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ristretto e combattuto, in parte anche dall’insegnamento del maestro in certi accenti e in certi versi che allora gli uscivano più intimi (guardate dalla parte di nonna Lucia), e nell’odio alle romanticherie, e nell’amore della schiettezza popolare vera, e via via; questo si trova riflesso nella poesia che fu detta, guardando un poco di fuori, famigliare, domestica; ed è anche nel Mazzoni e in altri.

Per Severino c’è da dire più.

Sappiamo con quanto consenso e fervore nel cuore egli avesse raccolto dal suo maestro lo studio dei quattrocentisti, e della bella poesia antica di popolo, dal Poliziano e dal Magnifico e dal Pulci fino alle canzoni a ballo e alle pastorelle del trecento. Purezza e gaiezza toscana da una parte; obbligo di schiettezza e di freschezza dall’altra: questo poteva essere il beneficio, secondo il Carducci.

Ma in Severino si svegliava e rispondeva una parte più segreta della sua natura. Ricordiamoci quel non so che di salvatico, di campagnuolo che era nel suo aspetto. Se non che la salvatichezza vera egli la custodiva puramente nell’anima.

In questo somigliava al Pascoli, scolare anch’esso del Carducci e amicissimo suo. La gente sentiva la somiglianza e univa volentieri i due amici in una leggenda comune di bizzarria, di umore goliardico e un po’ rivoluzionario.

Più bizzarro, in apparenza, più fuori dei cammini battuti restava il Pascoli, fidato al suo meraviglioso latino: Severino era meno intero, piegava un poco agli studi della consueta erudizione, all’apparecchio dei titoli da concorso; dava al suo sentimento profondo della poesia popolare anche questo sfogo, delle ricerche antiquarie di