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154 | scritti di renato serra |
E io non son più contento neanche di quelle che sembrarono a molti perle, frammenti di poesia vera. È uno solo veramente, il frammento di Biancofiore e di Schicchi. Qualche cosa c’è veramente bello, e ne parlerò ancora; ma tutta la debolezza e sto per dire l’impotenza poetica di Severino è sensibile per me in quell’accumulo di tocchi incerti («ove serpendo — roseo va il sangue con mite vigor»), in quella vanità fantastica, che si sforza a dipingere con una quasi sensuale voluttà, e riesce al luogo comune della poesia popolare («van due fragranti rose alte crescendo; — sotto la manca ti fiorisce il cuor». Come sono spezzati e staccati questi due versi, che vorrebbero essere un sospiro solo!). Più vivo il bozzetto di Schicchi; ma anche questo è combinato di due pezzi diversi, senza unione, i sogni di Bologna e
la piccoletta muor di crepacuore
ma quegli ingrossa, torpido cammina,
muda, rimpenna, e quando il cavi fuore
il rosignol lo trovi una gallina.
Non c’è nulla così povero come questa ricchezza apparente. Le parole sono stillate a una a una, faticosamente, rigide; e non si muovono, non hanno lume. Anche quelle che vorrebbero essere birichinate, fra l’heiniano e il carducciano (ne cito una che nel principio è sentita, conclusione ironica del poema e di tutte le fantasie dei Goliardi:
Oh via, mettiam su pancia e pigliam moglie.
Umilïati i nervi e il malumore,
cacciate in bando le mondane voglie
moriremo nel bacio del Signore)
restano fredde, oziose; si sente il posticcio, qual è fatto tanto per fare.