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ticalmente dalla prima interrogativa, e seguono versi oziosi («ed il fecondo amore — dolce a sperare! fia che gli apparecchi — novelli rami de la pianta onore?»).

Nella terza pare che si seguiti nel pensiero dei figli; ma è tutt’un’altra situazione, con la madre alzata in su l’aurora e mesta, che viene da un’altra poesia (e precisamente da: «Senti la mamma già per la cucina»); e il discorso si trascina inerte fino a quella cara immagine dei fanciulletti presso i nonni, e poi ricasca nel comune convenzionale di tutta l’ultima strofe:


Verso il tuo petto inclina la cervice
e t’inghirlanda con le mani sante.

Unità c’è solo nelle poesie perfettamente fredde e retoriche, negli sciolti al Mazzoni e allo Straccali, in Apollo e Dafne, in Pane (che non è da confondere tuttavia con le altre per la fattura), nelle ultime due parti del Vanto degli argini di Reno, e così via; ma quella è unità meccanica di prosa versificata. Cattiva prosa, potete aggiungere; chè quando Severino si mette a riflettere sui contrasti sociali, o a ragionare dei destini della poesia, quella che altrove era semplicità cara qui diventa puerile.

Del resto è così per tutto; nei sonetti, nelle quartine, nelle ballate, nelle canzoni; ogni periodo metrico, talvolta ogni frase, ogni verso sta da sè! e dall’uno si passa all’altro senza ragione altro che estrinseca; e un pezzo ti par bello e l’altro brutto, ma del tutto insieme non sai che dire: poichè consistenza poetica non ne ha.

Più mi accosto alla fine di questo discorso, e meno contento mi trovo. Pare che alcuno da qual-