Rime dell'avvocato Gio. Batt. Felice Zappi e di Faustina Maratti sua consorte/Rime ad Aglauro Cidonia

Rime ad Aglauro Cidonia

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Rime a Tirsi Leucasio Sonetti del Signor avvocato Gio. Felice Zappi
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RIME


AD AGLAURO CIDONIA.1





GIO. BATTISTA RECANATI.


 
Quando ad Amor od a Fortuna piacque
     (Chè l’uno e l’altra al nostro ben congiura)
     Voi dell’Adria condur, sulle bell’acque,
     Ove l’Arte potè vincer Natura:
La superba al mirar grande struttura,
     In cui l’asilo a tutta Italia nacque,
     E la raminga, e altrove mal sicura
     Latina libertade in sen le giacque:
Se stupiste nol so, so ben che pieno
     Di gioia allor fissando in voi le ciglia
     Il Genio d’Adria vi raccolse in seno.
E da insolita indotto maraviglia
     Delle vostre virtudi al gran baleno
     Invidiò a Roma una sì illustre figlia.


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ANDREA MAIDALCHINI.2


Carlo morìo, e alla sua tomba intorno
     Roma, Italia dolente, il Mondo tutto
     Piangea: la Gloria sol con ciglio asciutto
     Lo mira, e segna tra suoi Fasti il giorno.
5Or Donna tu, se di tai pregi adorno
     Lo miri, il ciglio asciuga, e spoglia il lutto:
     E sia dell’amor tuo ben degno frutto
     Dargli vita miglior del tempo a scorno.
Canta di lui: sin dove il Sol risplende
     10Andrà sua fama, da tua lira espressa,
     Senza che tema più morte o vicende.
Così a lui fia vita immortal concessa
     Ne’ carmi tuoi: Tu delle sue stupende
     Opre in cantare eternerai te stessa.


GIACOMO CANTI.


Donna gentil, che il nobil petto adorno
     Albergo reso delle Muse avete,
     Onde a più degni spirti invidia e scorno
     Colle vostre bell’opre ognor movete:
5Poichè la Fama, che già vola intorno,
     Dice il meno del Bel, che in voi chiudete,
     Fate col vostro stil ch’il Mondo un giorno
     Venga a saper da voi, quel che voi siete
Vedrassi allora che i begli occhi vostri
     10Degni son che ne’ carmi ognun v’onore,
     E famosa vi renda a’ giorni nostri:
Ma chè? Lo spirto e ’l vostro alto valore,
     E ’l vivace intelletto e i puri inchiostri
     Vi fan degna di gloria assai maggiore.


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GIO. BATTISTA CIAPPETTI.


I.


Qualunque dotto ingegno a lodar prende,
     Illustre Aglauro, i tuoi gran pregi in parte,
     Uopo ha di molta esperienza e d’arte:
     Tanta e sì chiara in te virtù risplende.
5Io, perocchè tant’alto non ascende
     L’opera mia, non tento già lodarte
     Se di te scrivo, ma fò noto in carte
     Il buon voler che dentro me s’accende.
Nè sol l’omero mio vinto sarebbe
     10Da sì gran peso, ma di lui, che tanto
     Il Tosco stil col suo bel lauro accrebbe.
Chè non hai sol di bella Donna il vanto
     Pari a colei che tanto ad Ilio increbbe:
     Ma pari ancora a chi ne scrisse, il canto.


II.


Per onorar le nostre umane inferme
     Forze scendesti in terra, o illustre Donna,
     E più che in marziale usbergo, in gonna
     Umil mostrasti virtù salde e ferme.
5Col tuo nome io non posso od Arco, o Terme,
     O in regal oro alta locar Colonna,
     Ond' ei dal tempo rio, che non assonna,
     Sopra quei marmi si difenda e scherme.
Ma farò ben che di bel lauro ornate
     10Vadano, Aglauro, coi miei rozzi carmi
     Vostre chiare virtù, vostra beltate.
E spererò, nè invan sperar ciò parmi,
     Che passeranno alla futura etate
     Più durevoli assai che i bronzi e i marmi.


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GIO. PIETRO ZANOTTI.


I.3


E qual sì industre man ritrar poteo,
     E sia qualunqu’è più chiara e famosa,
     Donna, a cui grazie il Ciel cotante feo,
     E in cui gran parte ha di sua luce ascosa?
5Tal forse in Sparta al Rapitore Ideo
     Bella apparì di Menelao la sposa,
     Onde poi la vendetta alta chiedeo
     Grecia, e guerra sostenne aspra e noiosa.
Ma tal già non avea la Grecia infida
     10Virtù, che sempre a beltà pregio accrebbe,
     Che Troia non saria distrutta ed arsa.
Dono infelice a lui promesso in Ida!
     Non così questo, onde Faustina avrebbe
     Asia sol d’onestate accesa e sparsa.


II.4


Ben mi può torre, che a mirar non giunga
     Vostre bellezze, e vostri almi costumi,
     E quei, siccom’è fama, ardenti lumi,
     Ond’avvien, ch’Amor tanti e leghi e punga:
5Ma non puo strada, e sia scoscesa e lunga
     E torta, e per dirupi aspra e per dumi,
     Nè per selve, montagne, e mari e fiumi,
     E s’altro è pur, che me da voi disgiunga,
Far ch’io non legga, e non ammiri in questa
     10Parte le rime vostre e la divina
     Virtù, per cui tanto la mente ho accesa;
E però il cuor, cui null’intoppo arresta,
     A Voi sen corre, e come Dea v’inchina
     Veracemente giù dal Ciel discesa.


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GIO. BATTISTA CATENA.5


sestine.


M’è sparito dagli occhi il mio bel Sole:
     E chi resister puote a tant’orrore?
     È spento ogni splendore, o mia pupilla,
     E l’alma si distilla in doglia e in pianto!
     Ma dov’è intanto il lume d’una Stella,
     6Ch’in gran procella io son lontan dal lido?
Or che dell’Adria il Sole è giunto al lido,
     Di duolo è nido l’egra mia pupilla,
     Ed ogni stilla addensa più l’orrore,
     E cresce col dolore anch’il mio pianto.
     Ecco muta il suo ammanto anch’ogni Stella
     12Per comparir più bella incontro il Sole!
Ferma, o Pensiero, i vanni avanti al Sole,
     Giacchè sì duole all’ombra la pupilla:
     E una scintilla prendi da quel lido,
     Che sia di speme nido, e non di pianto,
     E tolga il muto incanto a quest’orrore;
     18Questa farà rossore a ogn’altra Stella.
Con questa luce io non cerco altra Stella:
     Questa sia quella, che mi guidi al lido:
     Ad altra io non m’affido in quest’orrore.
     Ripiglia il tuo vigore, o mia pupilla,
     A una favilla dell’almo mio Sole.
     24Chi meco gioir vuole? io lascio il pianto.
Ninfe, e Pastori, or che ho finito il pianto,
     Al salto, al canto, insin che torni il Sole,
     O andiamo a cor’ viole intorno al lido.
     Amor ti sfido: Io prenderò una Stella,
     E tu la tua facella in quell’orrore:
     30Giuochiamc’il cuore, o almeno una pupilla.

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Ah ch’io deliro! Tu non hai pupilla,
     L’onda non è tranquilla, e lungi è il lido.
     Aglauro i’ grido; non tardar il mio Sole,
     Sul Tebro splender suole amica Stella.
     Aglauro bella, io mi disfaccio in pianto:
     Se indugi tanto, io moro in quest’orrore.
Così la Stella fugherà l’orrore,
     E la pupilla darà fine al pianto,
     E godrò il Sol più lieto in questo lido.


ABBATE C. I. FRUGONI.


Invitando Aglauro a venire a Venezia, ne descrive il viaggio.


Chè non vieni, Aglauro bella,
     Valorosa Pastorella
     3All’Adriaca Città,
Chè del Mare nata in seno
     Di sè posto ha l’aureo freno
     6Nelle man di Libertà?
Piano è il calle, agevol, breve:
     Sù via giungi al carro lieve
     9Quattro fervidi destrier.
Chè più tardi? Ecco gli Amori
     Gire innanzi, e di bei fiori
     12Seminarti ogni sentier.
L’almo suolo, ove or tu sei,
     Omai lascia, che gli Dei
     15Degnar troppo a tanto ben.
Nè ritenga il tuo bel piede
     La Città, che in riva siede
     18Del famoso picciol Ren.
Sebben chiara eccelsa madre
     Sia d’ingegni, e di leggiadre
     21Alme accese di valor:

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Sebben pronta in vari modi
     A vestir l’alte tue lodi
     24Di poetico valor:
Dritto vanne ver l’antica
     Tanto a Febo ancor amica
     27Gran Città, che bagna il Pò:
Dove al suon d’amori e d’armi
     Divin Cigno co’ suoi carmi
     30L’aure e l’acque innamorò.
Ivi sol ti posa tanto,
     Ch’ei ti vegga d’un bel pianto
     33Il suo cenere onorar:
E l’avello, onde ancor mille
     Movon delfiche faville,
     36D’un gentil verso segnar.
Ma non tinger di bell’ira
     Il sembiante, su cui spira
     39Vezzo e grazia anco il furor.
Di Torquato il nobil tetto
     Pur là sorge, nè disdetto
     42Per me vienti il fargli onor.
Quelle mura fortunate,
     Se fian sol da te baciate
     45Che bramar potran di più?
Delle cose, che hanno vita,
     E d’Amor senton ferita,
     48A tal ben qual scelta fu?
Pur gl’indugi rompi e togli,
     Nè soverchio a star t’invogli
     51Il piacer che inganna il dì.
L’uno e l’altro Cigno altero
     Ferrea legge di severo
     54Sordo Fato a noi rapì.
Già ti chiama su le chete
     Placid’onde agile abete,
     57Ove Amor nocchier sarà;
E saranvi le tre belle

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     Grazie seco, e in un con elle
     60Allegrìa, che con lor sta.
Vedrai piani, vedrai sparte
     Ville, e case a parte a parte
     63Lungo il margine apparir:
E del calle ogn’aspro affanno
     Per temprarti elle sapranno
     66Il lor nome a te ridir.
E sapranti ancora elette
     D’Amor vaghe canzonette
     69Su la cetra accompagnar:
E i bei versi, onde Savona
     Tanto grido ha in Elicona,
     72Ed i tuoi forse cantar.
Ma nel Pò non tener fiso
     Deh soverchio il vago viso,
     75Onde tanti Amor ferì:
Splendon troppo i tuoi bei lumi:
     Arser anco i freddi Fiumi
     78Per minor bellezza un dì.
Ben è ver, che l’unto pino
     Tosto il Veneto marino
     81Pigro stagno solcherà:
Ed oh quale il Mar farassi,
     Sù lui quando alto vedrassi
     84Sfavillare tua beltà!
Le Nereidi in quel giorno
     Al bel Legno liete intorno
     87Sorgeranno a carolar:
E a suonar le torte conche
     I Tritoni, e le spelonche
     90Del mar tutte rallegrar.
Piagge, e lidi, ed acque e venti
     Tanto allor lieti e ridenti
     93Si mostraro, e forse più,
Quando l’alma Dea di Gnido
     Fender l’onde, e al caro lido
     96Approdar veduta fu.

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Onestà non era seco,
     Qual vedrassi venir teco
     99Di candor cosparsa il vel:
E dirà: Quest’Alma bella
     Tra noi scese dalla Stella,
     102Che più pura splende in Ciel.
Ben a Teti fia, che incresca
     Il confronto, e che non esca
     105Del stuo lucid’antro fuor:
Sebben quando esce dal Mare
     Tra suoi Numi assisa appare
     108Su gemmata conca d’or.
Ma dell’una e l’altra nera
     Tua pupilla messaggiera
     111Qualche Ninfa a lei n’andrà:
Molto a lei dell’agil fianco,
     Del crin bruno, e del sen bianco,
     114Ma non tutto dir saprà.
In fin quella veder dei
     Gran Città, che gli alti Dei
     117Sopra l’acque collocar:
E in lei cento eccelse moli
     Di Teatri al Mondo soli,
     120E di Templi torreggiar.
Qual più brami in Mare, e in Terra
     Al tuo sguardo si diserra
     123Doppio comodo sentier:
Ma tu tienti, a quel, che snella
     Fender vedi Navicella
     126Di sagace Gondolier.
Fra lietissimi pensieri,
     Sopra i morbidi origlieri
     129Posa il fianco, e in giro va:
E Palagi vedrai starsi
     Sopra l’onde, e quelle farsi
     132Terso specchio a lor beltà.
Che fia poi qualor velato

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     Vedrai d’ostro il gran Senato
     135L’ampia Sala riempir:
E la prisca di Quirino
     Gloria in esso, e il bel Latino
     138Chiaro Genio rifiorir?
Ma già lieta ecco s’appresta
     A condur qui gioia, e festa
     141La stagione del Piacer.
Giovinetta, che di rose
     Flagel siringe, e le noiose
     144Cure fuga, e i rei pensier.
Mascheretta a lei non manca,
     Ch’arte industre in sottil bianca
     147Cera involse, e figurò:
Pronte ha quante adorne e belle
     Di vestir fogge novelle
     150Francia altera a noi mandò.
Calzan già gli aurei coturni
     Lieti Drammi nè notturni
     153Ozi usati a risuonar:
Già gli amanti, come vuole
     Liberta, che seco ir suole,
     156Riconsigliansi d’amar.
Deh quai candidi ed onesti
     Piacer preganti, che a questi
     159Dolci lidi volga il piè!
Bei contenti, e bei diporti
     Della vita son conforti:
     162Senza lor bella non è.
Vieni, Aglauro, e qui disvela
     Que’ due lumi, ove si cela
     165Amor quale in Ciel si sta.
Vieni, e godi: fuggon l’ore,
     E nemica empia d’Amore
     168Ratto vien la curva età.


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ALLA STESSA.

Invito a restituirsi in primavera da Venezia a Bologna.


D’Adria il mar, d’Adria le belle
     Rive amiche a Libertate
     D’alti tetti incoronate
     4Cittadina avranti ognor?
Peregrina t’ebber elle,
     Che ad Ottobre pampinoso
     Già Novembre freddo acquoso
     8Scuotea tutto il verde onor.
E già il pigro Verno algente
     Sente a tergo April rosato,
     Che bell’erbe torna al prato,
     12Belle chiome all’arboscel:
Odorosa, rilucente
     Primavera qui t’aspetta,
     Che a Favonio lascivetta
     16Lascia in preda il bianco vel.
Qui vedrai, varcato il Mare,
     Rondinella in tetto amico
     Tesser voli, e il pianto antico
     20Dolcemente rinnovar;
E vedrai, se l’Alba appare
     Fra bell’aure mattutine,
     Puro gel d’argentee brine
     24Su per l’erbe tremolar.
Quai fiorita siepe ombrosa
     Rosignoli or non asconde?
     Dolce all’un l’altro risponde,
     28Tace il rivo, il vento sta.
Villanella desiosa
     Con la schietta incolta fronte
     Torna anch’essa al caro fonte
     32Consiglier di sua beltà.
Erran greggi, erran pastori
     Per le molli piagge amene:

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     D’ineguali agresti avene
     36Suon, che taccia, omai non è.
Bionde Grazie, alati Amori
     Già ripiglian archi, e faci,
     Già in volubili e vivaci
     40Danze guidan l’agil piè.
Quai sì cari, e quai sì lieti
     T’offrirà piacer costei?
     Sia pur l’opra degli Dei,
     44Cui non altra sorga egual:
Brune antenne, e negri abeti,
     Genti a metter vela ardite
     Pel gran Regno d’Anfitrite
     48Dietro a barbaro Corsal.
Riedi Aglauro. Te d’Aprile
     Non sol vaghi venticelli,
     Non sol sponde di ruscelli,
     52Sù cui ride amenità:
Ma con versi d’aureo stile
     Te rappella il picciol Reno,
     Gentil fiume, che ripieno
     56Del tuo nome ancor sen va.
Non sovvienti, che tranquille
     Dolci sere qui traesti,
     E che stuolo ti vedesti
     60Di Poeti al fianco star?
Chi le brune tue pupille,
     Chi la grazia degli accenti,
     Chi l’onor dei crin lucenti
     64Dolce udivasi cantar.
Riedi Aglauro. Nuovi canti
     Tenghiam pronti al tuo ritorno;
     L’ali metta il fausto giorno,
     68Che a noi renderti dovrà.
Lo splendor de’ tuoi sembianti,
     Che soave al cuor mi serpe,
     Più che Pindo, più ch’Euterpe
     72Nuovo Pindaro mi fa.


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GIUSEPPE PAOLUCCI

della stessa

AGLAURO.


Or che Sirio in Ciel risplende,
     Di quel biondo almo lieo,
     Che sì brilla, e d’òr s’accende,
     M’empi il nappo, o Alfesibeo.
     Ma nò: quel, ch’è del colore
     Del rubin, sarà migliore:
     Questo io voglio: il nappo pieno
     8Fammen sì, che n’empia il seno.
 Vedi qui come zampilla,
     E col sole i raggi mesce:
     Io non vuo’ lasciarne stilla,
     Tal desio di sè m’accresce:
     Beviam dunque: e sia di quella
     In onor, ch’è la più bella:
     Ecco già, che al labbro io l’ergo,
     16E le viscere n’aspergo.
Oh di qual nuovo piacere
     Sento l’alma inebriarsi!
     Empi l’altro, ch’io vuo’ bere,
     Finchè tempri il caldo, ond’arsi.
     Morde, è ver: ma la ferita
     A riber più dolce invita.
     Oh felice il suol, che dato
     24N’ha liquor sì nuovo e grato!
Io non so se Giove, e il resto
     Della Plebe degli Dei
     Ebber mai simile a questo
     Dolce nettar, ch’or bevei:
     O se pur tal’ anche sia
     Quell’ambrosia, onde per via
     Febo suol le nari e ’l morso
     32Ai destrier spruzzar nel corso.
E ben sento anch’io nel petto

[p. xli modifica]

     Nuovo ardor crescermi e lena:
     Ed il sangue al cuor ristretto
     Sciolto gir di vena in vena.
     Chi mi porge quella Lira?
     Chi quei bischeri v’aggira,
     Perchè possa indi alle corde
     40La mia voce unir concorde?
Venga poi Tirsi in tenzone,
     O chi fama ha più nel canto,
     Ch’io non temo il paragone:
     Tale ardir mi siede accanto.
     Di Te poi, ch’illustre, e chiaro
     Già ten vai d’ogn’altro a paro
     Tacerò: ch’i pregi tuoi
     48Vanti eguale a i primi Eroi.
Dirò ben di lei, che sola
     Tutto ha il Bel, che un dì fu in Ida:
     E ad ogni altra il pregio invola,
     Dolce parli, e dolce rida:
     Nè sai dir se dardi scocchi
     Più dal labbro o da’ begli occhi,
     Se tai quindi escon piaghe
     56Crude più, quanto più vaghe.
Or di tante e qual bellezza
     Avverrà, che prima io mostri?
     Poi chi sa se a tanta altezza
     Giungeranno i versi nostri?
     Veggio Amor però lontano
     Farmi cenno con la mano,
     Perchè agli occhi io volga i carmi,
     64Che fur primi a saettarmi.
O che bel veder quei rai
     Quando Amor ne tien governo!
     Così Venere giammai
     Sfavellar in Ciel non scerno.
     Ma che fia, se poi ritrosi
     Gli raggira o pur sdegnosi?

[p. xlii modifica]

     Nel mirarli così scuri,
     72Non v’è cuor che s’assicuri.
Pur sì forte in me s’accende
     Il piacer di vagheggiarli,
     Che maggiore in me si rende
     Il desio di celebrarli.
     Ma pur temo, e vorrei solo,
     Ape industre andarne a volo
     Sovra il fior degli altri pregi,
     80Raccogliendo i più bei fregi.
Labbra tenere, e vezzose,
     Vostre lodi or voi ridite,
     Giacchè tanta il Ciel ripose
     Grazia in voi, qualor v’aprite:
     E ben quindi escon parole
     Da fermar nel corso il Sole,
     Tanto più quanto son use
     88A parlar coll’alte Muse.
Nè men dolce, o vago è ancora
     Quel bel volto, o meno alletta,
     Se co’ gigli ivi talora
     Suol fiorir la violetta.
     Anzi queste son le spoglie,
     Ove Amor cela sue voglie:
     E tal forse quando ardea
     96Per Adon fu Citerea.
O bel sen di neve pura,
     Delle Grazie albergo, e stanza,
     Ove il Ciel pose, e Natura
     Il più bel d’ogni speranza,
     Di lodarvi in me non manca
     Il voler, nè voglia ho stanca;
     Ma mi turban quei severi,
     104Ch’ascondete, alti pensieri.
Quei pensier, ch’io veggio accesi
     Ne i bei rai d’aspro talento,
     A ribatter forse intesi

[p. xliii modifica]

     La baldanza e l’ardimento:
     Tal però non è disdegno,
     Nè rigor, ma solo è segno,
     Che vorrian ristretto un cuore
     112Fra speranza e fra timore.
Neri crin, s’ultimi andate
     Fra le lodi, e ’l canto mio,
     Non è già, perchè voi siate
     Meno cari al mio desìo.
     So, ch’il biondo è bel, ma poi
     Anche il nero ha i pregi suoi;
     Belle sono in Ciel le Stelle,
     120Perchè l’ombre le fan belle.
Non v’è crin, che non diffonda
     Quel fulgor, che all’òr simiglia,
     Talchè treccia aurata, e bionda,
     Più non reca maraviglia:
     Bianco volto, e capei bruni
     Non son fregi sì comuni:
     E quaggiù quanto bellezza
     128Rara è più, vie più s’apprezza.
Non fu già vanto volgare
     Della Giovane Amiclèa
     Bruna chioma, ch’alle rare
     Sue bellezze aggiunta avea:
     Con quei crini Amor più forte
     Formò i nodi a sue ritorte:
     E veder ne fè le pruove,
     136Quando prese, e avvinse Giove.
Ma tu bevi, e a me che roco
     Già son fatto, più non pensi!
     Di quell’altro or dammi un poco,
     Che stillar l’uve Cretensi:
     Vuo’ veder se sia bastante
     Quell’ambrifoco spumante
     A far sì, ch’io poi senz’ale
     144Spieghi un volo alto immortale.

Note

  1. Per la di lei venuta a Venezia.
  2. Invita a cantar le lodi dell’estinto Genitore.
  3. Per il ritratto della signora Faustina Maratti da lei donatogli.
  4. Alla stessa.
  5. Delirio Poetico per l’improvvisa partenza d’Aglauro da Roma per Venezia.