Satire (Ariosto 1857)/Satira II

Satira II

../Satira I ../Satira III IncludiIntestazione 22 aprile 2024 100%

Satira I Satira III
[p. 161 modifica]

SATIRA SECONDA.




A MESSER ALESSANDRO ARIOSTO

ED A MESSER LUDOVICO DA BAGNO.1


     Io desidero intendere da voi,
Alessandro fratel, compar mio Bagno,
3S’in corte2 è ricordanza più di noi;
     Se più il signor me accusa; se compagno
Per me si leva, e dice la cagione

[p. 162 modifica]

6Per che, partendo gli altri, io qui rimagno:
     O, tutti dotti nella adulazione
(L’arte che più tra noi si studia e côle),
9L’ajutate a biasmarmi oltra ragione.
     Pazzo chi al suo signor contraddir vuole,
Se ben dicesse c’ha veduto il giorno
12Pieno di stelle, e a mezza notte il sole!
     O ch’egli lodi, o voglia altrui far scorno,
Di varie voci subito un concento
15S’ode accordar di quanti n’ha d’intorno.
     E chi non ha per umiltà ardimento
La bocca aprir, con tutto il viso applaude,
18E par che voglia dire: — Anch’io consento. —
     Ma se in altro biasmarmi, almen dar laude
Dovete, che volendo io rimanere,
21Lo dissi a viso aperto e non con fraude.
     Dissi molte ragioni, e tutte vere,
Delle quali per sè sola ciascuna
24Esser mi3 dovea degna di tenere.
     Prima la vita, a cui poche o nessuna
Cosa ho da preferir, che far più breve
27Non voglio che il ciel voglia o la fortuna.
     Ogni alterazïone, ancor che leve,
Ch’avesse il mal ch’io sento,4 o ne morrei,
30O il Valentino e il Postumo5 errar deve.
     Oltra che ’l dicano essi, io meglio i miei
Casi d’ogni altro intendo; e quai compensi
33Mi siano utili so, so quai son rei.
     So mia natura come mal conviensi
Co’ freddi verni; e costà sotto il polo
36Gli avete voi, più che in Italia, intensi.
     E non mi nocerebbe il freddo solo;
Ma il caldo delle stufe, c’ho sì infesto,

[p. 163 modifica]

39Che più che dalla peste me gl’involo.
     Nè il verno altrove s’abita in cotesto
Paese; vi si mangia, giuoca e bee,
42E vi si dorme e vi si fa anco il resto.6
     Chi quindi vien,7 come sorbir si dee
L’aria che tien sempre in travaglio il fiato
45Delle montagne prossime Rifee?
     Dal vapor che, dal stomaco elevato,
Fa catarro alla testa e cala al petto,
48Mi rimarre’ una notte soffocato.
     E il vin fumoso, a me vie più interdetto
Che ’l tôsco, costì a inviti si tracanna,
51E sacrilegio è non ber molto e schietto.
     Tutti li cibi son con pepe e canna
Di amomo, e d’altri aromati che tutti,
54Come nocivi, il medico mi danna.
     Qui, mi potreste dir ch’io avrei ridutti,
Dove sotto il cammin sedería al fôco,
57Nè piei nè ascelle odorerei nè rutti;
     E le vivande condiríami il cuoco
Come io volessi, ed inacquarmi il vino
60Potre’ a mia posta, e nulla berne o poco.
     Dunque, voi altri insieme, io dal mattino
Alla sera starei solo alla cella.
63Solo alla mensa, come un certosino?
     Bisogneríano pentole e vasella
Da cucina e da camera, e dotarme
66Di masserizie qual sposa novella.
     Se separatamente cucinarme
Vorrà mastro Pasino8 una o due volte,
69Quattro e sei mi farà ’l viso dell’arme.
     S’io vorrò delle cose ch’avrà tolte
Francesco di Siver9 per la famiglia,
72Potrò mattina e sera averne molte.

[p. 164 modifica]

     S’io dirò: — Spenditor, questo mi piglia,
Che l’umido cervel10 poco nodrisce;
75Questo no, che ’l catar troppo assottiglia; —
     Per una volta o due che mi ubbidisce,
Quattro e sei mi si scorda, o perchè teme
78Che non gli sia accettato, non ardisce.
     Io mi riduco al pane; e quindi freme
La collera: cagion che alli due motti
81Gli amici ed io siamo a contesa insieme.
     Mi potreste anco dir: — Delli tuoi scotti11
Fa che ’l tuo fante comprator ti sia;
84Mangia i tuoi polli alli tuo’ alari cotti. —
     Io per la mala servitude mia
Non ho dal cardinale ancora tanto,
87Ch’io possa fare in corte l’osteria.
     Apollo, tua mercè, tua mercè, santo
Collegio delle Muse, io non possiedo
90Tanto per voi, ch’io possa farmi un manto.
     — Oh! il signor t’ha dato... — Io vel concedo,
Tanto che fatto m’ho più d’un mantello;
93Ma che m’abbia per voi12 dato non credo.13
     Egli l’ha detto:14 io dirlo a questo e a quello
Voglio anco, e i versi miei posso a mia posta
96Mandar al culiséo per lo suggello.
     Non vuol che laude sua da me composta,
Per opra degna di mercè si pona;
99Di mercè degno è l’ir correndo in posta.

[p. 165 modifica]

     A chi nel barco15 e in villa il segue, dona;
A chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi
102Nel pozzo per la sera in fresco a nona;
     Vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi16
Si levino a far chiodi, sì che spesso
105Col torchio in mano addormentato caschi.
     S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,
Dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ozio;
108Più grato fôra essergli stato appresso.
     E se in cancellería m’ha fatto sozio
A Milan del Constabil,17 sì c’ho il terzo
111Di quel che al notar vien d’ogni negozio;
     Gli è perchè alcuna volta io sprono e sferzo,
Mutando bestie e guide, e corro in fretta
114Per monti e balze, e con la morte scherzo.18
     Fa a mio senno, Maron;19 tuoi versi getta
Con la lira in un cesso, e un’arte impara.
117Se beneficii vuoi, che sia più accetta.
     Ma tosto che n’hai, pensa che la cara
Tua libertà non meno abbi perduta,
120Che se giocata te l’avessi a zara;
     E che mai più (se bene alla canuta
Età vivi, e viva egli di Nestorre)
123Questa condizïon non ti si muta.
     E se disegni mai tal nodo sciôrre,
Buon patto avrai, se con amore e pace
126Quel che t’ha dato si vorrà ritôrre.
     A me, per esser stato contumace
Di non voler Agria veder nè Buda,
129Che si ritoglia il suo sì non mi spiace
     (Sebben le miglior penne ch’avea in muda

[p. 166 modifica]

Rimesse tutte, mi tarpasse),20 come
132Che dall’amor e grazia sua mi escluda;
     Che senza fede e senza amor mi nôme,
E che dimostri con parole e cenni,
135Che in odio e che in dispetto abbia il mio nome.
     E questo fu cagion ch’io mi ritenni
Di non gli comparire innanzi mai,
138Dal dì che indarno ad escusar mi venni.
     Ruggier,21 se alla progenie tua mi fai
Sì poco grato, e nulla mi prevaglio22
141Che gli alti gesti e ’l tuo valor cantai,
     Che debbo fare io qui, poich’io non vaglio
Smembrar sulla forcina in aria starne,
144Nè so a sparvier nè a can metter guinzaglio?
     Non feci mai tai cose, e non so farne:
Agli usatti, agli spron (perch’io son grande)
147Non mi posso adattar, per porne o trarne.
     Io non ho molto gusto di vivande,
Che scalco io sia: fui degno essere al mondo
150Quando viveano gli uomini di ghiande.
     Non vuò il conto di man tôrre a Gismondo:23
Andar più a Roma in posta non accade
153A placar la grand’ira di Secondo.24

[p. 167 modifica]

     E quando accadesse anco in questa etade,
Col mal ch’ebbe principio allora forse,
156Non si convien più correr per le strade.
     Se far cotai servigi, e raro tôrse
Di sua presenza dê chi d’oro ha sete,
159E stargli come Artofilace25 all’Orse;
     Più tosto che arricchir, voglio quïete;
Più tosto che occuparmi in altra cura
162Sì, che inondar lasci il mio studio a Lete.
     Il qual, se al campo non può dar pastura,
Lo dà alla mente con sì nobil’esca,
165Che merta di non star senza cultura.
     Fa che la povertà meno m’incresca,
E fa che la ricchezza sì non ami,
168Che di mia libertà per suo amor esca.
     Quel ch’io non spero aver, fa ch’io non brami;
Che nè sdegno nè invidia mi consumi
171Perchè Marone o Celio26 il signor chiami:
     Ch’io non aspetto a mezza estate i lumi
Per esser col signor veduto a cena,
174Ch’io non lascio accecarmi in questi fumi:
     Ch’io vado solo e a piedi ove mi mena
Il mio bisogno; e quando io vo a cavallo,
177Le bisacce gli attacco sulla schiena;
     E credo che sia questo minor fallo,
Che di farmi pagar s’io raccomando
180Al principe la causa d’un vassallo;
     O mover liti in beneficii, quando
Ragion non v’abbia, e facciami i pievani
183Ad offrir pensïon venir pregando.
     Anco fa che al ciel levo ambe le mani,
Ch’abito in casa mia comodamente,
186Voglia tra cittadini o tra villani:
     E che nei ben paterni il rimanente
Del viver mio, senza imparar nova arte,

[p. 168 modifica]

189Posso, e senza rossor, far, di mia gente27
     Ma perchè cinque soldi da pagarte,
Tu che noti, non ho, rimetter voglio
192La mia favola al loco onde si parte.28
     Aver cagion di non venir mi doglio;
Detto ho la prima, e s’io vuò l’altre dire,
195Nè questo basterà nè un altro foglio.
     Pur ne dirò anco un’altra: che patire
Non debbo che, levato ogni sostegno,
198Casa nostra in ruina abbia a venire.
     De’ cinque che noi siam, Carlo29, è nel regno
Onde cacciare i Turchi il mio Cleandro,30
201E di starvi alcun tempo fa disegno:
     Galasso vuol nella città di Evandro
Por la camicia sopra la guarnaccia:31
204E tu sei col signore32 ito, Alessandro.
     Ècci Gabriel, ma che vuoi tu ch’ei faccia?
Chè da fanciullo la sua mala sorte
207Lo impedì delli piedi e delle braccia.33
     Egli non fu nè in piazza mai nè in corte;
Ed a chi vuol ben reggere una casa,
210Questo si può comprendere che importe.
     Alla quinta sorella34 che è rimasa,

[p. 169 modifica]

Era bisogno apparecchiar la dote
213Che le siam debitori or che si accasa.
     L’età di nostra madre35 mi percôte
Di pietà il cor, che da tutti in un tratto
216Senza infamia lasciata esser non puote.
     Io son de’ dieci il primo, e vecchio fatto
Di quaranta quattro anni, e il capo calvo
219Da un tempo in qua sotto il cuffiotto appiatto.
     La vita che mi avanza, me la salvo
Meglio ch’io so: ma tu, che diciotto anni
222Dopo me t’indugiasti a uscir dell’alvo,36
     Gli Ongari a veder torna e gli Alamanni,
Per freddo e caldo segui il signor nostro,
225Servi per amendue, rifà i miei danni.
     Il qual se vuol di calamo ed inchiostro
Di me servirsi, e non mi tôr da bomba,
228Digli: — Signore, il mio fratello è vostro. —
     Io stando qui, farò con chiara tromba
Il suo nome sônar forse tanto alto,
231Che tanto mai non si levò colomba.
     A Filo, a Cento, in Ariano e a Calto37
Arriverei, ma non sin al Danubbio,
234Ch’io non ho piè gagliardi a sì gran salto.
     Ma se a volger di nuovo avessi al subbio
I quindici anni che in servirlo ho spesi,
237Passar la Tana ancor non starei in dubbio.
     Se avermi dato onde ogni quattro mesi
Ho venticinque scudi, nè sì fermi,
240Che molte volte non mi sien contesi,
     Mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
Obbligarmi ch’io sudi e tremi, senza
243Rispetto alcun ch’io muoja ch’io m’infermi;
     Non gli lasciate aver questa credenza:
Ditegli che più tosto ch’esser servo,
246Torrò la povertade in pazïenza.
     Uno asino fu già, che ogni osso e nervo
Mostrava di magrezza, e entrò pel rotto
249Del muro, ove di grano era uno acervo.

[p. 170 modifica]

     E tanto ne mangiò, che l’epa sotto
Si fece più d’una gran botte grossa,
252Fin che fu sazio, e non però di botto.
     Temendo poi che gli sien peste l’ossa,
Si sforza di tornar dove entrato era,
255Ma par che ’l buco più capir nol possa.
     Mentre s’affanna e uscire indarno spera,
Gli disse un topolino: — Se vuoi quinci
258Uscir, trâtti, compar, quella panciera.
     A vomitar bisogna che cominci
Ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro:
261Altrimenti quel buco mai non vinci. —
     Or conchiudendo dico, che se ’l sacro
Cardinal comperato avermi stima
264Con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro
     Renderli, e tôr la libertà mia prima.




Note

  1. Dei fratelli del nostro poeta verrà occasione di parlare in altri luoghi. Del Bagno non si sa se non quanto può raccogliersi da questa medesima Satira.
  2. Quella del cardinale Ippolito D’Este, allora arcivescovo di Strigonia in Unghería, ove l’autore negò di seguirlo; sicchè perdette la sua grazia. — (Molini.)
  3. Così scioglieva l’affisso il Barotti. Il Molini leggendo Essermi, interpreta stentatamente: tenermi in Ferrara. A noi pare che al verbo tenere possa qui applicarsi il ben noto e popolarissimo significato di Avere efficacia, Valere.
  4. «Il catarro e la debolezza abituale di stomaco,» secondo il Baruffaldi, Vita ec., pag. 166. Vedi anche sei terzetti appresso, e il verso 155.
  5. Il Valentino (modenese) fu medico e chirurgo in corte del cardinale Ippolito, e lo accompagnò in Ungheria. Il Postumo (così detto perchè nato dopo la morte del padre) fu Guido Silvestri da Pesaro, medico, soldato, poeta e grande amico dell’Ariosto. Lo nomina anche nel Furioso, c. XLIII, st. 89,— (Molini.)
  6. L’autore avea prima fatto: Fuor che dormir, vi si fa tutto il resto; e così leggono le prime edizioni e il Rolli. Di poi corresse come qui si vede. — (Molini.)
  7. Leggiamo col Rolli ed altri, accettando la correzione proposta dal Molini stesso, che legge, col manoscritto: Che. Non così l’interpretazione di alcuni: chi viene dall’Italia; ma invece quella del Barotti: chi viene dalle stufe già dette.
  8. Era il cuoco del cardinale Ippolito — (Molini.)
  9. Era lo spenditore del medesimo — (Molini.)
  10. Contentandoci di avvertire che molte edizioni qui pongono l’umido crudel, non ci brigheremo di spiegare questi due versi ripetendo gli aforismi dell’antica scienza medicale.
  11. Esempio, pare a noi, da valersene per confermare il senso primitivo che viene a tal voce attribuito nel Vocabolario.
  12. Cioè, per voi Muse, alle quali il poeta pone in bocca il principio della risposta: «Oh! il signor t’ha dato...»
  13. Riportiamo, senz’altro, queste due terzine come si leggono nel maggior numero delle stampe, prima che venissero emendate secondo l’autografo:
                             Apollo, tua mercè, tua mercè, santo
                                  Collegio de le Muse, io non mi trovo
                                  Tanto per voi, ch’io possa farmi un manto.
                             E se ’l Signor m’ha dato onde far nuovo
                                  Ogni anno mi potrei più d’un mantello,
                                  Che m’abbia per voi dato io non approvo.
  14. Allusione a quella domanda divenuta sì celebre: «Dove avete trovato, messer Lodovico, tante corbellerie?» E più alla severa ammonizione, adombrata nel seguente terzetto, «che sarebbegli stato assai più caro che avesse atteso a servirlo.» Vedi Baruffaldi, Vita ec., pag. 175.
  15. Questo barco, formato di spaziose prateríe e campagne tra il Po di Lombardia e le mura di Ferrara a settentrione, era ai tempi del poeta un luogo di delizie della casa d’Este. — (Tortoli.)
  16. Sembra qui detto antonomasticamente per magnani o fabbri-ferrai. Chiodi, per ogni opera di tal mestiere.
  17. L’Ariosto godeva del terzo degli utili della cancellería arcivescovile di Milano, che ammontava a circa cento scudi annui, e ciò per un contratto di società con un Costabili, nobile ferrarese. — (Molini.) Vedi anche Baruffaldi, Vita ec., pag. 178.
  18. Onde disse nella Satira VII: «E di poeta cavallar mi feo» (v. 258).
  19. Andrea Marone bresciano, valoroso poeta latino estemporaneo, al servizio del duca, e amico dell’autore, che lo nomina anche nel Furioso, c. III, st. 56, e c. XLVI, st. 13. — (Molini.) Vedi Baruffaldi ec. pag. 25 e 177.
  20. Sembra alludere alle rinunzie, che il Baruffaldi dica «più sforzate che spontanee, de’ due beneficii ecclesiastici che (il poeta) godeva; l’uno di Castel San Felice, l’altro di Santa Maria in Benedellio.» Vita, pag. 177.
  21. Il noto eroe dell’Orlando Furioso, da cui l’Ariosto fa discendere gli Estensi.
  22. Con novità di costrutto, non di senso: Non traggo alcun pro.
  23. Era, probabilmente, il maestro di casa del cardinale. — (Molini.)
  24. Questo verso sembra allusivo piuttosto alla seconda che alla prima spedizione di Lodovico al pontefice Giulio II; poichè la prima eragli felicemente sortita, avendo egli ottenuto dal papa quello che i suoi signori desideravano. Ma questa forma, tanto del vero significativa, la grand’ira di Secondo, assai bene si applica all’ira conceputa da Giulio dopochè il duca Alfonso ebbe costretto i Veneziani a rendergli il forte di Legnago; gli effetti della quale, rispetto all’Ariosto, ci sono così descritti dal Baruffaldi: «Volò a Roma di nuovo..., e non avendo ivi trovato il pontefice, il quale in una sua villa di delizie soggiornava, colà recòssi immantinente. Gli storici non dicono se ottenesse udienza: se l’ottenne, fu al certo brevissima, e tutta spirante sdegno e minaccie. Tutti però si accordano nel dire che l’Ariosto corse gravissimo rischio della vita, perchè il papa aveva ordinato che fosse senz’altro gittato in mare. Virginio, il figlio, nelle sue Memorie, lo scrisse in quell’articolo — Di papa Giulio, che lo volse far trarre in mare; — Gabriele, il fratello, nel suo poemetto latino, accenna lo stesso pericolo: e non fu poco che potesse prestamente e segretamente sottrarsi da Roma, accompagnato dal solo timore d’essere nella foga inseguito ed arrestato.» Queste cose accaddero negli anni 1509 e 1510.
  25. Passandoci delle favole ed anche della nomenclatura astronomica, diciamo questa voce composta di due parole greche, le quali significano Custode delle Orse. Arato, in Cicerone, De nat. Deor.: «Arctophylax, vulgo qui dicitur esse Bootes, Quod temone quasi iunctam præ se quatit Arcton.»
  26. Calcagnini, altro fra i cortigiani del cardinale Ippolito.
  27. Costruiscasi: Posso, senza imparar nuova arte, e senza rossore di mia gente, far (passare) nei beni paterni il rimanente del viver mio. — (Molini.)
  28. Il Barotti ci diede l’interpretazione di questi versi, ricordando quel passo dell’Ercolano del Varchi, ove è detto: «A chi aveva cominciato alcun ragionamento, poi entrato in un altro, non si ricordava più di tornare a bomba e fornire il primo, pagava già un grosso; il qual grosso non valeva per avventura in quel tempo più che quei cinque soldi che si pagano oggi.»
  29. Uno dei fratelli del poeta.
  30. Intende per mio Cleandro quello tra i personaggi della Commedia I Suppositi, che l’autore fa fuggire da Otranto quando fu presa dai Turchi; e, conseguentemente, per regno, quello di Napoli.
  31. Di Galasso, altro dei fratelli di Lodovico, possono vedersi notizie nel Baruffaldi, a pag. 40-41. Il poeta allude scherzosamente, com’altri spiegarono, al roccetto, corta veste di tela bianca che i prelati e canonici portano sopra la veste talare.
  32. Col cardinale.
  33. Gabriele, il maggiore dopo Lodovico, tra i figliuoli di Niccolò, fu rattratto della persona, e coltivò egli pure le belle lettere e la poesia. Siamo a lui debitori di aver compiuta la Scolastica, come dovrà avvertirsi a suo luogo; e di molte notizie intorno alla sua famiglia, tramandateci ne’ suoi versi latini. Il Baruffaldi ne parla in più luoghi della sua Vita di Lodovico ec., e in ispecie a pag. 38-40. Morì in Ingolstadt nel 1549.
  34. Ignorasi il nome della quinta sorella del Poeta, Le altre furono Laura, Taddea, Virginia e Dorotea. Baruffaldi, Vita ec., pag. 25-26.
  35. Si suppone che avesse allora sessantacinque anni.
  36. Era nato nel 1492.
  37. Luoghi del Ferrarese, che ne disegnano i quattro lati, a mezzodì, a ponente, a levante, a settentrione. — (Barotti.)