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170 | scritti di renato serra |
vere. Ma a far versi si metteva con troppa serietà dell’animo, per non restarne puro. Era carducciano, dico, nel principio, nell’ispirazione, nell’amore per la bella elocuzione e nello scrupolo tecnico e nella sincerità e verità: ma appunto per questo era portato a ricordare meglio che il Carducci altri autori come il Poliziano o il Petrarca, di cui sentiva più genialmente e la toscanità e la dolcezza.1
O anche era spinto, nella schiettezza del suo lavoro, a condurre il principio carducciano a conseguenze nuove.
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Questo è il momento in cui pare che nasca, accanto al Carducci, un mondo poetico nuovo. E poichè siamo oramai avvezzi a guardare nella penombra, proviamoci a svolgere il viso verso questo fluttuare di forme nascenti; la ricerca potrà essere vaga ma non senza interesse.
È stato detto che nella poesia di Severino si può vedere il mondo del Carducci che finisce, e comincia quello del Pascoli. Ma bisogna poi intendersi.
Il vero è che in quel gruppo di scolari del Carducci, c’era qualche cosa di genericamente comune, una disposizione dell’animo che nasceva in parte dalle circostanze del viver loro, un poco
- ↑ Non c’è echi in Severino altri che di costoro; qualche cosa dal Carducci, un movimento ripreso dal Prati, (da una poesia del Prati che il Carducci indicava, l’Incantesimo); e più nulla. Niente dai latini, da Dante, dagli altri classici.