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152 | scritti di renato serra |
zio letterario, con l’amore, così ben ben distinto, del Petrarca e di quel Poliziano che egli soleva leggere tanto argutamente; e sorrido anche alla modesta ironia di quel professore, esemplare di tutta una generazione. Ma la poesia dov’è? dov’è quel verso o quella parola ch’io possa ridire per mio diletto, pura e sola, avendone piena l’anima nell’oblio di tutte le altre cose del mondo?
E vado innanzi; discorro con l’occhio affannoso pagine ben note, forme e metri diversi, cose buone, care, ben fatte, le quartine del Mago, così ingegnose talora e così saporite di letterario dispetto e di elocuzione squisita, e le strofe musicali e le popolaresche, e le amorose e le domestiche, tutto quello che m’è piaciuto per tante ragioni e memorie, Cose buone; ma quale è veramente bella? L’affanno incerto della mia mente trova una espressione improvvisa; da un libro che ho lasciato poco tempo fa, un sospiro veramente lirico rifiorendo inaspettato e meraviglioso, («oi mamma mamma che luna che luna....»). Anche questa è poesia popolaresca, di quella che dicono semplice, inculta, poesia da stare a paragone, chi si fermi al di fuori, con le romanelle e coi canti dei carrettieri; ma quel sospiro solo ha potere di colmarmi l’anima, e come per incanto tutte le parole e i versi di quest’altro libriccino che ho aperto davanti si disfanno, si scompongono, perdono quella grazia fuggitiva che era nata un poco dalla mia simpatia e un poco, forse, da chi sa che cosa. Povero Severino!
Tutte le ragioni e le argomentazioni contro la sua cosidetta poesia mi balzano agli occhi inevitabili.
Non è poesia il Mago. È una bizzarria, molto interessante per la storia letteraria; ma non ha