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178 | scritti di renato serra |
ghe; dicono del poeta, del rosignolo, troppo in genere, senza molta certezza di gusto.
Croce poi, secondo l’istinto suo, ha definito breve e netto. Ha notato le cose migliori, ha corretto rapidamente certi errori o convenzioni ricevute nell’opinione comune; e ha seguìto poi la sua via, che menava altrove. Ma egli passando quasi di fuori, come giudice, ha tenuto conto dell’opera compiuta e di un suo valore oggettivo. Dal suo punto di vista aveva ragione: e intorno ai caratteri più rilevanti intorno alla legittimità della ispirazione letteraria e alla inconsistenza di una scuola poetica carducciana, ha detto quello che si doveva dire. Ma è permesso di tornare a Severino con altro animo, e per via più intima; con inquietudini letterarie e con affezione all’uomo, che in una storia della letteratura non hanno luogo.
Di tanti amici e uomini valenti, che oltre a questi, avrebbero potuto confortare la memoria di lui, non occorre più nessun nome. Vien fatto di pensare con rammarico al Mazzoni: che poteva darci un ritratto certamente garbatissimo, fine, vivace; e chi poi avrebbe saputo colorirlo meglio di aneddoti e di ricordi interessanti?
Ma, poi si comprende che, per un altro verso il Mazzoni doveva essere a ciò meno disposto di tutti gli altri. È inutile chiarire le ragioni che ognuno può trovare da sè.
Infine c’era anche il Pascoli. La memoria torna alle Myricae, ai versi meravigliosi e a quella letterina d’invio, ristampata nella prefazione, e così gentile, così schietta. Si rimpiange la commemorazione che avrebbe potuto darci il Pascoli; il Pascoli d’allora....