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severino ferrari | 165 |
ro; era il tipo, molto innocente del resto, del goliardo, con quella forma giovanile un po’ trascurata, e con l’occhiolino arguto, e il motto saporito sulla sua bocca bolognese.
In fondo era il più serio di tutti.
L’ammirazione e il gusto della poesia era in lui qualche cosa di più profondo che in tutti gli altri, qualche cosa di più intimo e più espressivo.
Aveva forse dalla natura meno doni, meno felicità, meno abilità; gli mancava il respiro largo e la sonora correntia del Marradi, gli mancava la compostezza toscana e la finezza del Mazzoni. Ma sentiva così forte il suo difetto e si studiava così ardentemente di vincerlo! L’amore della bella lingua toscana era ingenuo, pieno di desiderio e di sospiro, in questo bolognese dalla lingua un po’ balba; il culto del bel verso italiano armonioso e luminoso, faceva fremere il petto di questo romagnolo dal discorso rotto e quasi stento: la dolcezza e la politezza antica inteneriva il cuore del campagnolo semplice, come una cosa divina.
Egli esprimeva la sua commozione. L’amore della poesia era in lui quasi fatto poesia. Con tanti doni meno dei suoi compagni egli finiva per piacere, per esser più caro di loro; in ciò solo che era quasi più schietto e più serio, certamente più umile.
I suoi versi forse non sono belli; ma noi, dico io e quelli che sentono come me, li amiamo. Ci pare di trovare in essi il commento vivo di quelle parole del suo maestro: «nulla v’ha di sì alto e puro dopo l’ingegno, come la riverenza dell’ingegno per sè medesimo»; dell’ingegno e dell’arte.
Tanto più vivo il commento quanto più era