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xiii - l’«orlando furioso» 11


                                    Questo mi basta, il resto della terra,
senza mai pagar l’oste, andrò cercando
con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
     

Ma non è lasciato vivere, e ha tra’ piedi il cardinale, e ne sente una stizza che sfoga con questo e con quello. Qualche rara volta la stizza si alza a indignazione e gli strappa nobili accenti :

                                    Apollo, tua mercé, tua mercé, santo
collegio delle muse, io non possiedo
tanto per voi ch’io possa farmi un manto.

     Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro
Cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro
     renderli e tór la libertá mia prima.

     Se avermi dato onde ogni quattro mesi
ho venticinque scudi, né si fermi
che molte volte non mi sien contesi,
     mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
obbligarmi ch’io sudi e tremi, senza
rispetto alcun ch’io muoia o ch’io m’ infermi;
     non gli lasciate aver questa credenza:
ditegli che piú tosto eh’esser servo,
torrò la povertade in pazienza.
     

Ma sono scarse faville. Non è cosi rimesso d’animo o cupido d’onori, che imiti i cortigiani e sacrifichi la sua comoditá per fare a gusto del cardinale; e non è cosi altero, che rompa la catena una buona volta e lo mandi con Dio. Serve borbottando e sfogando il mal umore, con una sua propria fisonomia nella scala de’ Sancio Panza e de’ don Abbondio. E ne nascono situazioni stupendamente comiche. Tale è il suo viaggio a Roma, con tante speranze nell’amico Leone. Come lo accoglie bene! Ma sono parole, e la sera gli tocca andare a cena sino all’ insegna del Montone:

                                    Piegossi a me dalla beata sede:
la mano e poi le gote ambe mi prese,
e il santo bacio in amendue mi diede...