dar le sentenze false, o che col tôsco
117Mastro Battista mescoli il veratro;
O che quel mastro in teología, ch’al tosco
Mesce il parlar facchin, si tien la scroffa,
120E già n’ha dui bastardi, ch’io conosco;
Nè per saziar la gola sua gaglioffa
Perdona a spesa, e lascia che di fame
123Langue la madre e va mendica e goffa:
Poi lo sento gridar (che par che chiame
Le guardie) ch’io digiuni, e ch’io sia casto,
126E che quanto me stesso, il prossimo ame.
Ma gli error di questi altri così il basto
Di miei pensier non gravano, che molto
129Lasci il dormir, o perder voglia un pasto.
Ma per tornar là donde io mi son tolto,
Vorrei che a mio figliuolo un precettore
132Trovassi, meno in questi vizî involto;
Che nella propria lingua dell’autore
Gl’insegnasse d’intender ciò ch’Ulisse
135Sofferse a Troja, e poi nel lungo errore:
Ciò che Apollonio e Euripide già scrisse,
Sofocle, e quel che dalle morse fronde
138Par che poeta in Ascra divenisse;15
E quel che Galatea chiamò dall’onde;16
Pindaro, e gli altri, a cui le Muse argive
141Donâr sì dolci lingue e sì faconde.
Già per me sa17 ciò che Virgilio scrive,
Terenzio, Ovidio, Orazio, e le plautine
144Scene ha vedute guaste e appena vive.18
Omai può senza me per le latine
Vestigie andar a Delfo, e della strada
147Che monta in Elicon vedere il fine.
Ma perchè meglio e più sicur vi vada,
Desidero ch’egli abbia buone scorte,
150Che sien della medesima contrada.
Non vuol la mia pigrizia, o la mia sorte,
Che del tempio d’Apollo io gli apra in Delo,
153Come gli fei nel Palatin, le porte.19
Ahi lasso! quando ebbi al Pegáseo mêlo,20
L’età disposta, che le fresche guancie
156Non si vedeano ancor fiorir d’un pelo;
Mio padre mi cacciò con spiedi e lancie,
Non che con sproni, a volger testi e chiose,
159E m’occupò cinque anni in quelle ciancie.21
Ma poi che vide poco fruttüose
L’opere, e il tempo in van gittarsi, dopo
162Molto contrasto, in libertà mi pose.22
Passar venti anni io mi trovavo, e d’uopo
Aver di pedagogo; chè a fatica
165Inteso avrei quel che tradusse Esopo.23
Fortuna molto mi fu allora amica,
Che mi offerse Gregorio da Spoleti,24
168Che ragion vuol ch’io sempre benedica.
Tenea d’ambe le lingue i bei secreti,
E potea giudicar se miglior tuba
171Ebbe il figliol di Venere o di Teti.
Ma allora non curai saper di Ecuba
La rabbiosa ira, e come Ulisse a Reso
174La vita a un tempo e li cavalli ruba;
Ch’io volea intender prima in che avea offeso
Enea Giunon, che ’l bel regno da lei
177Gli dovesse d’Esperia esser conteso;
Che ’l saper nella lingua degli Achei
Non mi reputo onor, s’io non intendo
180Prima il parlar de li Latini miei.
Mentre l’uno acquistando, e differendo
Vo l’altro, l’occasion fuggì sdegnata,
183Poi che mi porge il crine, ed io nol prendo.
Mi fu Gregorio dalla sfortunata
Duchessa tolto, e dato a quel figliuolo
186A chi avea il zio la signoría levata.
Di che vendetta, ma con suo gran duolo,
Vide ella tosto: ahimè, perchè del fallo
189Quel che peccò non fu punito solo!25
Col zio il nipote (e fu poco intervallo)
Del regno e dell’aver spogliati in tutto,
192Prigioni andâr sotto il dominio gallo.
Gregorio, a’ prieghi d’Isabella, indutto
Fu a seguire il discepolo là dove
195Lasciò, morendo, i cari amici in lutto.
Questa jattura, e l’altre cose nôve
Che in quei tempi successero, mi fêro
198Scordar Talía ed Euterpe e tutte nove.
Mi môre il padre,26 e da Maria il pensiero
Dietro a Marta27 bisogna ch’io rivolga;
201Ch’io muti in squarci ed in vacchette28 Omero:
Truovi marito e modo che si tolga
Di casa una sorella, e un’altra appresso;29
204E che l’eredità non se ne dolga:
Coi piccioli fratelli, ai quai successo
Ero in luogo di padre, far l’uffizio
207Che debito e pietà m’avea commesso.
A chi studio, a chi corte, a chi esercizio30
Altro proporre; e procurar non pieghi
210Dalle virtudi il molle animo al vizio.
Nè questo è sol che alli miei studî nieghi
Di più avanzarsi, e basti che la barca,
213Perchè non torni a dietro, al lito leghi.
Ma si truovò di tanti affanni carca
Allor la mente mia, ch’ebbi desire,
216Che la cocca al mio fil fêsse la Parca.
Quel, la cui dolce compagnia nutrire
Solea i miei studî, e stimulando innanzi
219Con dolce emulazion solea far ire;
Il mio parente, amico, fratello, anzi
L’anima mia, non mezza no, ma intiera,
222Senza ch’alcuna parte me ne avanzi;
Morì Pandolfo,31 poco dopo. Ah fera
Scossa che avesti allor, stirpe Arïosta,
225Di ch’egli un ramo, e forse il più bello, era!
In tanto onor, vivendo, t’avría posta,
Ch’altra a quel, nè in Ferrara nè in Bologna,
228Ond’hai l’antiqua origine,32 s’accosta.
Se la virtù dà onor, come vergogna
Il vizio; si potea sperar da lui
231Tutto l’onor che buono animo agogna.
Alla morte del padre e delli dui
Sì cari amici, aggiungi che dal giogo
234Del cardinal da Este oppresso fui;
Che dalla creazione insino al rogo
Di Giulio, e poi sette anni anco di Leo,33
237Non mi lasciò fermar molto in un luogo,
E di poeta cavallar mi feo:
Vedi se per le balze e per le fosse
240Io potevo imparar greco o caldeo.
Mi maraviglio che di me non fosse
Come di quel filosofo, a chi il sasso
243Ciò che innanzi sapea, dal capo scosse.34
Bembo, io ti prego insomma, pria che ’l passo
Chiuso gli sia, ch’al mio Virginio porga
246La tua prudenza guida, che in Parnasso,
Ove per tempo ir non sepp’io, lo scorga.
Note
- ↑ Ebbe l’Ariosto due figli naturali: uno chiamato Giambatista, che si diede all’arte della guerra; l’altro Virginio, che nel 1531 fu da lui mandato a stadio in Padova, come si prova da una commendatizia (vedasi tra le Lettere da noi riprodotte la XI) con cui lo affida al Bembo; e coltivò, ad esempio del padre, le lettere amene. — (Molini.)
- ↑ Demetrio Calcondila e Marco Musuro famosi grammatici greci del tempo del poeta; il quale fa menzione di quest’ultimo anche nel Furioso, c. XLVI, st. 13.
- ↑ Vedasi il primo dei Cinque Canti, st. 2. — E chi a lettere attende, ricordi la sentenza.
- ↑ L’autore avea fatto prima le due seguenti terzine di questo modo:
Pochi sono i grammatici e umanisti
Senza il vizio per cui Dio Sabaot
Fece Gomorra e i suoi vicini tristi;
Chè mandò il fuoco giù dal cielo, e quot quot
Eran, tutti consunse, sì che a pena
Campò faggendo uno innocente, Lot.
Così legge la prima edizione del 1534 ed altre antiche, e fra le moderne quella del Rolli.— (Molini.) - ↑ Intese forse Niccolò Vernia, professore di Padova, il quale fu accusato di non retta credenza sopra alcuni dogmi della fede, per aver difeso l’opinione di Averroe dell’unico intelletto. Vedi Papadopoli, Hist. Gymnasii Patavini, vol. I, pag. 291. Per Fra Martin intende forse Lutero. — (Molini.)
- ↑ Il poeta avea fatto prima: Il sottil studio; e così legge il Rolli, affidato alle prime edizioni. — (Molini.)
- ↑ Giova avvertire che qui il poeta non intende già di rivolgere il discorso al Bembo, ma bensì, nella persona di un solo, a quegli umanisti dei quali ha parlato nelle precedenti terzine. — (Molini.)
- ↑ Riprende l’uso e il gusto d’allora, che gli scrittori cioè si cambiassero i nomi cristiani del battesimo in nomi gentili; uso introdotto da Pomponio Leto sul fine del secolo XV. Pierio Valeriano, Gioviano Pontano sono noti. Il Cosmico (Niccolò Lelio da Padova) fu poeta del secolo XV. — (Molini.)
- ↑ Il poeta avea fatto prima:
Che ’l studio e l’esercizio di molti anni. — (Molini.) - ↑ Rivolgendo. Può aggiungersi all’altro che il Monti trasse dal Furioso «Che sempre la sua ruota in giro versa.»
- ↑ L’autore avea prima scritto
S’io mi corruccio, Bembo, e grido alquanto. — (Molini.) - ↑ Antonio (chi lo vuol de’ Camelli, e chi de’ Vinci) da Pistoja fu poeta burlesco e satirico a’ tempi della gioventù dell’Ariosto. — (Barotti) — Il Tiraboschi dice che due suoi drammi furono recitati alla corte d’Ercole I, duca di Ferrara.
- ↑ Il biasimo e l’onore degli altri studi mi danno noja e piacere; ma non come quello che io provo quando sento che l’onore de’ poeti risplende per virtù, o si oscura per vizio. — (Molini.)
- ↑ Allusioni a persone oggi sconosciute. Il medesimo è da dirsi rispetto ai nomi che seguono, di cui parte accenna, pur troppo, ad uomini di lettere e poeti; ed altra a persone di professioni da questa diverse.
- ↑ Esiodo, nato in Ascra nella Beozia, sognò di masticare foglie d’alloro, e si svegliò poeta. Così racconta egli stesso nella Teogonia. — (Barotti.)
- ↑ Teocrito. — (Molini.)
- ↑ Il Baruffaldi, nella Vita di Lodovico, ebbe più volte occasione di parlare della predilezione di lui verso il figlio Virginio (natogli da una contadinella circa il 1509); della quale non è la minor prova l’averlo da sè medesimo ammaestrato nelle lettere umane e latine. Se non che il poeta aveva esercitato questo officio medesimo anche verso il maggiore de’ suoi fratelli, Gabriele.
- ↑ Non abbiamo anc’oggi nè tutte nè intere le Commedie di Plauto, che più imperfette e più mutile correvano ai tempi dell’Ariosto.
- ↑ L’Ariosto accenna, che non avendo egli apparato il greco, non poteva insegnarlo a Virginio, come aveva fatto il latino. — (Pezzana.)
- ↑ Per Melode, Melodia; ricopiando il Pegaseium melos di Persio, nel proemio delle sue Satire. Notò il Barotti l’allucinazione di un commentatore, per altro benemerito, che prendendo melo per l’albero delle mele, o pel frutto stesso, spiegava: Quand’ebbi l’età disposta a cogliere i frutti di Permesso, cioè la gloria d’illustre poeta.
- ↑ E ciò nel patrio studio di Ferrara, avendo il Baruffaldi smentita l’opinione per altri messa in campo, che l’Ariosto fosse mandato a studiar leggi nell’università di Padova. Vita ec., pag. 63 e seg.
- ↑ Intercedendo a pro del poeta il suo cugino e coetaneo Pandolfo Ariosti, più volte lodato nelle poesie latine di Lodovico, e in questo stesso componimento. Baruffaldi, Vita ec., pag. 66 e seg.
- ↑ Cioè, Fedro.
- ↑ Gregorio da Spoleto, agostiniano, maestro dell’Ariosto e di Alberto Pio da Carpi, fu ottimo grecista e letterato. Isabella d’Aragona, vedova di Giovan Galeazzo Sforza, lo prese per institutore di suo figlio Francesco, a cui Lodovico Sforza, detto il Moro, suo zio, aveva usurpato lo stato di Milano. Poco dopo il Moro cadde nelle mani di Luigi XII re di Francia. Isabella con la sua figlia Bona si rifugiò in Ischia, ove finì i suoi giorni; e Francesco condotto dai Francesi a Lione, si vestì monaco nella badía di Borgogna, e per una caduta da cavallo morì. Gregorio, ai preghi d’Isabella, avendolo accompagnato in Francia, vi finì anch’esso di vivere. — (Molini.)
- ↑ È noto come Lodovico il Moro, aprendo le porte a’ Francesi nel 1494, cagionasse le guerre che afflissero l’Italia per più di trent’anni, e la servitù novella e più largamente estesa che di quelle fu conseguenza.
- ↑ L’anno 1500. Baruffaldi, op. cit., pag. 96.
- ↑ Cioè dalla vita contemplativa all’attiva.
- ↑ «Osservo che il costume di notare in vacchette e in giornali le ragioni di dare ed avere per ajuto della memoria, egli serbòllo poi sempre; ed alcuni squarci di tal genere da lui scritti negli anni più tardi, si conservano nella pubblica Biblioteca (di Ferrara), con gli altri manoscritti di lui.» Baruffaldi, Vita ec., pag. 97.
- ↑ Vedi la nota al v. 211 della Satira II.
- ↑ Raccogliamo qui i nomi dei fratelli tutti di Lodovico. Gabriele, uomo di lettere, ammogliatosi, morto nel 1549; Carlo, dato alla milizia, mancato nel 1527; Galasso, cortigiano, canonico in Ferrara ed in Reggio, ambasciatore ducale, morto in Ingolstadt nel 1546; Alessandro, prima militare, poi ecclesiastico, morto nel 1569. Vedi Baruffaldi, op. cit., pag. 38-44.
- ↑ Era figliuolo di Malatesta Ariosti. Ignorasi l’anno preciso della sua morte, che il Baruffaldi argomenta dovesse accadere tra il 1500 e il 1503.
- ↑ Poco più di quanto qui se ne accenna seppe dirci su tal proposito il Baruffaldi. Vedi Vita ec., pag. 10.
- ↑ Dagli undici di novembre 1503, in cui fu eletto Giulio II, sino agli undici marzo 1519, quando principiò l’anno settimo di Leone X, passarono anni quindici e mesi quattro: e se vogliasi a tutto intiero l’anno, che finì li 10 marzo del 1520, passarono anni sedici e quattro mesi. — (Barotti.)
- ↑ Allude a un fatto accaduto a un eruditissimo ateniese (di cui peraltro s’ignora il nome), il quale, cadutogli sul capo un sasso, dimenticò tutte le lettere, da lui con grande ardore coltivate. Si vegga Plinio, lib. VII, cap. 24; Valerio Massimo, lib. I, cap. 8; e Solino, lib. I.