Severino Ferrari
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Chi parla degli scolari di Carducci, incontra questo nome. Intorno sorge un bisbiglio lontano di gente che ricorda, quasi con compiacenza e secreto di iniziati. Ma per i più il nome suona invano.
È come una lieve risonanza dietro due iniziali, S. F., iscritte alle meravigliose quartine del poeta; dove tuttavia è bisogno di una noticina, che chiarisca; S. F., amico del Carducci....
Ponendo mente più intenta, si avverte qualche cosa nel passato: il suono vago di una nominanza, come una speranza nata intorno al capo di un poeta giovine.
Ma dove si è perduta quella speranza? Più da presso si levano ricordi pallidi e tristi, un murmure di pianto discreto..., si distingue una parola, Colle Gigliato, 1906.
E ci sovviene il pianto che udimmo allora, di una schiera numerata e gentile, pianto pudico, nell’ombra, che non voleva turbare un’altra grande tristezza vicina; chè li presso si spegneva esso il Carducci.
Il ricordo si ferma al camposanto dell’Alberino, dove pure è la lapide con le parole del Carducci; e pendono le corone degli amici.
Vorremo staccarne qualcuna? Vorremo accostarci a coloro, che non sono pochi, ai quali il nome è qualche cosa più che un suono o una curiosità letteraria; è tenerezza di ricordi, è fraternità di culto e di dolce malinconia. Severino.... pare un simbolo, un motto che apra le porte di un piccolo mondo solo; si sentono dolci echi e spira odore di giovinezza.
Troveremo da questa parte le memorie dell’amicizia e della pietà: innanzi alla quale, mettere in dubbio il culto, o anche cercarne solo le ragioni alla luce fredda del giorno, potrebbe sembrare profanazione. Anch’io consento nella pietà. Ma per questo appunto provo il bisogno oggi di affrontare il problema letterario nella sua aridità. Un galantuomo non deve chiedere compassione mai a nessuno, nè per sè, nè per i suoi.
⁂
Che cosa è dunque che mi può attirare verso Severino? Voglio gettar via tutto quello che letterariamente è impuro, l’affetto per l’uomo, il bene che ho tratto dalla sua conversazione, l’esemplare di bontà e di umanità che era in lui, e il desiderio troppo naturale in me di trovarne nell’arte alcuno effetto felice. Restano alcune pagine, che io amo rileggere, versi e prosa. Lascio da parte questa, pur così culta e gentile: ma non è altro che un episodio; contributo forzato del professore alle necessità pratiche dei concorsi, e non vale per se stessa, ma piuttosto per qualche parte accessoria; per la scelta degli argomenti, che toccano spesso la poesia popolare o, quasi per contrasto, la pura bibliografia, e sopra tutto per un non so che di umile e represso che vi si sente, e per la cura austera, inconsueta, dello scrivere. Ma quel che cerco anche nella prosa e nei commenti scolastici, così ben fatti, e negli studi dotti, non è ciò che vi comparisce in vista, l’erudito, e neanche il prosatore, che non è ivi ragione prima e fine a se stesso; altro cerco, un’ombra, una traccia, magari un contrasto o una dissonanza che mi rimandi ai versi.
I quali io leggo in due volumetti di ristampa recente, il Mago e Versi. Ma anche prima di possedere questi, Severino lo conoscevo già, in quel che più importa: un volume vecchio della Antologia m’aveva dato dei sonetti, un manuale di metrica certe ballatine e strambotti e madrigali; qualche altra cosa avevo raccolta dalla recensione del Carducci, del 1886, e certe quartine del Mago e gli alessandrini di Nostalgia li avevo presi non so di dove, dai giornali, dall’aria. Nei volumi non cerco altro che questi frammenti: ma in questi, poi, che cosa?
Ne rileggo uno che mi par caro sopra, gli altri; è anche il primo, se non sbaglio, ch’io m’abbia mai conosciuto:
Or voi, bei metri, a cui diè la freschezza |
Ebbene, io sento qui molte cose care e sommamente pregevoli; sopra tutto il testimonio dell’uomo, con la sua buona forma e buon giudizio letterario, con l’amore, così ben ben distinto, del Petrarca e di quel Poliziano che egli soleva leggere tanto argutamente; e sorrido anche alla modesta ironia di quel professore, esemplare di tutta una generazione. Ma la poesia dov’è? dov’è quel verso o quella parola ch’io possa ridire per mio diletto, pura e sola, avendone piena l’anima nell’oblio di tutte le altre cose del mondo?
E vado innanzi; discorro con l’occhio affannoso pagine ben note, forme e metri diversi, cose buone, care, ben fatte, le quartine del Mago, così ingegnose talora e così saporite di letterario dispetto e di elocuzione squisita, e le strofe musicali e le popolaresche, e le amorose e le domestiche, tutto quello che m’è piaciuto per tante ragioni e memorie, Cose buone; ma quale è veramente bella? L’affanno incerto della mia mente trova una espressione improvvisa; da un libro che ho lasciato poco tempo fa, un sospiro veramente lirico rifiorendo inaspettato e meraviglioso, («oi mamma mamma che luna che luna....»). Anche questa è poesia popolaresca, di quella che dicono semplice, inculta, poesia da stare a paragone, chi si fermi al di fuori, con le romanelle e coi canti dei carrettieri; ma quel sospiro solo ha potere di colmarmi l’anima, e come per incanto tutte le parole e i versi di quest’altro libriccino che ho aperto davanti si disfanno, si scompongono, perdono quella grazia fuggitiva che era nata un poco dalla mia simpatia e un poco, forse, da chi sa che cosa. Povero Severino!
Tutte le ragioni e le argomentazioni contro la sua cosidetta poesia mi balzano agli occhi inevitabili.
Non è poesia il Mago. È una bizzarria, molto interessante per la storia letteraria; ma non ha vita propria nè anima. È uno scherzo d’amici stiracchiato ad allegoria; e se come scherzo è arguto, fiorito di allusioni e di sorrisi e di malignità, come poema poi è freddo e vuoto. C’è della bravura, delle rime rare, delle strofe ben tornite, qualche nota soave; ma il tutto insieme non supera l’eccellenza di una esercitazione studentesca, accozzata alla rinfusa, piena di contraddizioni e di falle nella fantasia, dura e un po’ pedantesca nel tono.
Quel che si pregia, oltre al gusto sano di chi divide gli odi e gli amori del Carducci, è il lavorio dell’elocuzione; innamorata dei classici e del popolo, doviziosa, variata, ricca di intenzioni e di studio; ma questo può piacere come preparazione buona alla poesia, poesia non è.1
E io non son più contento neanche di quelle che sembrarono a molti perle, frammenti di poesia vera. È uno solo veramente, il frammento di Biancofiore e di Schicchi. Qualche cosa c’è veramente bello, e ne parlerò ancora; ma tutta la debolezza e sto per dire l’impotenza poetica di Severino è sensibile per me in quell’accumulo di tocchi incerti («ove serpendo — roseo va il sangue con mite vigor»), in quella vanità fantastica, che si sforza a dipingere con una quasi sensuale voluttà, e riesce al luogo comune della poesia popolare («van due fragranti rose alte crescendo; — sotto la manca ti fiorisce il cuor». Come sono spezzati e staccati questi due versi, che vorrebbero essere un sospiro solo!). Più vivo il bozzetto di Schicchi; ma anche questo è combinato di due pezzi diversi, senza unione, i sogni di Bologna e la sorella; e in un ritratto che vuol esser tutto conciso, calcato, abbondano le zeppe («a cui nel petto canta un lieto coro, — giovani capinere e rosignoli»; «con te, con Schicchi, a notte piena, via»). Leggera e pura, è la figurina della sorella buona, ma chi sa dirmi poi quanto valore e significato sia cresciuto in quella semplice descrizione per le poesie che abbiamo lette dopo, e che ivi sembrano presentite, del Pascoli?
Molto meglio i Bordatini. C’è qualche cosa nei metri antichi che canta e risplende; la semplicità dei motivi, la modestia dell’accento, la stessa uniformità dei richiami e degli echi a noi ben famigliari, conviene tento bene a quello spirito vago di amatore delle forme antiche! l’animo nostro se ne sente lieto e leggero, disposto a udire tutte quelle altre voci più umane e schiette di affetti e di ricordi. Sorgono aspetti amati della campagna, idilli di uccellini, musiche notturne, sospiri di romanelle appassionate; e quelle piccole scene domestiche, fra la malinconia dolce dei vecchi e la voluttà onesta della sposa, di cui non v’è cosa più cara.
Voi sapete che questa non è ancora poesia. È un principio della poesia, è la simpatia di un’anima ben fatta disposta ad amare e a contemplare e a cantare. Ma il canto? certo c’è nella verseggiatura di queste cose quella che il Carducci chiamava gaiezza: una fatica diventata facile, che si gode del suo lavoro e anche delle sue difficoltà. C’è nella voce qualche cosa di lucente e fiorente. Quell’intarsio e quella gravezza di elocuzione ricca del Mago si è sciolta, si è mossa; Severino si è fatto una lingua sua, non pittoresca, non luminosa, ma con un impasto proprio, che prende dolcezza e sapore da quella stessa facilità di parole care, schiette di suono, pulite di forma, anche se non abbiano per sè valore espressivo molto.
Con le mani bianche ti dà la mondiglia |
L’uomo che è giunto a verseggiare così, brilla in ogni sillaba in ogni accento in ogni rima di una allegrezza tutta sua.
Della quale il fiore è nel madrigale ben conosciuto:
Forse che dorme, raggiando, la luna |
Questa è la lingua poetica di Severino: incerta nel suo valore, poichè è tutta fatta, o quasi, di aggettivi e di ornamenti; ma sono adoperati così amorosamente! Non c’è mica nulla qui di veduto o sentito con forza: tutto riposa nella contentezza delle parole trovate e felicemente accoppiate, nel suono dolce delle sillabe (raggiando, mollezze, gigliato), nell’ascensione musicale di quelle vaghe forme sorgenti («un suo bel sonno candido falcato....»).2
Bisogna poi dire che questa felicità, da un altro punto di vista, è un difetto. Severino non è un poeta di canti; egli cerca delle parole, e le dice. Il suo linguaggio rivela a ogni passo l’impotenza della fantasia. Per pochi versi belli, quanti altri faticosi, incerti, vani: quanti aggettivi inutili, quante zeppe!
Caratteristici sono gli sciolti, dove la parola, perduta quella magia della rima, dovrebbe render lume di per se stessa; e resta buia, greve:
. . . . . . . . — Un giovin merlo, |
oppure, fuor degli sciolti:
Ritorna maggio ventilando l’ali
date a questa gentil, date d’amore. |
e altri innumerevoli.
Anche le cose migliori, a leggerle freddamente, mostrano di queste falle; quartine strascicate, versi e rime senza significato, pezzi interi che non rendono più suono di una noce guasta. moci che il Carducci, citando dei versi di S., era costretto a saltare qualche cosa.
E se ci pensate bene, questo qualche cosa è forse quello che vale di più; svela il difetto essenziale dello scrittore, la sua impotenza. Certi punti e momenti sono felici in lui, ma il soffio e la signoria poetica manca. Una poesia intera non gli sgorga mai dall’anima come un torrente.
Anche le cose piccole, anche un madrigale di otto versi, è fatto in due tre pezzi; e ognuno sta da sè. Prendo uno dei migliori:
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Qui ci sono almeno tre pensieri poetici diversi, legati solo superficialmente; quella gentilezza della neve che ride e sogna nel primo, non ha che fare con il contrasto del suo freddo con la calda linfa nel secondo membro, e la fine poi è un luogo comune della poesia popolare, già sfruttato dall’autore (ricordate il seno di Biancofiore).
Prendete pure le poesie più belle, dove sono i luoghi più amabili; le ottave siciliane di speranza, o nostalgia; vi parrà di trovare in quelle una certa unità, poichè toccano solo dell’accoglienza dei vecchi alla nuova figliuola; ma viva è solo la prima; nella seconda è un’amplificazione dell’ultimo verso bello («ei bisbiglian fra lor qualche parola») che non aggiunge nulla; e poi c’è un trapasso improvviso, giustificato solo grammaticalmente dalla prima interrogativa, e seguono versi oziosi («ed il fecondo amore — dolce a sperare! fia che gli apparecchi — novelli rami de la pianta onore?»).
Nella terza pare che si seguiti nel pensiero dei figli; ma è tutt’un’altra situazione, con la madre alzata in su l’aurora e mesta, che viene da un’altra poesia (e precisamente da: «Senti la mamma già per la cucina»); e il discorso si trascina inerte fino a quella cara immagine dei fanciulletti presso i nonni, e poi ricasca nel comune convenzionale di tutta l’ultima strofe:
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Unità c’è solo nelle poesie perfettamente fredde e retoriche, negli sciolti al Mazzoni e allo Straccali, in Apollo e Dafne, in Pane (che non è da confondere tuttavia con le altre per la fattura), nelle ultime due parti del Vanto degli argini di Reno, e così via; ma quella è unità meccanica di prosa versificata. Cattiva prosa, potete aggiungere; chè quando Severino si mette a riflettere sui contrasti sociali, o a ragionare dei destini della poesia, quella che altrove era semplicità cara qui diventa puerile.
Del resto è così per tutto; nei sonetti, nelle quartine, nelle ballate, nelle canzoni; ogni periodo metrico, talvolta ogni frase, ogni verso sta da sè! e dall’uno si passa all’altro senza ragione altro che estrinseca; e un pezzo ti par bello e l’altro brutto, ma del tutto insieme non sai che dire: poichè consistenza poetica non ne ha.
Più mi accosto alla fine di questo discorso, e meno contento mi trovo. Pare che alcuno da qualche parte mi chieda se c’era bisogno di usare tanta asprezza di giudizi sommari sopra questi poveri versi, che già non hanno fatto male nè invidiato nulla mai a nessuno, nè gloria, nè fortuna, nè oramai un poco di sole; e almeno mi dovrebbero esser sacri, come fiori secchi della giovinezza.
Penso un poco, su questo; e poi non mi dispiace più di avere fatto tanto. I limiti segnati voglio che dall’una parte dimostrino il fine e il difetto; ma dall’altra circoscrivono quasi il terreno proprio, dove Severino è in casa sua e non teme insulti. La sua bontà non è schiettamente poetica; ma essa è morale, e anche letteraria. L’affezione ch’io gli porto non resta senza ragione.
⁂
S’incontrano nella storia figure che sembrano vivere fra gli uomini e gli avvenimenti come la chiosa sul margine del libro. Ogni età ne possiede: figure velate e abbozzate appena, incompiute e sorgenti in una ombra vaga.
Se cercate di fermarne i contorni, durate fatica a trovarli. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno scritto, in quale opera hanno lasciato impronta più certa di sè? Non si sa. Si trova il nome, pronunziato con rispetto, con simpatia, con desiderio; da uomini che oggi noi ammiriamo per grandi; ma tutto ciò dura solo negli epistolari, nelle opere minori, negli angoli riposti della storia letteraria. Sono nomi senza corpo; la loro consistenza è rada e fuggitiva, fatta più che altro di desideri, di parole non dette, di sforzi non compiuti, di difetti non colmati: i vestigi si perdono nel rimpianto e nella lode, o si intravedono appena come un riflesso negli occhi affettuosi dei circostanti.
Felice La Boétie che trovava Montaigne per assicurare ai venuti dopo la forma della sua anima grande.
Così si incontra Severino in quella stagione della nostra storia letteraria che prende il nome dal Carducci. Egli dura accanto al poeta come l’ombra presso il corpo; che non può stare senza questo e non si può capire. Felice almeno in ciò, che la sua forma tenue è stata investita e quasi compiuta da quel sole. Il quale, dopo averla celata, vale oggi a restituirla.
Il Carducci ci invita a cercare Severino, come uno specchio di sè, più vicino e più domestico.
Io penso agli anni fra il ’70 e l’’80, quando il Carducci affermava la potenza della sua poesia sull’Italia, dalle Rime Nuove alle Odi Barbare. Penso a quel non so che di raggiante che pareva partirsi da lui e muovere i cuori dintorno: divinum vertice odorem Spiravere comae.
Egli era allora per i giovani, che lo guardavano, una idealità realizzata, la poesia fatta persona; una idealità che aveva potere di informare di sè gli animi, di insegnare a scrivere e fino a un certo segno anche a vivere.
Mi è accaduto altra volta3 di dire qualche cosa intorno a questo principio carducciano, che ha dominato la letteratura e la moralità di quasi tutta una generazione; e dissi anche che l’esemplare più candido di essa era da guardare in Severino.
Veniva dunque a Bologna in quegli anni questo «mezzo tra bolognese e romagnolo e ferrarese», «rivierasco della bella pianura che giace fra gli alti argini del Reno».
Veniva dal paesetto sull’argine, dall’Alberino; figliuolo di un medico, con l’ingegno fino e la forma un po’ rustica; era buono, tenero, gaio, un po’ fantastico, disposto ad amare con semplicità. Non aveva, credo, studi molto notabili nè ambizioni grandi; poteva avere qualche venerazione per la poesia e per l’arte di scrivere, come portava la nostra educazione un poco provinciale allora; e istinti democratici, com’era della gioventù. A Bologna trovò il Carducci. Il quale, dopo avere scritto i versi per l’anniversario dell’VIII agosto in Bologna, si preparava a scrivere il Clitumno: credo che se a Severino si fosse domandato di dire dei nomi per simbolo, avrebbe scelto questi.
E insegnava all’Università. Insegnava, dalla cattedra, nei versi, con tutto se stesso che la più alta cosa del mondo è la poesia: la poesia d’Italia.
Poesia che voleva essere intesa non solo nell’effusione dell’anima, ma sopra tutto nell’effetto della storia; come opera, condotta con lunga fatica e studio eccellente, da quegli uomini che ne sono rimasti maestri; opera di arte e di tecnica, ma anche di civiltà e di umanità, monumento e momento di tutto il vivere civile della nostra razza, e insegnamento della sua virtù; della italianità, della libertà, del diritto che si esprime nell’altezza aristocratica dell’ingegno, ma sorge e freme nella fibra robusta del popolo.
Tale essendo il mondo, diciamo così, del Carducci; le sue leggi supreme poi erano da una parte il culto della poesia effettiva, esercitato col rispetto e con lo studio particolare e paziente dell’opera e della tecnica dei grandi; dall’altra l’entusiasmo per la civiltà latina e per tutto quello che emanava da essa, popolo, libertà, sincerità, verità.
Severino accettò questo mondo, con queste leggi, e ne fece la ragione della propria vita. Le osservò con serietà profonda, fino all’ultimo; non uscì mai da quei termini, che per lui valevano quasi come una religione. E volle restar fedele a quel mondo della sua gioventù con una interezza commovente; anche a costo di non seguire il maestro.
Voi sapete che il Carducci rinnovò, spostò, almeno nell’apparenza, alcuni di quei termini; conciliò con la libertà e con la italianità la monarchia; ma Severino restò fedele alla «santa canaglia»!
E mentre il Carducci commemorava Verdi o scriveva alla contessa Pasolini, con la malinconia dei dubbi supremi, Severino rileggeva agli scolari l’ode Alla chiesa di Polenta, e si fermava a un verso:
roseo il tramonto ne l’azzurro sfuma. |
E sospirava con tutto il suo cuore gonfio della antica religione, e diceva:
Quando il poeta fa di questa roba.... il poeta è dio.
Oltre questo segno non andava. Soltanto era triste allora, e scrollava la sua stanca testa grigia, che aveva eretto un tempo con tanta gaiezza di gioventù e speranza di versi.
Oh i giorni di Bologna e di Firenze! giorni dei Nuovi Goliardi e del Mago.
Intorno al maestro; intendete con discrezione questo intorno, chè la vicinanza era più dell’animo che delle persone, e non fu mai chiesuola in pratica; si agitava, insieme col rivierasco di Reno, un gruppo di giovani come lui, ricchi di speranza e di ardire e di franchezza. Avevano gli stessi studi, lo stesso amore della poesia, dell’arte, dell’eccellenza; la stessa educazione semplice, e seria; ed erano anche portati o preparati allo stesso dissidio, che fu più largamente di tutta la generazione, fra le aspirazioni ideali e la necessità del vivere, fra la poesia e l’arte del pedagogo, il tenue vitto e gli errori di ortografia.
Ma tutto questo non dava già noia, in quel primo orgoglio di giovinezza! anzi, era accettato lietamente; e divenne una ragione in essi spirituale e poetica, della intimità famigliare, dei sospiri dalle piccole città lontane, della dimestichezza e della semplicità che rendono un’aria cara e comune a molte scritture loro, di quei tempi.
Severino4 in questo somigliava a tutti gli altri; al Mazzoni, al Marradi, al Pascoli, allo Straccali, al Panzini, e via via: lasciatemi mettere insieme questi nomi per un certo colore locale, e senza distinzione.
Pure aveva qualche cosa in proprio. Passava per uno spensierato, per un bello spirito e bizzarro; era il tipo, molto innocente del resto, del goliardo, con quella forma giovanile un po’ trascurata, e con l’occhiolino arguto, e il motto saporito sulla sua bocca bolognese.
In fondo era il più serio di tutti.
L’ammirazione e il gusto della poesia era in lui qualche cosa di più profondo che in tutti gli altri, qualche cosa di più intimo e più espressivo.
Aveva forse dalla natura meno doni, meno felicità, meno abilità; gli mancava il respiro largo e la sonora correntia del Marradi, gli mancava la compostezza toscana e la finezza del Mazzoni. Ma sentiva così forte il suo difetto e si studiava così ardentemente di vincerlo! L’amore della bella lingua toscana era ingenuo, pieno di desiderio e di sospiro, in questo bolognese dalla lingua un po’ balba; il culto del bel verso italiano armonioso e luminoso, faceva fremere il petto di questo romagnolo dal discorso rotto e quasi stento: la dolcezza e la politezza antica inteneriva il cuore del campagnolo semplice, come una cosa divina.
Egli esprimeva la sua commozione. L’amore della poesia era in lui quasi fatto poesia. Con tanti doni meno dei suoi compagni egli finiva per piacere, per esser più caro di loro; in ciò solo che era quasi più schietto e più serio, certamente più umile.
I suoi versi forse non sono belli; ma noi, dico io e quelli che sentono come me, li amiamo. Ci pare di trovare in essi il commento vivo di quelle parole del suo maestro: «nulla v’ha di sì alto e puro dopo l’ingegno, come la riverenza dell’ingegno per sè medesimo»; dell’ingegno e dell’arte.
Tanto più vivo il commento quanto più era faticoso, sì che più grata riesce, a tratti, la fatica felice:
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Sentite quel non so che di inciso, di cincischiato, la premura e quasi rancura di dire parte a parte la cosa che vorrebbe sfuggire? Quante virgole, a segnar quasi l’intarsio di queste tesserule poetiche, ma anche quanta vivezza, e forza nuova!
Questa è la grazia e il sapore dell’elocuzione, che notammo già in Severino; questa è la bontà di quei versi che ad ora ad ora gli sgorgano, con più sollevato e spazioso respiro:
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Dovrò io ripetere quei versi che ognuno ha quasi a memoria, quei versi in cui la figura di Severino è più compita e vicina a noi, e l’odore di giovinezza e la simpatia dell’uomo modesto buono semplice si fondono con la grazia e con la modestia del suo dire, tanto che non si sa quale in fine rimanga cosa più cara?
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Che cosa volete chiosare qui? Si possono fare dei commenti all’aria che troviamo tornando nel nostro paese? Non si può mica dire che sia più purgata, più sottile, più dolce di tutte le altre arie; pure, si respira meglio; è l’aria di casa nostra.
Così non c’è già nulla negli elementi di questa poesia che si sollevi molto sopra al comune; tutto è pulito, detto bene, ma semplice; la mitezza, il fior delle viole, il sole biondo e lucente, la neve alta, quel che si sente e si vede presso al fuoco. Movimento dei versi e lume dell’espressione sono tranquilli, con un sentire di studi pregevole e anche di qualche felicità; ma è una felicità mezzana. Che cosa valgono, queste riflessioni, quando si sa che è Severino che parla? E noi vogliamo bene a lui. Vogliamo bene anche alla mezzanità, in quanto ci rende, sopra tanti sforzi e stenti, la misura migliore di lui. Dopo si trova la sposa, quella buona figliuola e bella amorosa sua,
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e il gran letto bianco, sorridente; e poi, a compiere a nota figura di tutte le sue parti più famigliari e più liete, giungono gli amici, ricordàti con una leggerezza di tocco, che potrebbe essere superficiale, ma nell’agevolezza del discorso, riesce soltanto amabile:
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Ognuno ha sentito la gaiezza di suono e di moto nel terzo e nel quarto verso.... Volevamo rileggere senza fastidio di chiose, e non ci vien più fatto. Pare che queste piccole cose abbiano bisogno d’essere assaporate un poco per volta, fra una chiacchiera e l’altra come frutto gustato in compagnia d’amici. E così si vuol notare la malinconia che è diventata scherzosa, e poi riderà in una fantasia molto amabilmente goliardica; intendete per goliardica quella innocente bizzarria di amici letterati, che qui fiorisce nei ricordi delle belle novelle antiche, tra il fare popolaresco e quel del Pulci.
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E poi viene il momento della poesia. La descrizione della città, con la sua bella simmetria e aurea mediocrità di elocuzione, è quasi cornice entro cui si riaffaccia il paese amato, così semplice e povero; ma la retorica del principio rende più caro in fine il cuore, cuor di fanciullo che ricorda.
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Ci potremmo fermare come al testamento poetico e quasi all’epitaffio di Severino.
Mi piace di ricordare altri versi, dove le migliori qualità di lui sono adunate come in breve spazio; e la florida elocuzione accompagna come una carezza la sensualità sana e affettuosa del giovine e dalla gioia del dir bene e dal pensiero d’amore l’animo di lui si trova quasi naturalmente sollevato alla forma e all’orma del maestro:
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Cosa ammirabile e consolante! Piccola cosa in cui la imitazione carducciana (avete sentito il lettore delle Odi Barbare sulla fine) si confonde con la morbidezza dello studioso di canti popolari e toscani, e tutto insieme questo riesce poesia; e rende a noi non solo il piacere della cosa felice, ma anche la soddisfazione di sentire che alla fine la probità e l’onestà e la fatica messa nell’arte con animo puro possono sempre, una volta o l’altra, quando la fortuna e i limiti dell’argomento secondino, riuscire alla sospirata bellezza.
Ma qui alla nostra descrizione accade un chiarimento. Ho accennato alla imitazione carducciana. Bisogna aggiungere che di questo punto in fuori che ho citato, e di pochi altri che ognuno ravvisa, essa non ha luogo nei versi di Severino. È un’altra parte simpatica del suo carattere.
Accogliendo così profondamente in sè l’efficacia ideale del maestro, egli non toglieva poi materialmente da lui se non poco o nulla. Formava sull’esemplare della prosa di lui il suo scrivere. Ma a far versi si metteva con troppa serietà dell’animo, per non restarne puro. Era carducciano, dico, nel principio, nell’ispirazione, nell’amore per la bella elocuzione e nello scrupolo tecnico e nella sincerità e verità: ma appunto per questo era portato a ricordare meglio che il Carducci altri autori come il Poliziano o il Petrarca, di cui sentiva più genialmente e la toscanità e la dolcezza.5
O anche era spinto, nella schiettezza del suo lavoro, a condurre il principio carducciano a conseguenze nuove.
⁂
Questo è il momento in cui pare che nasca, accanto al Carducci, un mondo poetico nuovo. E poichè siamo oramai avvezzi a guardare nella penombra, proviamoci a svolgere il viso verso questo fluttuare di forme nascenti; la ricerca potrà essere vaga ma non senza interesse.
È stato detto che nella poesia di Severino si può vedere il mondo del Carducci che finisce, e comincia quello del Pascoli. Ma bisogna poi intendersi.
Il vero è che in quel gruppo di scolari del Carducci, c’era qualche cosa di genericamente comune, una disposizione dell’animo che nasceva in parte dalle circostanze del viver loro, un poco ristretto e combattuto, in parte anche dall’insegnamento del maestro in certi accenti e in certi versi che allora gli uscivano più intimi (guardate dalla parte di nonna Lucia), e nell’odio alle romanticherie, e nell’amore della schiettezza popolare vera, e via via; questo si trova riflesso nella poesia che fu detta, guardando un poco di fuori, famigliare, domestica; ed è anche nel Mazzoni e in altri.
Per Severino c’è da dire più.
Sappiamo con quanto consenso e fervore nel cuore egli avesse raccolto dal suo maestro lo studio dei quattrocentisti, e della bella poesia antica di popolo, dal Poliziano e dal Magnifico e dal Pulci fino alle canzoni a ballo e alle pastorelle del trecento. Purezza e gaiezza toscana da una parte; obbligo di schiettezza e di freschezza dall’altra: questo poteva essere il beneficio, secondo il Carducci.
Ma in Severino si svegliava e rispondeva una parte più segreta della sua natura. Ricordiamoci quel non so che di salvatico, di campagnuolo che era nel suo aspetto. Se non che la salvatichezza vera egli la custodiva puramente nell’anima.
In questo somigliava al Pascoli, scolare anch’esso del Carducci e amicissimo suo. La gente sentiva la somiglianza e univa volentieri i due amici in una leggenda comune di bizzarria, di umore goliardico e un po’ rivoluzionario.
Più bizzarro, in apparenza, più fuori dei cammini battuti restava il Pascoli, fidato al suo meraviglioso latino: Severino era meno intero, piegava un poco agli studi della consueta erudizione, all’apparecchio dei titoli da concorso; dava al suo sentimento profondo della poesia popolare anche questo sfogo, delle ricerche antiquarie di fonti e di sviluppi e di motivi, e finiva per mettere insieme così quei suoi studi su quel da Sassoferrato sul Pulci e via via che, insieme con la bellissima Biblioteca della Poesia Popolare Italiana, cominciata in Firenze, restano anche oggi fatica utile e savia.
Ma l’importante non era in questo; e neanche nei versi che il Pascoli buttava giù allora, più per esercizio che per espressione propria, così trascurato e spensierato come pareva: siamo al tempo del sonetto di Radicofani.
L’importante era quella salvatichezza, quel bisogno di essere schietti, naturali, veri, quell’istinto umile di scampare lontano dalle eccellenti cose ammirate e sognate, di farsi piccini, coi piccoli, con gli umili, coi poeti popolari e con le cose povere di casa, con le famigliari cose della campagna nativa.
Questo istinto vago era in tutti e due; si svolgeva, credo, nella loro amicizia con un dialogo, in cui ognuno portava all’altro, qualche cosa, che senza essere in discordia con gli ideali accettati dal maestro, anzi riprendendo alcuna parte di essi e su quella insistendo, era pur nuova; e doveva alcuna volta riuscire, almeno per uno di loro, a una improvvisa rivelazione di natura poetica nuova.
Gli echi di questo sviluppo nei versi di Severino sono stati notati più volte, anche con troppa curiosità.
Ma è poi da notare che in questa stagione, fra l’’80 e l’86, press’a poco, dei due il più pascoliano si sarebbe detto che era Severino, in certi momenti; massime sul principio. Gli è che costui aveva, con vantaggio forse sull’amico, l’uso e la sottilità del lavoro dei versi: anche se aveva poco da dire, finiva per dirlo più schietto. Invece il Pascoli, anche in Romagna, anche nell’Ultima passeggiata, ciò è nelle cose sue dove si sente meglio l’amicizia, fin dalla iscrizione, aveva dei momenti di fiacchezza un po’ fredda, un po’ scolastica.
Severino aveva l’efficacia della sua fatica.
Meno molle, meno effuso, meno alato del Pascoli, con quei suoi moti bruschi, a cui talora la poesia fuggiva e restava solo il vano, il difetto (leggete di seguito la storia dei Nidi), con quella esattezza un po’ stentata, aggiungeva talora una evidenza squisita.
beccandosi i piedini. — Or dite — un uovo |
Qui c’è il Pascoli e qualche cosa di più. La freschezza dell’idillio e delle sensazioni così gentilmente trovate nel parlare degli uccellini, è fatta infinitamente più cara dal lavorio intelligente della elocuzione e della rima.
Così altrove tante volte. I versi pascoliani, cantanti e squillanti, cadono in mezzo alla verseggiatura per solito più sostenuta lavorata e un po’ faticosa di Severino come cosa nuova, che non si sa di dove sia piovuta; con echi ed effetti bellissimi:
Come un argenteo tinn di campanello |
Del resto si tratta di cose vaghe; può essere l’eco, quasi imitazione, di certi luoghi, come la fine del primo sonetto spezzino, pur bello; può essere somiglianza, diciamo così, di situazioni, che parte continua e parte varia nel linguaggio, come nei ricordi del padre vecchio, e delle letture fanciullesche e dell’Ariosto, può essere anche una pura disposizione dell’animo a contemplare, come in quelle deliziose Ore notturne, in cui il distinguersi e il crescere delle musiche nella notte, dal flauto del vento tra le fronde dell’olmo, su su, fino alla piena orchestra dei grilli e dei rosignoli e delle raganelle, è rappresentato con quella delicatezza un po’ magra e disuguale e intensa, che par tutta di Severino. Può essere infine questo quasi mirabile impasto, in cui che cosa sia qualità schietta dell’uno e dell’altro non si può dire; pare un Pascoli rifatto, ricalcato, con un sentimento dei particolari squisito (suggono invece di bevono; coloriti, annusa); ma di dove è venuta la carezza di quest’ultima rima, odorosa come bacio sopra una corolla?
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Il Pascoli non so come avrebbe saputo fonder così bene il fantastico con l’umano, il tremore dei bimbi e il sogno di queste fanciulle; impallidiscono al paragone «i monelli.... fra i cartocci strepitosi», e «le fiorenti ragazze occhi-pensosi».
Ma è inutile portare sottigliezza di paragoni e di inquisizione sopra un punto, a cui l’ombra deve restare amica e discreta. Contentiamoci di avere intraveduto il momento raro e bellissimo, di una poesia che nasce a un tempo in due anime di amici; la loro consonanza si confonde affettuosamente e non si lascia discernere più dai curiosi.
Il momento è breve, fuggevole. Quella risonanza nuova argentea non sappiamo di dove venisse allora. Ma se passa un poco di tempo troviamo che il Pascoli la continua e la diffonde; il carillon, il campanello di cui parlava un altro più grande incantatore di anime, egli l’aveva dentro, nel suo cuore. Severino non l’aveva, e si dovè fermare. Parve che si vuotasse a un tratto, non solo delle musiche pascoliane, ma di tutta la poesia.
In quegli ultimi sonetti della Spezia si sente il venir meno di lui, come se inciampi e cada.
Tace per lungo tempo, e quando riprende non par più quello. I sonetti ultimi fiorentini e bolognesi sono tutt’altra cosa; che anche quando è ben fatta, come una prosa studiata, non ci rende tuttavia il poeta giovine che abbiamo amato. Non mi curerò di sottolineare difetti, che sono evidenti, bontà particolari di elocuzione o nobiltà di intenzione: nomino, per un certo debito di gratitudine, il sonetto su Garibaldi, di cui alcuni versi mi sono rimasti nella mente, da molti anni; e uno è bello:
rosso, irto, con piglio di leone. |
Ma ora, ripensando e guardando il tutto insieme, ognuno si accorge che il valore di quest’ultima parte dell’opera di Severino non è nei pregi, che pur si potrebbero illustrare con un poco di buona volontà: è in qualche cosa di più alto.
Si sente che gli ultimi sonetti, col desiderio che ci fanno rinascere dei versi primi, e il lungo silenzio e tutto questo quasi difetto e fallimento dell’antica promessa, riescono infine a rendere alla figura di lui il suo valore vero, quel significato e quella forma propria che le assicura una durata anche più lunga della nostra affezione.
Il valore di lui insomma non è solo nei versi e negli scritti; ma è in tutta insieme la sua religione dolce e santa di innamorato della poesia, e di fedele dell’uomo che a lui rappresentava la poesia, il Carducci. E le cose prime di lui, studiose e care e gentili, e il sacrifizio e la passione di tutta la vita, e il difetto stesso e lo stento e la infelicità ultima della fatica, valgono come note diverse e pur sinfoniche a compiere di lui una figura sola schietta. Non una statua, ma un’urna nell’ombra; dentro abbiamo raccolte pagine e frammenti pregiati, e intorno abbiamo iscritto: Studium fuit alma poësis.
N. B. Pare che resterebbe anche da parlare dell’educatore e del maestro di umanità, lettore del Petrarca del Boccaccio del Carducci; e di costui anche quasi edizione minore, nella scuola e nella consuetudine. Perchè anche codesta è parte vitale nell’opera di Severino; e necessaria al suo ritratto: senza dire che è anche la più vaga, fuggitiva, non raccomandata quasi a niente di stabile, che si possa trovare ancora forte tra qualche anno.
Ma io non posso parlarne. Mi riuscirebbe un capitolo di confessioni. E io non ho voglia di raccontare, nè voi di udire ora.
Qualche cosa tuttavia è assicurata, anche di ciò, negli scritti dedicati a Severino. Mi contenterò dunque di accennare a quelli, in una brevissima bibliografia, che vorrei chiamare ragionata, a modo mio; nella quale non si registrano cioè se non gli scritti di cui mi ricordo, e secondo l’impressione che ne è durata nella mia memoria.
Molti hanno scritto; pochi con utilità. Non conosco lo scritto di una scolara, che deve certo esser buono.
Fra gli altri, Albini ha scritto elegantemente nobilmente, come è costume sempre suo, intorno all’amico, al compagno, al poeta: è un bel ritratto sepolcrale, memore del vivo. Ma è composto con quel certo riserbo che portava la natura castigata dell’autore. Accanto all’iscrizione severa e squisita, si desidera anche l’epistola più dimessa, famigliare.
Panzini ha scritto con commozione di natura fraterna; ma era più giovane, d’un’altra brigata, non aveva il benefizio della dimestichezza, non ritraeva i particolari dal vero. Le sue pagine sono belle, soavi, per la effusione del cuore; ma, se ho visto bene, sono un po’ troppo vaghe; dicono del poeta, del rosignolo, troppo in genere, senza molta certezza di gusto.
Croce poi, secondo l’istinto suo, ha definito breve e netto. Ha notato le cose migliori, ha corretto rapidamente certi errori o convenzioni ricevute nell’opinione comune; e ha seguìto poi la sua via, che menava altrove. Ma egli passando quasi di fuori, come giudice, ha tenuto conto dell’opera compiuta e di un suo valore oggettivo. Dal suo punto di vista aveva ragione: e intorno ai caratteri più rilevanti intorno alla legittimità della ispirazione letteraria e alla inconsistenza di una scuola poetica carducciana, ha detto quello che si doveva dire. Ma è permesso di tornare a Severino con altro animo, e per via più intima; con inquietudini letterarie e con affezione all’uomo, che in una storia della letteratura non hanno luogo.
Di tanti amici e uomini valenti, che oltre a questi, avrebbero potuto confortare la memoria di lui, non occorre più nessun nome. Vien fatto di pensare con rammarico al Mazzoni: che poteva darci un ritratto certamente garbatissimo, fine, vivace; e chi poi avrebbe saputo colorirlo meglio di aneddoti e di ricordi interessanti?
Ma, poi si comprende che, per un altro verso il Mazzoni doveva essere a ciò meno disposto di tutti gli altri. È inutile chiarire le ragioni che ognuno può trovare da sè.
Infine c’era anche il Pascoli. La memoria torna alle Myricae, ai versi meravigliosi e a quella letterina d’invio, ristampata nella prefazione, e così gentile, così schietta. Si rimpiange la commemorazione che avrebbe potuto darci il Pascoli; il Pascoli d’allora....Note
- ↑ Prendo pochi versi a caso:
Su molte scimie dal viso musorno,
scimie bimbette, il guardo si fermò
Quattro ne vide sotto un verso esamentro,
a onde balenando a spinapesceOppure:
Si diceva, e poppava a quando a quando
le mammelle alle nubi. Anche la buona
signora, dameggiando, sninfieggiando
l’atticciata sbracata sua personaNon sentite qui una ricchezza di elocuzione che è fine a sè stessa, è fredda e non espressiva; non fa immagine?
E ancora:
La rondinella ed il riboboletto,
o manzoniano, o cane, alla natìa
aura perchè strapparli? e a gran diletto
ingabbiarli, ingrassarli? nella stìala piccoletta muor di crepacuore
ma quegli ingrossa, torpido cammina,
muda, rimpenna, e quando il cavi fuore
il rosignol lo trovi una gallina.Non c’è nulla così povero come questa ricchezza apparente. Le parole sono stillate a una a una, faticosamente, rigide; e non si muovono, non hanno lume. Anche quelle che vorrebbero essere birichinate, fra l’heiniano e il carducciano (ne cito una che nel principio è sentita, conclusione ironica del poema e di tutte le fantasie dei Goliardi:
Oh via, mettiam su pancia e pigliam moglie.
Umilïati i nervi e il malumore,
cacciate in bando le mondane voglie
moriremo nel bacio del Signore)restano fredde, oziose; si sente il posticcio, qual è fatto tanto per fare.
- ↑ La memoria mi rappresenta in molti luoghi la stessa qualità.
Deh non s’affondin quelle noderose
branche fra i gigli del bel sen lattato!Oppure:
S’alza e freme il molle seno,
va pensando meraviglie,
chè gli par d’essere un pieno
di magnifiche giunchiglie
che si muova, che bisbiglie....
e non ho bisogno di notare l’insistenza della rima florida, che si rivela in una debolezza, alla fine, della coniugazione antiquata: un poeta vero non l’avrebbe tollerata.
- ↑ Parlando del Panzini, sulla Romagna, nel maggio-giugno del 1910.
- ↑ Ricordate le «gobbe spalle», e il sermo col Marradi: («Tu non sai che quel nostro vecchio amico.... È titolare di Liceo!...»); le quartine del Mago e Nostalgia. Anzi queste cose sue sono per la nostra memoria come il simbolo, il fiore più caro di quel momento comune a tutti.
- ↑ Non c’è echi in Severino altri che di costoro; qualche cosa dal Carducci, un movimento ripreso dal Prati, (da una poesia del Prati che il Carducci indicava, l’Incantesimo); e più nulla. Niente dai latini, da Dante, dagli altri classici.
- ↑ E sarebbe poi da notare anche, nei versi del Pascoli, l’efficacia della consuetudine di Severino. E si troverebbe, credo, in molti versi del tipo di questo ultimo; dove, per dire così alla buona, l’andamento e la cantilena pascoliana cava le sue risonanze da una elocuzione oltre il costume suo sostenuta, eletta:
Brigliadoro da l’India Sericana
in questo trebbio il lungo error sostenne.
Versi quasi parnassiani. Ma chi ha tempo per tali malinconie?