Rime dell'avvocato Gio. Batt. Felice Zappi e di Faustina Maratti sua consorte/Sonetti del Signor avvocato Gio. Felice Zappi

Giambattista Felice Zappi

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Rime ad Aglauro Cidonia Sonetti della signora Faustina Maratti
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SONETTI


DEL SIGNOR AVVOCATO


GIAMBATT. FELICE ZAPPI.




SONETTO PRIMO.


Quand’io men vò verso l’ascrea montagna,
     Mi si accoppia la Gloria al destro fianco,
     Ella dà spirti al cor, forza al piè stanco,
     4E dice: Andiam, ch’io ti sarò compagna;
Ma per la lunga inospita campagna
     Mi si aggiunge l’Invidia al lato manco,
     E dice: Anch’io son teco. Al labbro bianco
     8Veggo il velen, che nel suo cor si stagna.
Che far degg’io? Se indietro io volgo i passi,
     So che invidia mi lassa, e m’abbandona,
     11Ma poi sia che la Gloria ancor mi lassi
Con ambe andar risolvo alla suprema
     Cima del Monte. Una mi dia corona,
     14E l’altra il vegga, e si contorca, e frema.


II.1


O della stirpe dell’invitto Marte
     Verace Figlio, a cui cedè pugnando
     Ogni del mondo più remota parte,
     4Non ch’il Belga, il German, l’Anglo, il Normando.
Parmi dal Tebro in quel gran dì mirarte,
     Quando la forte destra in mar rotando,

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     La manca in alto sostenea le carte,
     8Posto lo scudo al dorso, e in bocca il brando.
Ed oh, qual sei qui fermo oltre il costume,
     Tal fossi stato al Rubicone in riva
     11Fermo, senza spronar di quà dal Fiume!
Che il Tebro, e il mondo ah non avrian veduto
     Nè la Patria al tuo piè gemer cattiva,
     14Nè te steso nel sangue appiè di Bruto.


III2


Che far potea la sventurata, e sola
     Sposa di Collatino in tal periglio?
     Pianse, pregò: ma in vano ogni parola
     Sparse, in vano il bel pianto uscì dal ciglio.
Come a Colomba, su cui pende artiglio,
     Pendeale il ferro in sull’eburnea gola:
     Senza soccorso, oh Dio, senza consiglio,
     Che far potea la sventurata e sola?
Morir, lo sò, pria che peccar dovea:
     Ma quando il ferro del suo sangue intrise
     Qual colpa in sè la bella Donna avea?
Peccò Tarquinio, e il fallo ei sol commise
     In lei, ma non con lei: ella fu rea
     Allora sol, che un innocente uccise.


IV.


O luccioletta, che di quà dall’Orno
     Or voli, or su le belle ali ti stai,
     Teco avendo, per l’ombre ovunque vai
     Una favilla dell’estinto giorno:
Vieni, che Filli brama averti intorno:
     Vieni, e intorno le porta i tuo’ bei rai:
     Così Fanciul te non uccida mai,
     Per farsi il volto di tua luce adorno.
O Luccioletta, vieni ov’è costei,
     Che potrai farti bella oltre il costume
     Anco in la parte, dove oscura sei.

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Ma tu più lunge ancor volgi le piume:
     Ch’anzi temi, che manchi accanto a lei,
     Com’al raggio del Sol manca il tuo lume.


V.3


Chi è costui, che in sì gran pietra scolto
     Siede gigante, e le più illustri e conte
     Opre dell’arte avanza, e ha vive e pronte
     Le labbra sì, che le parole ascolto?
Quest’è Mosè. Ben mel diceva il folto
     Onor del mento, e ’l doppio raggio in fronte:
     Quest’è Mosè, quando scendea dal monte,
     E gran parte del Nume avea nel volto,
Tal’era allor, che le sonanti e vaste
     Acque ei sospese a se d’intorno, e tale
     Quand’il mar chiuse, e ne fe’ tomba altrui.
E voi sue Turbe un rio vitello alzaste?
     Alzato aveste immago a questa eguale,
     Ch’era men fallo l’adorar costui.


VI.4


Alfin col teschio d’atro sangue intriso
     Tornò la gran Giuditta, e ognun dicea:
     Viva l’Eroe: nulla di Donna avea
     Fuorchè il tessuto inganno, e ’l vago viso.
Corser le Verginelle al lieto avviso;
     Chi ’l piè, ch’il manto di baciar godea,
     La destra nò, ch’ognun di lei temea
     Per la memoria di quel mostro ucciso.
Cento Profeti alla gran Donna intorno
     Andrà, dicean, chiara di te memoria,
     Finchè il sol porti, e ovunque porti il giorno.
Forte Ella fu nell’immortal vittoria:
     Ma fu più forte allor che fe’ ritorno:
     Stavasi tutta umìle in tanta gloria.


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VII.5


O pellegrin, che in questa selva il piede
     Volgendo vai, sappi, che qui vivea
     Illustre Donna eccelsa, anzi pur Dea:
     Poichè Donna simile il Sol non vede.
5Diella il gran Giove a noi, perchè a noi fede
     Fesse di quanto oprar Giove sapea;
     Poi la rapì, che forse ei non avea
     Tanto serbato al Ciel, quanto a noi diede.
Questa è colei, che fè l’alto de’ suoi
     10Regni rifiuto, e doppi ebbe Trofei
     Degl’ingegni Reina e degli Eroi.
Cerchi l’Augusto nome di costei?
     Chiedilo all’opre, se saper tu ’l vuoi:
     Chè tal non ebbe il Mondo altra, che lei.


VIII.6


Quel dì, che al Soglio il gran Clemente ascese,
     La Fama era sul Tebro, e alzossi a volo,
     E disse, che l’udì questo, e quel Polo:
     Adesso è il tempo delle grand’imprese.
5E disse al Ciel d’Italia: Or più l’offese
     Non temerai dell’inimico stuolo;
     Giunse al Tamigi, e disse: In sì bel suolo
     Torni la Fè sul trono, onde discese
Indi al Cielo de’ Traci il cammin torse,
     10Dicendo: Or renderete, empi Guerrieri
     La sacra Tomba: io già non parlo in forse.
Stanca tornò del Tebro a’ lidi alteri;
     Ma si arrossì, Santo Pastor, che scorse,
     Grandi più de’ suoi detti i tuoi pensieri.


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IX.


Ardo per Filli. Ella non sa, non ode
     I miei sospiri: io pur l’amo costante,
     Chè in lei pietà non curo: amo le sante
     Luci, e non cerco amor, ma gloria e lode.
5E l’amo ancor che il suo destin l’annode
     Con sacro laccio a più felice amante;
     Chè ’l men di sua bellezza è ’l bel sembiante,
     Ed io non amo in lei quel ch’altri gode.
E l’amerò quando l’età men verde
     10Fia che al seno ed al volto i fior le toglia,
     Ch’amo quel Bello in lei che mai non perde.
E l’amerei quand’anche orrido avello
     Chiudesse in sen l’informe arida spoglia,
     Chè allor quel ch’amo in lei sarà più bello.


X.7


Per far serti ad Alnano io veggio ir pronte
     L’Arcadi squadre in queste parti e in quelle;
     E chi di gigli il Prato e chi di belle
     Viole spoglia il margine del fonte.
5Come nascono i fiori in piaggia o in monte,
     Se nascesser così nel suol le stelle,
     Anch’io farei ghirlanda, e sol con elle
     Cinger vorrei la gloriosa fronte.
Ma poi ch’April fiori e non stelle apporta,
     10Nè basta o lauro o palma a’ sommi Eroi,
     Non che il bel giglio o la viola smorta;
Le tue virtudi, Alnano, i pregi tuoi
     A te faran ghirlanda: il Sol non porta
     Altra Corona, che de’ raggi suoi.


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XI.8


Poichè dell’empio Trace alle rapine
     Tolse il Sarmata Eroe l’Austria e l’Impero,
     E più securo, e più temuto alfine
     Rese a Cesare il soglio, il soglio a Piero:
5Vieni d’alloro a coronarti il crine,
     Diceva il Tebro all’immortal Guerriero,
     Aspettan le famose onde Latine
     L’ultim’onor da un tuo trionfo altero.
Nò, disse il Ciel: tu ch’hai sconfitta e doma
     10L’Asia, o gran Re, ne’ maggior fasti sui,
     Vieni a cinger di stelle in Ciel la chioma.
L’Eroe, che non potea partirsi in dui,
     Prese la via del Cielo, e alla gran Roma
     Mandò la Sposa a trionfar per lui.


XII.9


Io veggio entro una bassa e vil Capanna
     Un pargoletto, che pur dianzi è nato,
     Fra i rigor d’aspro verno, abbandonato,
     Su paglia e fieno e foglie d’alga e canna.
5Veggio la cara Madre che s’affanna,
     Perchè sel vede in sì povero stato;
     Misero! ei sta di due Giumenti al fiato!
     Misero! ah quest’è Dio, nè il cuor s’inganna.
Quel Dio che regge il Ciel, regge gli orrendi
     10Abissi, e fa su noi nascer l’aurora,
     E i lampi e i tuoni e i fulmini tremendi.
Ma un Dio se stesso in sì vil foggia onora?
     Vieni, o superbo, e l’umiltade apprendi
     Da quel Maestro che non parla ancora.


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XIII.10


Morte, il tuo fero artiglio in van si stende:
     Non son per te sì gloriose prede:
     Ecco Maria, che dal sepolcro ascende
     Più che mai bella in ver l’eterea sede.
5Ed oh qual pompa! Ecco ove Cintia splende
     Passa, e la Luna le fa soglio al piede:
     Oltre s’avanza, e dove il Sol s’accende,
     Farle ammanto co’ raggi il Sol si vede.
Giunge all’ultime stelle alto lucenti,
     10Là s’incorona: il Ciel s’aprio: scorgete
     Venirle incontra le beate Genti,
Gli Angeli, il Figlio. Oh sante gioie e liete!
     Chi può ridirle? Serafini ardenti,
     Ditelo voi, se dir tanto potete.


XIV.


Talora io parlo a un colle a un rivo a un fiore,
     E l’aspre del mio cor pene descrivo;
     Ma non mi crede il colle il fiore il rivo,
     Chè per vezzo del canto io fingo amore.
5Talor m’ascolta poi Ninfa o Pastore
     Dir, ch’io non amo, e ’l bel d’un volto ho a schivo
     Ninfe, e Pastor non mi si creda: io vivo
     Pur troppo amante: oh se vedeste il core!
Non amo nò, sebben di Filli, e Iole
     10Canto talor, ma pur le fiamme ho in seno:
     Chi mai può non amar quand’amar vuole?
Amo, e non amo un gentil volto e bello:
     Quel ch’io lodo non è quel, per cui peno;
     Ma quel ch’io taccio, ah quel ch’io taccio è quello.


XV.


Il Gondolier, sebben la notte imbruna,
     Remo non posa, e fende il mar spumante,

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     Lieto cantando a un bel raggio di Luna,
     «Intanto Erminia in fra l’ombrose piante».
Nè perchè roco ei siasi, o dolce ei cante,
     Biasmo n’acquista, o spera lode alcuna:
     5Canta così, perchè de’ carmi è amante,
     Non perchè il sordo mar cangi fortuna.
Tal mi son’io che già per lungo errore
     Solco un vasto Oceàno, e veggio, o parmi
     Non lungi il porto, e canto inni d’Amore.
10Non canto nò per glorioso farmi,
     Ma vò passando il mar passando l’ore,
     E in vece degli altrui, canto i miei carmi.


XVI.11


Questi è il gran Raffaello. Ecco l’idea
     Del nobil genio e del bel volto, in cui
     Tanto Natura de’ suoi don ponea
     Quanto egli tolse a lei de’ pregi sui.
5Un giorno ei qui, che preso a sdegno avea
     Sempre far sulle tele eterno altrui,
     Pinse se stesso, e pinger non potea
     Prodigio che maggior fosse di lui.
Quando poi morte il doppio volto, e vago
     10Vide, sospeso il negro arco fatale,
     Qual, disse, è il finto o il ver? e qual impiago?
Impiaga questo inutil manto e frale,
     L’alma rispose, e non toccar l’immago,
     «Ciascuna di noi due nacque immortale.


XVII.


S’è ver ch’ogn’Uom intègro era da pria,
     Ma poi si sciolse, e in duo partillo il Fato;
     Talchè in questo ogn’un cerca ed in quel lato
     Quelia parte di sè, ch’aver solìa:
5Certo, o Filli, sei tu l’altra già mia
     Parte, onde intègro, e lieto era il mio stato;

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     Ben ti conosce il cor, ch’egro, e turbato
     Langue, e a te ricongiunto esser vorria.
Ma il Ciel non volle, che io superbo andassi
     10Di mia gran sorte in te vivendo, e poi
     Te far men bella perchè in me ti stassi,
Quinci divisi ei volse ambidue noi,
     Perch’io quanto in me manca in te mirassi
     E tu scorgessi in me quanto tu puoi.


XVIII.12


In van resisti: un saldo core e fido
     Tu vanti in vano; e sia pur ghiaccio o smalto,
     Renditi alle mie voglie, o qui t’uccido:
     Disse Tarquinio colla spada in alto.
5Nè sola te, ma te col servo ancido,
     E poi dirò, che in amoroso assalto
     Ambo vi colsi: alzò la Donna un grido:
     Giove! . . ma non udia Giove dall’alto.
Ella dopo il fatale aspro periglio,
     10Che fè? si uccise, e nel suo sangue involta
     Spirò, ma con improvvido consiglio.
Rendersi al fallo e poi morir non basta:
     Pria morir, che peccar: incauta, e stolta!
     Ebbe in pregio il parer, non l’esser casta.


XIX.


O Violetta bella, che ti stai
     Tra foglia e foglia infra la molle erbetta,
     E il suol d’odori e l’aere empiendo vai,
     Vaga gentil vezzosa violetta;
5Sul margo a un sì bel rivo io so che fai:
     Sorta è già l’Alba, il Sol da te s’aspetta,
     Ma non già quel che in Cielo, il carro affretta;
     L’altro mio Sol, che il Sol vince d’assai.
Deh! quand’egli verrà, cortese fiore,

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     10Digli, che tante stille onde se’ pieno,
     Non son dell’Alba ma del mio dolore.
E se fia che ti colga, e ponga in seno,
     Scendi alla manca parte, e digli al core:
     Tirsi aspetta pietade o morte almeno.


XX.13


Quando Matilde al suo sepolcro accanto
     La mesta d’Innocenzio urna scoprìo:
     Ahimè il buon Padre (e interrompea col pianto
     Gli accenti) ahimè, dicea, ch’egli morìo!
5Or chi l’Impero e chi la gloria e il vanto,
     Sì ben custodirà del dono mio?
     E in qual parte del Cielo eccelsa tanto
     N’andò, ch’in Ciel nè meno or lo vegg’io?
Così dicea la regal Donna, e il duolo
     10Crescea mirando l’urna umile, incolta,
     Benchè superba del gran nome solo.
Non lungi era la Fama, e disse: ascolta:
     Non ti lagnar: vive Innocenzio, e solo
     La pompa di se stesso ha qui sepolta.


XXI.


Stassi di Cipro in su la piaggia amena
     Un’alta Reggia, dov’Amor risiede:
     Colà mi spinsi, e di quel Nume al piede
     Presentai carta d’umiltà ripiena.
5Sire (il foglio dicea) Tirsi, che in pena
     Servìo finor, la libertà ti chiede;
     Nè crede orgoglio il dimandar mercede,
     Dopo sei lustri di servil catena.
La carta ei prese, e in essa il volto affisse;
     10Ma legger non potea, ch’egli era cieco,
     E conobbe il suo scorno e se ne afflisse.

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Indi con atto disdegnoso e bieco
     Gittommi in faccia lo mio scritto, e disse:
     Dallo alla Morte: ella ne parli meco.


XXII.


Un Cestellin di paglie un dì tessea
     Tirsi, cantando appiè d’un verde alloro;
     Dentro vi chiuse un bacio, e poi dicea:
     Vanne in dono a colei per cui mi moro.
5Piacque l’opra ad Amor. Dentro al lavoro
     Vezzi alla Madre tolti anch’ei chiudea,
     E in un le punte di que’ dardi d’oro,
     Che scelti sol per le bell’Alme avea.
Quando l’aprì la semplice Nigella,
     10Il bacio del Pastor corse non tardo
     A prender loco in sulla fronte bella.
Ogni vezzo si sparse al viso ond’ardo;
     Verso il ciglio volaron le quadrella,
     E son quelle ch’ognor vibra col guardo.


XXIII.


Al Tribunal d’Amore un dì n’andai
     E dissi: o sommo Giudice de’ cori,
     Io piansi e piango ogn’or, chè l’empia Clori
     Mio cor si tolse, e nol mi rese mai.
5Rispose l’Avversaria: Io tel rubai?
     Tu mel donasti: or qual s’udìo ne’ Fori
     Legge d’antichi o di novelli amori,
     Che renda io quel, che tu donato m’hai?
E quando (soggiuns’io) l’alma donata
     10T’avessi ancor, giust’è che si ritoglia
     Un sì gran dono a chi si rese ingrata.
Allora Amor che in un giudica, e regna:
     Costei tenga il tuo cor: tu sempre in doglia:
     Ciascun nel suo possesso si mantegna.


XXIV.


Quando per girne al Ciel di morte a scherno
     Risorgerem da’ cupi avelli e mesti,

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     Chi più bei pregi ebbe vivendo in questi,
     Prevalerà nel Regno alto e superno.
5Donna, che in questo basso e mortal Verno
     Fior di tanta beltade in volto avesti,
     Quanta n’avrai su ne’ giardin celesti
     Sparsa da’ rai del sommo Sole eterno?
Ed io ch’amai già tanto in doglia, e in foco,
     10Quanto amerò là dove fuor d’affanno
     Ogni ben s’ama in un sol bene accolto?
Non puote invidia in Cielo aver più loco:
     Ma se ’l potesse, i più bei spirti avranno
     Invidia a me nel core, a te nel volto.


XXV.14


Ecco il Parnaso: ecco gli allori, e il biondo
     Giovane Apollo alla bell’ombra assiso:
     Vedi le Muse graziose in viso:
     Mira lo stuol de’ Vati almo e giocondo.
5Ma chi de’ Vati è il Duce? unico al Mondo
     Inclito Padre Omero in te m’affiso:
     Te pur di Manto alto Cantor ravviso
     Col glorioso onor d’esser secondo.
Oh prische Anime eccelse? oh fortunato
     Coro! finchè quaggiù fama soggiorna,
     10Voi fregerà d’eterna gloria il Fato.
Quanto v’invidia l’età nostra adorna!
     Non già lo stile, or che s’udì Torquato,
     L’immago sì, che un Raffael non torna.


XXVI.


Tal mi fè piaga un Garzon fero e rio,
     Ch’esser già credo e son di vita spento:
     Nè stupisco esser morto, ma che il mio
     Core pria non morì nel suo tormento.

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5Odo già per la selva alto lamento,
     E pianger Ninfe, e dir: Tirsi morìo;
     Ma s’io morii, come la doglia or sento
     Tra chi mi piange, e come or piango anch’io?
Ah forse non piang’io, ma per le smorte
     10Guance è il cadaver mio, che stille amare
     Versa per l’uso antico di sua sorte.
E s’io pur peno, Amor, questo è il penare,
     Che han dato i Fati a me dopo la morte,
     Poichè in vita fui reo di troppo amare.


XXVII.


E qual sul Tebro pellegrina e rada
     Bellezza splende, che tutt’altre lassa
     Bellezze addietro, onde chi a lei se ’n vada,
     Qual chi va incontro al Sol, il ciglio abbassa?
5Vedi l’aura, che scherza, e le dirada
     De’ capei sparsi la biond’aurea massa;
     E lei, qual’astro, che per notte cada,
     Segnar le vie di luce, ovunque passa?
Cintia direi, che fosse, o Citerea:
     10Ma quella, e questa, e cento Dei superni
     Son fole che sognò la gente Achea.
Dubbiando io vò, se forse in uman velo
     Qualch’Angelo a noi scese: Angeli eterni
     Siete voi tutti, oppur non tutti in Cielo?


XXVIII.


Sognai sul far dell’Alba, e mi parea
     Ch’io fossi trasformato in cagnoletto;
     Sognai, che al collo un vago laccio avea,
     E una striscia di neve in mezzo al petto.
5Era in un particello, ove sedea
     Clori di Ninfe in un bel coro eletto;
     Io d’ella, ella di me, prendeam diletto;
     Dicea: corri Lesbino, ed io correa.
Seguia: dove lasciasti: ove se ’n gìo,
     10Tirsi mio, Tirsi tuo, che fa, che fai?
     Io gìa latrando, e volea dir: sono io.

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M’accolse in grembo, in duo piedi m’alzai,
     Inchinò il suo bel labbro al labbro mio:
     Quando volea baciarmi, io mi svegliai.


XXIX.


La prima volta, che io m’avvenni in quella
     Ninfa, che il cor m’accese, e ancor l’accende,
     Io dissi: è Donna, o Dea Ninfa sì bella?
     Giunse dal prato o pur dal Ciel discende?
5La fronte inchino in umil atto, ed ella
     La mercè pur d’un sguardo a me non rende,
     Qual vagheggiata in Cielo o Luna o Stella,
     Che segue altera il suo viaggio, e splende.
Chi detto avesse a me! costei ti sprezza,
     10Ma un dì ti riderai del suo rigore:
     Che nacque sol per te tanta bellezza.
Chi detto avesse ad Essa! il tuo bel core
     Sai chi l’avrà? Costui ch’or non t’apprezza
     Or negate i miracoli d’amore!


XXX.15


Un giorno a’ miei pensier disse il cor mio:
     Fidi pensier, che mi sa dir di voi
     Quanta è la gloria de’ beati Eroi,
     E come stansi in Ciel gli Angeli e Dio?
5Ah non potete far pago il desìo!
     Stefano vide aperto il Ciel, ma poi
     Tutto ei non disse: e fe’ ritorno a noi
     Paolo, e si tacque; onde dispero anch’io.
Mentre pur fissa era mia mente in quelle
     10Forme, a cui l’uman senso indarno aspira
     Tanto comprese men quanto più belle,
Disse la Fama: e che? tuo cor sospira
     Scorgere il Ciel qual’è sopra le stelle?
     Vanne sul Ronco, entra nel Tempio, e mira.


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XXXI.16


Signor, tutto dell’Asia il Popol empio
     Uscì fuor d’Asia; armò mille guerriere
     Navi, e mille falangi, e feo temere
     La terra e i mari al non più visto esempio,
5Ma bastò tuo gran zelo a farne scempio:
     Fuggon le navi là, cadon le schiere:
     E già le spoglie e l’aste e le bandiere
     Miri al tuo piede, e ne fai dono al Tempio.
Per te l’Austria destossi, e il ferro strinse;
     10Per te s’unìo l’Europa, e armata in guerra
     Sciolse Corcira, e Temisvarro avvinse.
E finche durerà l’alta contesa,
     Vincasi nave in mare, o rocca in terra,
     D’altri sia la vittoria, e tua l’impresa.


XXXII.


Nacque a Tirinto ier, (che gaudio ha il core!)
     Un Fanciullin di mille vezzi adorno:
     Scelga candide pietre ogni Pastore,
     E segni la più bella un sì bel giorno.
5Corra ogni Ninfa al pargoletto intorno
     Qual d’un bacio l’onori, e qual d’un fiore;
     Rinnovi Arcadia mia nel suo soggiorno
     Quel che fe’ Cipro quando nacque Amore.
E tu vago Bambin degno de’ tuoi,
     10Cresci, chè il Tempio e la Palestra molto
     Spera in te rinnovar de’ prischi Eroi.
Cresci, e col minor pregio in te raccolto
     Vinci il maggior d’altrui: vinci se puoi
     Al canto il Genitor, la Madre al volto.


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XXXIII.17


La prisca Roma del sepolcro fuore
     Alzata un dì la gloriosa fronte,
     Dov’è, dicea, l’antico mio splendore,
     Dove son le mie glorie altere e conte?
5Chi tolse ahi del mio scettro all’alto onore
     Il servo Eufrate, il tributario Oronte?
     Ov’è Celia, ove Orazio, ove il valore,
     Che fer sì chiari un tempo il Fiume e il Ponte?
Dove i Cesari son? Più dir volea
     10Quando, o Signore, in voi fissò le ciglia;
     E Costantin rivide in trono adorno.
Lieta allor tornò all’urna, ove giacea;
     L’Arti e le Muse, e in un la Maraviglia,
     Chiamando entro al regal vostro soggiorno.


XXXIV.


Sotto mi cadde quel destrier feroce
     Che per dirupi, ahi, mi guidò nel corso:
     Misero! e a me non giova, e a lui non nuoce
     Scuoter la destra, or ch’egli ha infranto il morso,
5Ei giace, e morde il suolo: io nell’atroce
     Periglio piango, talchè a Tigre, ad Orso
     Farei pietade, e spingo alto una voce,
     Che il Ciel percuote e vorrei pur soccorso.
Ma se t’invoco, or che giacendo io manco,
     10Non mi soccorrer nò, chiudi la porta
     Gran Dio del Ciel a’ miei sospir pur anco.
Chè se risorgo, io non ho fren, nè scorta:
     E senza freno, e cogli sproni al fianco,
     Signor, chi sa dove il destrier mi porta?


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XXXV.18


A governar di Pietro il sacro legno
     Venne dal bel Metauro, il gran Nocchiero:
     Oh qual nuovo per l’onde aspro sentiero
     Oltre le mete dell’Erculeo segno!
5Ma scorgo, ahimè, che intorno arman lo sdegno
     Volturno ingiurioso, Affrico altero:
     Quà latra Scilla, e là Cariddi il fero
     Seno profonda, ov’han le furie il regno.
Ahimè le vele, ahimè l’onda rubella!
     10Ma tu la reggi, e nel suo gran periglio,
     Passa la neve e il mio destin con ella.
Così dal lito a te, Signore, il ciglio
     Dicea volgendo Italia, Italia bella,
     Di cui tu fosti e difensor e Figlio.


XXXVI.19


Che se tornar dopo tant’anni e tanti
     Il divin Raffaello alla primiera
     Vita potesse, e rinnovar suoi vanti,
     Qual si rinnova la Fenice altera!
5Bello il veder le chiare ombre di quanti
     Pria dipinsero, e poi corona e schiera
     Fargli d’intorno, ed esso agli altri avanti
     Spiegar la non mai vinta alta bandiera!
Ma che direbbe poi veggendo il pio,
     10Figlio anch’ei del Metauro, Eroe cui porse
     Roma l’Impero, e il Ciel le chiavi offrio?
Padre, e Signor direbbe, e qual mi scorse
     Ventura, ah ben dovea sorgere anch’io,
     Or che Giulio e Leone in Voi risorse.


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XXXVII.


Due ninfe emule al volto, e a la favella,
     Muovon del pari il piè, muovono il canto:
     Vaghe così, che l’una all’altra a canto
     Rosa con rosa par, stella con stella.
5Non sai, se quella a questa, o questa a quella
     Toglia, o non toglia di beltade il vanto:
     E puoi ben dir: null’altra è bella tanto,
     Ma non puoi dir di lor, questa è più bella.
Se innanzi al Pastorello in Ida assiso
     10Simil coppia giugnea, Vener non fora
     La vincitrice al paragon del viso.
Ma qual di queste avrebbe vinto allora?
     Nol so: Paride il pomo avrìa diviso,
     O la gran lite penderebbe ancora.


XXXVIII.


In quell’età ch’io misurar solea
     Me col mio Capro, e ’l Capro era maggiore,
     Anava io Clori, che insin da quell’ore
     Maraviglia, e non Donna a me parea.
5Un dì le dissi: io t’amo, e ’l disse il core,
     Poichè tanto la lingua non sapea:
     Ed ella un bacio diemmi, e mi dicea:
     Pargoletto, ah non sai che cosa è Amore.
Ella d’altri s’accese, altri di Lei,
     10Io poi giunsi all’età, ch’uom s’innamora,
     L’età degl’infelici affanni miei.
Clori or mi sprezza, io l’amo insin d’allora;
     Non si ricorda del mio amor costei:
     Io mi ricordo di quel bacio ancora.


XXXIX.


Vago, leggiadro, caro Bambolino,
     La tua Germana ov’è? più non la vede
     L’usato fonte, e ’l bel colle vicino:
     Dimmi ov’andò col gregge, e quando riede?
Se dir lo sai, vò darti un porporino

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     Pomo maggior di quel che Albin ti diede?
     Dillo, e ti serbo un bel verde Augellino,
     Cui lega un lungo filo il manco piede.
Tu taci? O ingrato pur quant’Ella è ingrata!
     10Narrar non ti vo’ più miste co’ baci
     Le dolci fole della bella Fata.
Ma tu chiami la Madre? oh miei fallaci
     Voti! la Madre, ch’è già meco irata!
     Prenditi il Pomo, semplicetto, e taci.


XL.20


Vincesti o Carlo. D’atro sangue impura
     Corre l’onda del Savo, il Trace estinto
     Alzò le sponde al Fiume, e la sventura
     Vendicasti ben tu d’Argo e Corinto.
5Erra il Barbaro Re di pallor tinto:
     E Belgrado che fea l’Asia sicura
     Teme i tuoi bronzi, da cui pria fu vinto,
     E non percosse ancor treman le mura.
Or segui a fulminar su i Traci infidi,
     10Finchè vegga il mar negro, e il mar vermiglio
     Rifolgorar la Croce alto su i lidi.
Prendi allor poi di riposar consiglio;
     E l’impero del mondo in duo dividi,
     A Te l’Occaso, e l’Oriente al Figlio.


XLI.21


Chi è costui, che in sì gran pietra scolto
     Siede gigante, e le più illustri e conte
     Opre dell’arte avanza, e ha vive e pronte
     Le labbra sì, che le parole ascolto?
Questi è Mosè. Ben mel diceva il folto
     Onor del mento e ’l doppio raggio in fronte:

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     Questi è Mosè, quando scendea dal monte,
     E gran parte del Nume avea nel volto.
Tal’era allor, quando con piè non lasso
     10Scorse i lunghi Diserti; e tal nell’ora,
     Che aperse i mari, e poi ne chiuse il passo.
Qual’oggi assiso in maestà s’onora,
     Tal’era il Duce: e qual scolpito è in sasso,
     Tal’era il cor di Faraone allora.


XLII.


Dalla più pura, e più leggiadra stella,
     Ch’empie tutti di luce i Regni sui,
     Ne scelse Iddio la più bell’alma, e quella
     Mandò quaggiuso ad abitar tra nui.
5Ma poi crebbe sì vaga e tanto bella,
     Ch’ei disse: ah non è più degna di Vui;
     E la tolse a’ Profani, e in sacra cella
     Per sè la chiuse, e cosa era di lui.
Vago il mirarla or che fra velo e velo
     10Tramanda un lume da’ begli occhi fuore,
     Come di Sol tra nube e nube in Cielo!
Fora cieco ogni sguardo, arso ogni core
     Al raggio allampo alle faville al telo,
     Se in parte non coprìa tanto splendore.


XLIII.22


Questo è il dì, che nel Cielo il Sol vestissi
     D’atre gramaglie, e in mezzo all’aria bruna
     Insanguinata cormparì la Luna
     Con doppio orro di non più visto ecclissi.
Questo è il dì, che ugualmente in duo partissi
     Il velo e la montagna: ad una ad una
     Si aprir le tombe, e l’infernal lacuna
     Muggìo nel centro de’ profondi abissi.
In sì gran giorno che bagnò di pianto
     Gli Angeli e portò ’l duolo in Paradiso,
     Giorno di sì gran lutto ed orror tanto,

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Sol’io non piango? io sol non mi risento?
     Io, pel cui fallo il Divin figlio è ucciso?
     Questo, ah questo è il maggior d’ogni portento.


XLIV.


Cento vezzosi pargoletti Amori
     Stavano un dì scherzando in riso e in gioco.
     Un di lor cominciò: si voli un poco.
     Dove? un rispose; ed egli: in volto a Clori.
5Disse, e volaron tutti al mio bel foco,
     Qual nuvol d’Api al più gentil de’ fiori:
     Chi 'l crin chi ’l labbro tumidetto in fuori,
     E chi questo si prese e chi quel loco.
Bel vedere il mio ben d’amori pieno!
     10Due colle faci eran negli occhi e dui
     Sedean coll’arco in sul ciglio sereno.
Era tra questi un Amorino, a cui
     Mancò la gota e ’l labbro, e cadde in seno;
     Disse agl’altri: Chi sta meglio di nui?


XLV.23


Illustre Duce che i trionfi tuoi
     Conti con le battaglie, e questa gloria
     Hai sovra gli altri bellicosi Eroî,
     Che dovunque vai Tu, va la vittoria:
5Sì ben la Tracia abbatti e i furor suoi,
     Che non v’ha tra le prische ugual memoria;
     E l’ampia strage oggi palese a noi,
     Toglierà fede alla futura istoria.
Or ecco il brando, che dall’alta Roma
     10Ti manda il pio Clemente, onde trafitta
     Sia l’Asia, e i lauri accresca alla tua chioma.
Stringilo, o Duce, con la destra invitta:
     E qual diè nome a Scipio Africa doma,
     Dia più bel nome a te l’Asia sconfitta.


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TRADUZIONE DELL’ANTECED. SONETTO

di

GAETANO MANFRONI


Tu qui tot numeras, quot bella, triumphos:
     Heroasque super gloria prima tua est,
Magnanime EUGENI, quod te victoria semper
     Insequitur, tua quo signa movere placet.
Sic THRACES, motusque suos prosternis, ut æqua
     Nulla tuis memoret prœlia Fama vetus.
Stragibus hinc tantis, quas tempora nostra tulere
     Posteritas certe est non habitura fidem
Engladium Clemens Domina quem mittit ad Urbe;
     Vince Asiam, et lauros crinibus adde novas.
Hunc cape: Scipiadæ ut quon dedit Africa nomen,
     Addatur titulis Asia victa tuis.


XLVI.


Tornami a mente quella trista, e nera
     Notte, quando partii dal suol natìo,
     E lasciai Clori, e pianger la vid’io
     Non mai più bella e non mai meno altera.
5Oh quante volte addìo dicemmo, addìo,
     E il piè senza partir restò dov’era!
     Quante volte partimmo, e alla primiera
     Orma tornaro il piè di Clori e il mio!
Era già presso a discoprirne il Sole,
     10Quando le dissi alfin; ma che le dissi
     Se il pianto confondeva le parole?
Partii, chè cieca sorte e destin cieco
     Voller così, ma come ahi mi partissi
     Dir non saprei: so che non son più seco.

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XLVII.


Nasce l’Illustre Ciro, e nasce appena,
     Che gli è forza fuggir le memorande
     Ire d’Astiage, e va di pena in pena
     Dovunque avvien che cieca sorte il mande.
5Se voi vedete in boschereccia arena
     Assisa fra Pastori anima grande,
     Egli è Ciro, che accoglie a suon d’avena
     Umili versi, e povere ghirlande.
Ma la fortuna alfin si squarcia il velo;
     10Porge a Ciro la spada, ed ei l’impugna,
     Dando un guardo alla spada e un guardo al Cielo.
E non racquista sol l’avito Impero;
     Doppiansi a Ciro i Regni: abbatte espugna
     E Medi e Persi e l’Oriente intero.


XLVIII.


Presso è il dì che cangiato il destin rio
     Rivedrò il viso, che fa invidia a i fiori,
     Rivedrò que’ begli occhi e in que’ splendori
     L’alma mia, che di là mai non partìo.
5Giugner già parmi e dirle: amata Clori,
     Odo il risponder dolce: o Tirsi mio:
     Rilegendoci in fronte i nostri amori,
     Che bel pianto faremo e Clori ed io!
Ella dirà: dov’è quel gruppo adorno
     10De’ miei crin, ch’al partir io ti donai?
     Ed io: miralo, o Bella, al braccio intorno.
Diremo, io le mie pene, Ella i suoi guai....
     Vieni ad udirci, Amor, vieni in quel giorno
     Qualche nuovo sospiro imparerai.


XLIX.24


Che si farà di questa ampia Antonina
     Mole, che il campo ornò di Marte, ed ora

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     (Grazie a chi regna e il secol nostro onora)
     Si toglie a oscura ignobile ruina?
5S’innalzi, ove la fronte alma e divina
     Il Sol che nasce al Laterano indora,
     E veggia il Pellegrin che il tempo adora
     Che vive ancor la maestà Latina.
Poi su la cima aureo Colosso industre
     10Ergasi a lui che impera; e incida questi
     Carmi la Fama appiè del marmo illustre:
Ceda Augusto a Clemente: ei dalla guerra
     Il Lazio, ma dall’alte ire celesti
     Tutta Clemente assicurò la Terra.


L.25


D’allor che adorna l’eliconia gente
     A Febo una corona un dì chiedei,
     E dissi: io del magnanimo Clemente
     L’alto illustre Nipote ornar vorrei.
5Sorse il Nume dal soglio e con ridente
     Sguardo lieto si volse a’ voti miei:
     E si tolse dal crine aureo lucente
     Quella che avea de’ più bei lauri ascrei.
Indi questo ch’io cingo in Elicona
     10Serto a lui porgi, ei disse, al chiaro ingegno,
     E a’ modesti pensier degna corona:
Ma giunga ah presto dalla Siria sponda
     Ostro, che il cinga, e sia serto più degno:
     Scarso premio a gran merto è lieve fronda.


LI.26


Anime illustri, il cui gran nome in queste
     Selve risuona, e fia ch’alto rimbombe
     Finchè il Sol muova; ah perchè mai sì preste
     Volaste al Ciel quai candide Colombe!

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5Oggi era tempo che Voi in Noi viveste
     Potess’io torvi alle funeree tombe!
     Oggi è quel dì che risonar fareste
     L’inclite cetre e le famose trombe.
Cadde l’alta Belgrado, e indarno accorse
     10Africa ed Asia, ella non ebbe scampo,
     E fu primo a cader chi la soccorse.
Quanto il vostro morir pianger si debbe!
     Se viveste or che pugna Eugenio in campo
     Voi quanta gloria, ei quante lodi avrebbe!

     15Ei quante lodi avrebbe,
          Ei di Tracia il terrore,
          Che tanto nome accrebbe
          All’Italo valore!
          Quante avrìa lodi il Santo
          20Pastor, che al Tebro impera!
          A lui si doni il vanto,
          A lui la Palma intera,
          Che il suo pianto, il suo zelo
          Fer sì gran forza al Cielo.
     25Tornasse pur fra noi
          27Polibo, onor dell’Arno,
          Degno cantor d’Eroi!
          Ma lo sospiro indarno.
          Tornasse, a noi tornasse
          30Giù pe ’l sentier del Sole
          28Erillo, e qui cantasse!
          Ma sù per l’alta mole

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          Stassi ne’ cerchi aurati
          A ragionar co’ Fati.
     35Se tornasse un di tanti,
          Cui grava alto riposo,
          Quai non avrebbe vanti
          Cesare glorioso!
          Io non so dir quei carmi,
          40Ch’alto cantor direbbe:
          Ma pure al suon dell’armi
          Sento, che in sen mi crebbe,
          Crebbe il mio foco antico,
          E così parlo: e dico:


LII.


Viva l’Augusto Carlo. Oppressa e vinta
     Cadde Belgrado, e già la Croce adora?
     Bacia l’auree catene, ond’oggi è avvinta,
     E del nuovo Signor se stessa onora.
5Ma questo è poco. Alle difese accinta
     Tutt’i suoi Regni spopolò l’Aurora:
     E già fugata e prigioniera, e spinta
     Fu la grand’Oste: e questo è poco ancora.
Io del destino apro i volumi, e leggo,
     10Che del barbaro Impero è già maturo
     L’ultimo eccidio che nel Ciel si trama.
Poi volgo il guardo in ver Bizanzio, e veggo
     L’ombra di Costantino alta sul muro,
     Che il successor dell’Austria aspetta e chiama.


LIII.


Amor s’asside alla mia Filli accanto,
     Amor la segue ovunque i passi Gira:
     In lei parla in lei tace in lei sospira,
     Anzi in lei vive, ond’ella ed ei può tanto.

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5Amore i vezzi, Amor le insegna il canto;
     E se mai duolsi o se pur mai s’adira,
     Da lei non parte Amore, anzi si mira
     Amor nelle belle ire Amor nel pianto.
Se avvien che danzi in regolato errore,
     10Darle il moto al bel piede Amor riveggio,
     Come l’auretta quando muove un fiore.
Le veggio in fronte Amor come in suo seggio,
     Sul crin negli occhi sulle labbra Amore:
     Sol d’intorno al suo cuore Amor non veggio.


LIV.


Io veggio, ahimè, che il biondo crin s’annegra
     Anzi v’è filo incanutito e bianco:
     Quel brio dov’è, quel brio libero, e franco
     Dell’età fresca giovanile allegra?
5Ahi che spariro i lieti giorni, ed egra
     Sen vien vecchiezza, e mi s’asside al fianco:
     Sarìa di piagner tempo, e non pur anco
     Cantar Febo in Anfriso, e Giove in Flegra.
Tempo sarìa le non più bionde chiome
     10Spogliar del vano alloro, e in Pindo il seggio
     Lasciando, i passi e ’l cor volger altrove.
E sarìa tempo di pensar siccome
     Morte m’aspetta in fier sembiante, e deggio
     Irmen con essa, ahi! non so quando e dove.


LV.29


Lucido sol che non derivi altronde
     Che da te stesso, ampia cagion primiera,

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     L’unica cui virtute in tre s’infonde
     Per sì meravigliosa alta maniera:
5Tu nel tuo Figlio, il Figlio in te s’asconde,
     Egli e tu nello Spirto: o sola e vera
     Gran deità, che il suo poter diffonde;
     Ma in tre diffusa, in ciascun regna intera:
Eterno immenso Padre, eterno immenso
     10Figlio, immenso ed eterno Amor, ch’ardendo
     Nel seno d’ambiduo sei Dio con loro:
A voi m’innalzo, in voi m’affiso e penso:
     Ma quanto più a voi penso, io men v’intendo,
     E quanto men v’intendo, io più v’adoro.


Fine de’ Sonetti del Zappi.

Note

  1. Sopra la Statua di Giulio Cesare.
  2. Si scusa Lucrezia.
  3. Per il Moisè, Colosso di marmo di Michel Angelo nel Tempio di S. Pietro in Vincoli.
  4. Per un Oratorio dell’Eminentissimo Ottoboni, intitolato la Giuditta.
  5. Per il modestissimo Sepolero della Cont. Matilde in Vaticano.
  6. Nell’Assunzione al Pontificato di Clemente XI.
  7. Cercandosi nella Ragunanza degli Arcadi di qual fronda, e di qual fiore dovesse farsi la corona ad Alnano Sommo Pastore.
  8. Per la venuta a Roma della Regina di Polonia Vedova del famoso Re Gio: III.
  9. Per la notte del Santissimo Natale.
  10. Nel dì dell’Assunzione, della B. Vergine.
  11. Ritratto di Raffaello d’Urbino dipinto da lui medesimo nel Palazzo Vaticano.
  12. Si biasima il fatto di Lugrezia.
  13. Pel modestissimo sepolcro, che Innocenzio XII pose a sè stesso dirimpetto al sontuoso monumento della Contessa Matilde in Vaticano.
  14. Il monte Parnaso colle Immagini degli Antichi illustri Poeti, Pittura di Raffaello nel Palazzo vaticano.
  15. Per la Cupola della Catt. di Forlì dipinta da Carlo Cignani.
  16. Alla Santità di N. S. Papa Clemente XI. per la Lega, e vittoria contro il Turco l’anno 1716.
  17. Coronale pel Dramma del Costantino Pio fatto dall’Eminentissimo Pietro Ottoboni nel 1710.
  18. Per una Corona in lode di N. S. Papa Clemente XI.
  19. Loda il Pontefice Clemente XI.
  20. All’Imperator Carlo IV per la sconfitta del Turco in Ungheria l’Anno 1816.
  21. Sopra la statua di Moisè scolpita dal Buonaroti.
  22. Per il Venerdì Santo.
  23. Al Serenissimo Principe Eugenio, in occasione dello Stocco mandatogli da nostro Signor Papa Clemente XI.
  24. Per la Colonna Antonina.
  25. Coronale in lode del Sig. Abb. D. Alessandro Albani Nipote di Clemente XI., poi Cardinale di Santa Chiesa.
  26. Celebrandosi i Giuochi Olimplici, in memoria degli Arcadi illustri defunti, giunse l’avviso, ch’era stato disfatto l’Esercito Ottomano, e ricuperato Belgrado l’anno 1717.
  27. Vincenzo Sen. da Filicaia.
  28. Alessandro Guidi
  29. Vuolsi, che altro Gio: Battista Zappi, il vecchio ne sia l’autore.