Oro incenso e mirra/Mirra
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MIRRA
Fior di sambuco,
Io filo intorno a te come fa il baco
Per chiudermi e morir dentro il tuo buco.
Vociò Mengo, il carrettiere toscano, picchiando il pugno sulla tavola e sfidando collo sguardo lucido Rocco, il suo avversario romagnolo; ma questi, più vecchio, lungo e scarno, coi pomelli già rossi dalla sbornia, si alzò per rimbeccare.
Lo stornello toscano era sembrato a tutti molto piccante.
— Eh! non vincerai — lo apostrofò Tugnazza, un gran tocco di contadino bugiardo, che si vantava sempre di aver servito come soldato nella cavallerizza della regina a Moncalieri, quando essa non era ancora che una piccola principessa del sangue.
— Non vincerai questa volta: bravo Mengo!
Questi aveva già ripreso il bicchiere colmo di sangiovese, e lo alzava al disopra della testa in segno di vittoria, allora il vecchio Rocco adattandosi con una scrollatina il pesante gabbano biancastro, dal bavero di volpe, che non deponeva mai per quanto facesse caldo nell’osteria, si girò tre dita nel collo per allentare il nodo della larga sciarpa rossa in lana, e cantò con voce squarrata:
Fior d’erba amara,
Per me non torna più la primavera,
Ma tu conserva un fior per la mia bara.
— Ohè, Rocco, bene!
— Non basta, un altro! Lo stornello di Mengo era migliore.
— Un altro, un altro! — gridarono parecchi stringendoglisi intorno, mentre egli guardava sorridente cogli occhi piccini.
Nella stanza non grande il caldo e il puzzo erano opprimenti, quantunque nè la finestra nè la porta a vetri chiudessero troppo bene; su pel camino nella parete di contro saliva il fumo fetido di una aringa riscaldata sulle bracie, e le voci s’incrociavano urlanti, stonate, fra lo scalpiccìo della gente pigiata come ad uno spettacolo. Un grosso lume a petrolio, poco pulito, illuminava abbastanza vivamente la stamberga, dietro la quale in un altro camerino si giocava a tresette.
— Tira via, Rocco.
— Finito! — uno replicò. — È come il gallo de la botte!
Tutti si rivolsero a guardare sulla porta del camerino la grande oleografia, inchiodatavi recentemente dall’ostessa, e che rappresentava una botte con un magnifico gallo sul cocchiume e nel fondo questa scritta: «Quando questo gallo canterà — credenza si farà.»
— Gallo lo sono ancora — ribattè Rocco: — portami una ragazza, tu.
— Tira via dunque.
— Tieni.
— Eh! va là che non trovi altro — disse Mengo.
Quindi le voci crebbero ancora quasi schernendo il vecchio Rocco, ma con una secreta simpatia per lui, se avesse potuto battere Mengo, uno fra i migliori stornellisti di Cignale, il paese più vicino di Toscana. Era ancora l’antica rivalità fra i due stati del duca Leopoldo e del Papa. Ci fu come un momento di ansia quando Rocco abbassò la testa per raccogliersi; dall’altro camerino scoppiò un’atroce bestemmia.
Fiore di brina,
Chi picchia donne suona una campana,
Chi spicca rose prenderà una spina.
— Toh! — uno ruggì.
— Oh Dio!
Il fracasso di un tavolo rovesciato, dal quale cadevano litri e bicchieri, arrestò l’applauso, che l’ultimo stornello di Rocco avrebbe provocato; la gente si precipitò per la porta, vi ebbero subito delle braccia alzate, delle urla, una colluttazione di molti contro un solo, il quale si vedeva a stento stretto fra la ressa, mentre Viù, il ragazzaccio gobbo, che tutti conoscevano così tristo, si era già tirato indietro livido come la cenere.
La gente lo interrogava.
— È stato lui... — cercò di rispondere malignamente, ma l’altro dando uno strattone fra le braccia che lo tenevano avvinghiato, alzò il coltello.
— Tu sei stato, maledetto! Volevi piantarmi questo nella pancia, ma te l’ho strappato di mano, e te lo caccio io dentro la gobba.
Un sogghigno perverso stirò le labbra del ragazzo, momentaneamente rassicurato da tutta quella folla, che ratteneva il suo avversario; già i pareri oscillavano. Toto e Ghino, compagni di Viù nella partita, cercarono di dare la colpa all’altro, all’uomo, come lo avevano chiamato per dileggio sino dal principio del giuoco per marcare la sua differenza con loro, che non arrivavano ai vent’anni. Viù, il meno giovane, ne aveva appena diciotto.
Ma gli sforzi di Santone per divincolarsi, mentre nessuno ancora era riuscito a trargli di mano il coltello strappato al gobbo, cominciavano ad impensierire la folla sballottata in quello stanzino troppo angusto contro i muri e nell’impossibilità di potere spiegare la propria forza.
— Mi raccomando, mi raccomando! — si udiva la voce acuta di Teresa, la ricca ostessa, alta, grassa, odiosa, quantunque non brutta, per la esosità della avarizia e l’ipocrita servilità, colla quale trattava gli avventori.
— Se non fosse per Santone, avrei piacere — le rispose sprezzantemente Sughetto, un giovane calzolaio — che venissero i carabinieri e vi facessero chiudere l’osteria.
Ma ella si era già cacciata più avanti senza ripugnanza per tutte le mani che la brancicavano, riuscendo finalmente a riunire Rocco e Mengo perchè disarmassero Santone.
— E tu sta zitto — si volse al gobbo.
La raccomandazione era inutile. Quella specie di furore muto, col quale Santone spiegando una forza prodigiosa tentava sempre di svincolarsi dalla folla per piombare sopra di lui, aveva gelato di terrore la fredda malvagità dell’altro. Istintivamente si era ritirato dietro il banco coperto di marmo, sul quale nei giorni di grande cucina, quando s’accendevano anche i fornelli del camerino, la Teresa disponeva i piatti e li barattava; ma appena lì dentro tremò di non poterne più uscire. Rapidamente tentò colla mano destra, senza che alcuno se ne avvedesse, i cassetti del banco per cercarvi un’arma: erano chiusi.
— Ti sei messo da te nella trappola — uno gli disse ghignando dallo spigolo dell’uscio.
— Lasciatemi, corpo di Dio! — urlava Santone. — Nessuno m’impedirà di finirlo. Ha voluto darmi una coltellata nel fianco, all’improvviso: glielo farò mangiare io il coltello, tutto a pezzettini. Ridi, ah! — gridò essendo già riuscito a liberare la mano, nella quale teneva il coltello.
Tutti si ritrassero istantaneamente, solo il vecchio Rocco gli rimase di faccia.
— E adesso dove vai?
— Lo ammazzo.
— Bella forza! per schiacciare una cimice come lui basta un’unghia.
L’osservazione era così vera che tutti fremettero; Viù, cogli occhi sbarrati, tremava.
— Lo vuoi ammazzare? — seguitò Roccò staccandosi dal banco per mostrargli il ragazzaccio, mentre prima glielo nascondeva quasi col corpo. — Non lo vedi che è già morto di paura? Va là, Santone, che la è proprio cosa da te! Lascia andare, tu sei un uomo.
— Ha voluto ammazzarmi — mormorava l’altro, lasciandosi afferrare nuovamente la mano, nella quale brandiva il coltello.
— Date mente a Rocco, Santone — interloquì la Teresa.
— Tu porta subito una bottiglia, vecchia avara, ma se non è di quello, mi hai capito, invece di tirare il collo al gobbo lo tiriamo a te — le si volse Rocco di mala voglia.
— Bravo, Rocco!
Si cominciava già a ridere, questi aveva tratto il coltello di mano all’altro e, conoscendo il suo carattere impetuoso ma buono, glielo aveva di buona grazia restituito.
— Tienilo, è di buona guerra. Una carogna come lui non paga la carica.
— Adesso sei tu che torni a soffiare — disse qualcuno.
— No.
— Andiamo, via, bisogna fare la pace: quello che è stato è stato. Che diavolo! Viva il carnevale...
Quindi le voci alzandosi e spezzandosi tutte in una volta ruppero la tensione della scena; oramai tutto era sedato, Santone ricadde sulla panca fra Mengo e Rocco, Toto e Ghino senza avere ancora parlato rimettevano a posto il tavolo, mentre la Teresa scopando i frantumi più grossi dei vetri brontolava già:
— Li paghi tu, Santone, i rotti: il litro e tre bicchieri.
— Due: vedete pure che questo è intatto — intervenne Ghino.
— Va da Dio a farteli pagare.
— No, sono io che li ho rovesciati — si fece avanti Viù con voce conciliante, benchè non fosse vero.
— Allora se paghi tu, paga subito, altrimenti non ti credo — si volse l’ostessa.
— Ecco.
E con un pugno di soldi nella mano sinistra tornò presso il tavolo. Non pareva più quello: colla prontezza odiosamente scaltra che lo distingueva, appena convinto di averla scappata bella voleva la rivincita.
— Gran cosa! ecco qua, nove soldi in tutto, ma io avevo perso anche la partita: noi stavamo per quattordici punti e gli altri per due. Pago io la bottiglia.
— Tienti il tuo danaro — mugghiò Santone, facendo atto di alzarsi per gettarglielo in faccia, se lo avesse deposto sul tavolo.
— E perchè? Hai vinto. Che cosa vuoi di più? Sono io che confesso di aver torto.
— E il coltello?
— Lo hai pure nella tasca: io sono senza, eppure mi rimetto qui a sedere. Se vuoi ammazzarmi ammazzami; che diavolo! tutti possiamo sbagliare una volta, non siamo uomini? Si rinviene, non è vero, Mengo? Ohe, Mengo, canta uno stornello. Cantavi pure di là.
Santone ancora rosso dalla fatica di quella lotta guardava quasi trasognato la disinvoltura del ragazzaccio, che sembrava irriderlo con tutto il corpo: una contorsione antipatica gli faceva infatti piegare la testa sulla spalla gobba con atto sgraziato, mentre la larga bocca sensuale e gli occhi piccoli, cilestri, seguitavano a ridere del loro riso cattivo. Con una mano dalle dita lunghe lunghe aveva posato i danari sulla tavola e li teneva coperti. Santone alto e tarchiato, coi capelli rossi, i baffi ispidi, il naso corto e grosso, sembrava un bufalo; tratto tratto abbassava i sopraccigli villosi saettando in giro sguardi diffidenti.
Viù lo vide tastarsi il coltello nella tasca interna della giubba.
— Così non canti, Mengo? Quella falsa scioltezza impacciava anche gli altri, quando finalmente arrivò Teresa colla bottiglia.
— Un’altra, la mia — ordinò Viù spianandosi meglio sulla sedia.
— Vada, tutto è accomodato. Datevi la mano — insistè due o tre volte Mengo.
— Io sempre — rispose Viù, interrogando l’avversario collo sguardo.
Questi gl’indovinò forse nel fondo degli occhietti la sottile canzonatura, e strinse daccapo i pugni; poi vi fu ancora uno scambio lungo, noioso delle solite raccomandazioni, molti già rientrati nella stanza tornarono intorno al tavolo per bere gratis a quella pace, vi ebbero spinte, considerazioni sciocche, complimenti sotto forma d’ingiuria, qualche ingiuria vera fra i pacificatori. Rocco, vessato da tutto quell’intervento, che riduceva a zero la parte così importante avuta nella crisi, se ne andò brontolando, e la pace fu conchiusa finalmente con una terza bottiglia pagata da Santone.
Nullameno questi rimaneva accigliato; Viù invece alzando la voce provocantemente, come un vincitore, aveva già fatto cenno a Toto di ravviare la partita. Santone ricusò brutalmente, ma dopo dieci minuti, bloccato, vinto, giocava nuovamente avendo per compagno lo stesso Viù.
— Asino! — questi gli gridò confidenzialmente alla prima svista: — non vedi che serbando il re di bastoni avremmo fatto l’ultima presa? Tua figlia Santina gioca meglio di te.
— Va dunque a giocare con lei e cavami quattro dita dai...
— Là, là, t’inquieti ancora!
Bevevano già da tre ore. La partita proseguì facendosi mano mano più seria senza attirare altrimenti l’attenzione del pubblico: si sapeva sin troppo che Viù non lasciava passare giorno senza accattare briga, quantunque in fondo fosse un vigliacco e ne buscasse soventi di sonore.
Suo padre, un’altra canaglia, era stato lungo tempo il terrore del paese, poi invecchiando aveva fatto meno paura malgrado l’abitudine delle minacce, e ora diventato idropico per un vizio cardiaco non era più che uno spettro giallo, il quale passava ancora lungo i muri delle case, cogli occhi opachi e il viso smunto, così grottesco nella propria orridezza che i monelli gli davano la baia. E il primo era sempre Viù, il suo unico figlio.
Quel giorno stesso dalla porta della pizzicheria vecchia, questi vedendolo attraversare adagio adagio la piazzetta, lo aveva apostrofato:
— Morite pure contento, babbo: io mi bevo anticipatamente i danari per la vostra cassa.
— Maledetto!
Ma l’ingiuria raccapricciante aveva ghiacciato il riso sulle labbra di tutti. Viù non se n’era dato per inteso, anzi scorrazzando per il paese lo aveva riempito del proprio chiasso di bettola in bettola, seguìto da una torma di giovinastri, che bevevano alle sue spalle. Difatti in quel martedì egli aveva intascato parecchie lire colla tassa sul posteggio, della quale il padre aveva dovuto cedergli la riscossione per non potersi più reggere dritto tutta la mattina a farsi pagare dai villani, che venivano colle ceste al mercato.
Però l’ultima scena con Santone era rimasta sullo stomaco a Viù.
Già, prima, aveva combinato con Toto e con Ghino di prenderlo in mezzo per vincergli una bottiglia e sbertarlo poi ignominiosamente; ma nonostante tutta la sua semplicità quegli se n’era accorto minacciandogli uno scapaccione. Viù di rimando aveva messo mano al coltello, se non che la grossa mano di Santone gli era piombata subito sul pugno stritolandoglielo quasi nello strappargli l’arma. Adesso ci pensavano ambedue scontrandosi tratto tratto con una occhiata seria.
— Mi rendi il mio coltello? — chiese Viù all’improvviso.
— No.
Un lampo sprizzò dagli occhi del ragazzaccio, che finse di stringersi nelle spalle con bonomia.
— Ne comprerò un altro.
Santone non rispose, bevvero ancora, quindi sopraggiunsero altri monelli in sudore, perchè uscivano dal ballo. Se ne parlò, si fecero i nomi delle donne che vi pestavano i piedi sino dal mezzogiorno; uno citò Girella, il peggiore ubbriaco del paese che vi ballava colla moglie e la figlia già grandicella, due sgualdrine, facendosi pagare i poncini da tutti; poi un altro si chinò all’orecchio di Viù:
— C’è anche Santina mezzo ubbriaca.
— Oh!
La partita era alla fine.
— Pago io l’ultimo litro — si volse Viù; poi disse: — Andiamo tutti nel pozzangherone.
Così chiamavano in paese la sala dove si ballava.
— E tu non vieni con noi, Santone? Via! balleremo io e te: io farò da donna, andiamo.
«Si scopron le tombe, si levano i morti» — stridè Viù aprendo la marcia a braccio di Santone invano riluttante fra tutti quei ragazzacci, che lo trascinavano quasi a forza cantando e ridendo.
Fuori la notte era buia, ma uno scirocco umido la manteneva così calda che si sarebbe potuto girare senza gabbano; per la larga ed unica strada del paesello i pochi fanali sembravano scavare delle pozzanghere giallastre entro l’oscurità dell’acciottolato, e lontano, dove il paese finiva ad un muraglione poggiato sopra una fila di archi a difesa della ripa contro la corrente del fiume, e i freddi invernali, si udivano i rantoli di un organetto.
Non erano più delle dieci di notte. Tutti coloro che intendevano prendere parte al carnevale ubbriacandosi nelle bettole o ballando nel pozzangherone, erano già rincasati; dai vetri dei due caffè ancora aperti si vedeva qualche coppia ostinata in una ultima partita a carte entro la luce nebbiosa: quindi un sordo rumore di battenti percossi avvertì la comitiva che anche la Teresa chiudeva l’osteria.
Un centinaio di passi più innanzi, dalle due larghe finestre, al primo piano, di una casetta tutta nera uscivano con un gran lume le battute asmatiche di una polka, che un organetto suonava appoggiandosi sui bassi di un violoncello.
— Senti Caputo come raschia! — osservò Toto spiccando un salto per arrivare primo lassù.
La combriccola invece si arrestò un momento al portone aperto; nel muro di contro, alla stessa altezza, si vedevano passare gesticolando delle grandi ombre entro una specie di vano luminoso, e sparire istantaneamente nell’oscurità della parete; sopra al portone e giù per l’andito nero che si apriva più basso della strada rintronavano le battute di tutti quei piedi, la maggior parte colle scarpe imbullettate, così che i muri ne tremavano; mentre uno strido rauco o un colpo di tacco più violento tentavano di affrettare ancora quel galoppo rovinoso.
— E forza... dalli, dalli dunque! — urlarono cinque o sei voci.
Allora l’organetto, come preso anch’esso nella vertigine della ronda, strinse così freneticamente il tempo che le note stesse sembrarono pestarsi l’una l’altra come i piedi che, non trovando più il terreno sotto, si ammaccavano balzelloni fra il polverìo rosso dell’ammattonato e il vapore di tutti quegli aliti. Infatti dalle finestre spalancate usciva come una nebbia.
— Ballano, ballano! — disse Santone con un sorriso bonario contemplando i salti delle ombre nel muro opposto.
Dall’andito aperto nel fondo, dietro la scala, sopra la ripa del fiume, venivano tra il tanfo della fanghiglia lasciatavi da tutti quei piedi fetori umani più acuti, che non permettevano alcun dubbio sul come gl’inquilini della casa ed altri forse del paese, essendo quel portone sempre aperto anche di notte, usassero del cortiletto. Non v’era lume, ma giù dalla scala scendeva un filo di luce sottile come un ragnatelo, appena sufficiente per indicare per dove dall’andito si montasse alla sala. Alcuni calavano già le scale, benchè il galoppo non si fosse ancora arrestato.
La comitiva entrò.
Sopra il secondo pianerottolo quattro scalini mettevano alla sala, altri due invece scendevano in una specie di cucinetta, improvvisata a caffè, con due lunghe tavole da bettola e qualche cocoma sul focolare, ma era quasi vuota in quel momento. Il padrone, un gran pezzo di facchino dai capelli rossi, senza giacca e con un lercio mozzicone di pipa in bocca, raccolse il loro soldo a testa in un vecchio bacile di ferro, che tornò a posare sopra una sedia mezzo spagliata; più in alto, entro un pezzo di legno, era piantata una candela di sego.
— Avanti, avanti! — diceva con un gran gesto, ma vedendo Santone cercarsi in tasca i fiammiferi staccò gentilmente la candela dal muro.
Era impossibile entrare. In quel momento le coppie dei ballerini si precipitavano dall’uscio verso il caffè sudanti, trafelate; gli uomini trascinando a forza le donne, che sembravano non volervi accondiscendere per quella finta ripugnanza imposta loro dall’uso di dover sempre opporre un rifiuto prima di accettare un rinfresco, e rotolavano quasi dai gradini a grappoli nel buio del pianerottolo, rumoreggiando.
Dentro, la sala era ancora piena. Tre lumi a petrolio, sospesi ai travicelli del soffitto, la illuminavano vivamente; in fondo, presso una delle finestre spalancate, il palco dell’orchestra non era composto che di una tavola con sopra due sedie, e i suonatori affranti guardavano con occhio vago. Si girava a stento. Quasi tutti gli uomini, specialmente quelli che non ballavano, rimanevano ritti, ammantellati come la domenica in piazza, senza muoversi: molte donne attempate sedevano sopra due panche lungo le pareti, ed erano le mamme delle più giovani venute a ballare, ma nessuno le invitava mai se non per lazzo; in un altro angolo due carabinieri in berretto e mantello vigilavano scuri, seri, quasi inosservati. Ma nonostante le finestre aperte era caldo. Un puzzo di cenci sudanti, di scarpe unte colla grascia, di petrolio, di polvere, di fiati mozzava il respiro; si parlava a gruppetti sogghignando, la maggior parte fumavano. E un altro odore acuto di vino cotto veniva per l’uscio della cucina, ove i ballerini bevevano secondo il solito dopo ogni ballo.
Giga, la bella mora, non aveva voluto a nessun patto discendervi quella volta, benchè fosse anche essa fra quelle scritturate dal padrone per il ballo: paga non ne riceveva come tutte le altre, ma solamente a mezzogiorno e sull’avemaria da mangiare: al resto bisognava pensarci da sè eccitando la baldoria e facendo bere i ballerini, perchè lì appunto stava il guadagno del ballo. Ogni bicchierino costava due soldi e non valeva forse due centesimi, poi vi erano le zucchette di aleatico a quindici, a trenta, magari a cinquanta soldi l’una, giacchè si ballava sempre a sfida. Uno scommetteva di piroettarvi intorno mulinando colla donna senza mai urtarvi del piede; nel caso contrario doveva pagare, ma se gli riusciva invece toccava all’avversario. Ed era il ballo più festoso, che eccitava tutti gli orgogli e tutte le curiosità come gli a solo in teatro.
Viù si accostò a Giga.
— Ohè, Mora, vuoi fare una galletta con me?
— Perchè no? adesso, dopo.
— Allora chi pigliamo? Santina?
— È andata via poco fa.
— Con chi?
— Lo so io? — rispose la Mora con un sorriso sprezzante che le scoperse tutti i magnifici denti bianchi. — Cerca tu le donne che vuoi.
Per il ballo della galletta ce ne volevano quattro, e un uomo solo nel mezzo.
Viù invece si accostò a Toto:
— Dov’è Santina?
— Era quasi ubbriaca del tutto, sarà andata a casa.
— Imbecille! Lei non va a casa se è ubbriaca: l’avranno portata fuori.
Toto si mise in cerca che già Perpignano, il direttore di sala, batteva le mani per il nuovo ballo; i ballerini ritornavano lentamente dal caffè a coppie, perdendosi fra la folla, mentre Caputo tentava d’accordare il violoncello e la gente rimaneva sempre lì nel mezzo.
— Indietro dunque, indietro! — gridava Perpignano colle lunghe braccia distese per disegnare il circolo, e intanto chiedeva il soldo a tutti gli uomini che si disponevano in fila con una donna.
— Indietro dunque! Paga il soldo tu, Cristiano: va bene, spingi indietro. Ehi, Tonio! non hai pagato nemmeno l’altra volta, credi che me ne sia scordato? Per Dio! ma se non date indietro vi pesto i piedi: lasciate dunque ballare. Monferrina, avanti! To,... il soldo? Mora, in fila, bella Mora, e tu, Cocca, fatti avanti con Santone. Bene, Santone! quattro salti anche tu, crepi la malinconia, bisogna divertirsi al mondo!
— Viva il carnevale! — strillò Viù spingendo Santone un po’ impacciato colla sua ballerina, la Berta del beccamorti, una ragazza sottile come una faina, dal musetto nero e due occhi che foravano la pelle.
Ella rideva con Viù.
Ma l’ondeggiamento della sala seguitava sempre impedendo al circolo di formarsi malgrado tutti gli sforzi di Perpignano, alto e secco, che pigliava la gente per le spalle, dove meglio poteva, respingendola in fila. Il pubblico troppo affollato quella sera, finiva coll’aver ragione dei ballerini. L’organetto aveva gettato la prima battuta in una nota di falsetto stridula come di una punta sul vetro, che si era perduta nel fracasso; dalle finestre aperte improvvisi buffi di vento abbassavano le fiamme dei lumi a petrolio producendo bizzarri effetti di ombra sopra quella massa grigia, compatta ed oscillante, cui le donne allineate alla parete facevano come una cornice anche più scura. Tratto tratto a un grido di ragazzetto nascosto fra le gambe degli altri, a un urto imprevisto trasalivano.
Viù impaziente di primeggiare apostrofò Perpignano:
— Ridammi il mio soldo, se non sai far stare la gente a posto.
— Ti cogliesse un accidente! come vuoi fare?
— Musica, musica! vedrai che si scostano.
Infatti egli per il primo urtò in Santone spingendoselo innanzi, e tutte le coppie spostandosi in una specie di curva riuscirono a fare il vuoto nel mezzo. La monferrina, intonata con una veemenza di fanfara sugli acuti più stridenti dell’organetto, si allentava ogni tanto nella scarica di quattro passi di polka per riprendere daccapo sopra un ritmo di una monotonia accorante, senza che alcuno se ne impressionasse. Invece si notavano già le bizzarrie del ballo: quelli che non pigliavano mai il tempo e galoppavano pettoruti, o curvi, o dinoccolati, con un braccio intorno alla cintura della donna nella goffaggine pesante di una carezza, che talvolta tentavano di compiere accostandole di più il volto, mentre ella si ritraeva con ripugnanza; altre coppie più strette, che si parlavano all’orecchio brancicandosi; parole ed atti lubrici scattavano come scintille fra il polverio, senza che nessuno di quei volti esprimesse una gioia. Tutti sembravano faticare, colle carni in sudore e la bocca semi aperta. Le donne, meno grevi degli uomini, si lasciavano trascinare guizzando talora negli scambietti della polka con subita agilità.
— A me! — gridò Viù cacciandosi fra Santone e Berta per portargliela via; e difatti vi riuscì col tagliare il circolo insinuandovisi poco più lungi fra le altre due coppie, mentre Santone rimasto nel mezzo fra lo scoppio di una risata generale si sentiva improvvisamente preso alle spalle. Era Cocca, la ballerina di Viù, che per non restare sola lo aveva abbracciato sospingendolo nuovamente al galoppo.
— Ih, ih! frusta, Cocca — si gridava da ogni parte: — tira di fianco come un cavallo da bilanciere.
Allo stesso momento Viù e Berta, nel passargli dinanzi colla leggerezza di due uccelli, sfiancavano daccapo per piroettare nel mezzo.
La piccola Berta sembrava scodinzolare dentro le sottane scartando rapidamente il piede e torcendosi sui fianchi con una mossa, che faceva quasi sempre dare un urlo alla massa. Viù invece era sgarbato, ma la disgustosa brutalità della sua faccia in quelle contorsioni del ballo si animava di una lascivia esilarante. A testa bassa, col comignolo della gobba, che gli saliva quasi sopra un orecchio, fingeva ad ogni istante di precipitarsi contro il ventre della ballerina, e le donne ne ridevano più degli uomini.
— Che duri, che duri! — vociavano le coppie tornate al passo per ripigliare il fiato.
— Vuoi venire a bere? — domandò Santone alla Cocca.
— No.
Ma ad un gesto di Perpignano il galoppo ricominciò così frenetico che tutti ne indovinarono la fine; allora si alzarono proteste, gridii, pestando più violentemente i piedi fra lo scherno di quelli che non ballavano e si compiacevano di vedere i ballerini mezzo frodati del loro soldo.
— Che duri, per Dio!
— È finita, gobbo...
— Bella Mora, avanti!
La Cocca squittì colla sua voce di volpe:
— Santone, tira gli ultimi.
— Vengo io — le saltò innanzi Ghino, mentre l’altro preso dalla vertigine di quel circolo troppo stretto girava sopra sè stesso come un bue colpito da una mazzata fra le corna, ma si rimise quasi subito e, riafferrando la Cocca di volo, all’ultima battuta, la sostenne per aria con una mano.
— A bere, a bere! — urlarono quasi tutti aggruppandosi intorno a Santone, che si era messo violentemente la Cocca sotto un braccio: Viù li seguiva con Berta, Ghino con la bella Mora.
Si misero a tavola nel camerino con dinanzi un piattello di paste e dei bicchierini di vermouth per le donne, gli uomini presero del vino caldo, ma anche lì c’era ressa. La gente non arrivava a potersi sedere, trasudata, senza un pensiero delle correnti di aria che s’infilavano su per le scale, non domandava insistentemente che da bere.
— Se muta vento, Mora, farai la brina su tutto il pelo.
— E tu?
— Dammi una mano che ti faccia sentire fin dove son bagnato.
La Mora alzò le spalle voltandosi a guardare negli occhi Ghino, che le pizzicava una coscia sotto la tavola.
— Non è lì! — ghignò con un impudore sprezzante.
L’altro rimase interdetto. Santone invece non sapendo cosa dire aveva già vuotati due bicchieri di vin caldo, e badava ad offrire delle paste battendo leggermente col labbro del piattello nel seno delle ragazze perchè ne prendessero; nel camerino così pieno era un continuo via vai, molti si affacciavano all’uscio per scambiare una parola o guardavano solo curiosamente senza entrare, mentre la Veronica, sorella del padrone, si affannava indarno per servire tutti.
Viù aveva indettato Berta.
— Perchè, Santone, non vuoi che Santina venga anche lei a ballare?
— Non voglio — replicò l’altro duramente senza accorgersi dei sorrisi che la sua risposta provocava.
— E se fosse venuta! Io almeno non l’ho vista: bel male che ci sarebbe... Adesso sarà a casa.
E la voce di Berta aveva uno squillo tagliente poichè aveva già saputo tutto prima di Toto, e lo aveva detto a Viù.
— Anch’io voglio andarmene presto — disse Santone.
— Perchè? Qui si sta bene — rispose Ghino.
— Voialtri potete starci, io me ne vado.
— Santina non ha paura di rimanere sola a casa?
— Perchè paura?
— Tu l’avresti, Berta?
— Io sì — ribattè con atto monellesco che smentiva le parole.
Ma un altro accordo si era fatto sentire e nuovi ballerini vennero a cercare le ragazze; i tre uomini rimasero a tavola, poi Santone alzatosi per accendere un mozzicone di sigaro ad una bracia del focolare vi rimase seduto presso alla Veronica. Era una vecchia ragazza sdentata, con un gran naso nel quale una narice molto più larga faceva come un buco; ma tutti le volevano bene perchè lavorava tutto l’anno da tessitrice per mantenere il fratello ubbriacone.
Quella fatica di fare da sola i ponci, i caffè e il vino caldo, sempre col viso nel fuoco, le aveva fatto diventare le guance giallastre un po’ lucide.
— Non ho potuto trovarla ancora — mormorò Toto, rientrando, all’orecchio di Viù.
— Io so dov’è.
— Tu?
— Me lo ha detto Berta: è giù nel capanno della Costa con Prugnolina, Scopetta e Sandro. A quest’ora ci saranno già altri.
Toto scattò per andar via.
— Aspetta — fe’ l’altro, gittando una occhiata sinistra a Santone: — si sono portati dietro un fiasco per finire di ubbriacarla, la metteranno in cuccagna.
— Nel capanno ci si sta bene. Turulù vi ha lasciato l’altra settimana un fascio di paglia — replicò Toto cogli occhi luccicanti.
— Adesso bisogna tener qui Santone.
— Vado a vedere.
— No, se vai ci resti: sta qui — conchiuse imperiosamente guardandogli in faccia così che l’altro si sottomise.
— Allora che cosa vuoi fare?
— Andremo giù noi con Santone.
L’altro ebbe un gesto d’incredulità.
— Gli dico che è la Sghemba di Porciano; noi l’abbiamo condotta laggiù d’accordo cogli altri e vedrai che viene anche lui. Tu vai avanti ad avvisare che scappino perchè arriva Santone.
L’altro non capiva ancora.
— E se la scopre?
— Non la scoprirà. È buio; Santina, riconoscendolo alla voce, starà zitta.
Mengo e Rocco entrando dalla scala tagliarono loro il dialogo; allora Santone tornò alla tavola e la Veronica servì altri cinque ponci.
— Abbiamo cantato fino adesso: ohè, Mengo!, torna a dire l’ultimo stornello — esclamò Rocco, che una sbornia affettuosa traeva a confessare la propria inferiorità davanti al rivale.
Fiori di cesta,
Se Adamo c’ebbe a perdere una costa
nel far la donna Dio perdè la testa.
Ma gli stornelli non facevano più effetto a quella ora.
Fortunatamente Santone s’impegnò con Mengo in un discorso di fieno, che non poteva essere breve, perchè quegli ne aveva ancora da vendere una buona partita, tutto il suo ricolto dell’estate. Allora Toto e Viù diedero una occhiata in sala e, non potendo stare neanche lì, uscirono a passeggiare.
La notte era sempre così tiepida, umida e nera; non si sarebbe riconosciuto un uomo a cinque passi di distanza.
— Andiamo laggiù a vedere — insisteva sempre Toto con un tremito spaurito nella voce dopo quella confidenza.
Il gobbo invece rideva silenziosamente: ogni tanto qualcuno usciva o rientrava dal portone.
— Dunque nessuno lo sa ancora, perchè andrebbero per di là in questo caso? — egli osservò accennando verso il fiume. — Che Berta abbia tenuto il secreto? Sarà stato Sandro che non ha voluto avvisare altri; lo conosco. Se gli fosse capitato il tiro da solo, sarebbe stato anche più contento.
— Ma Berta come lo ha saputo?
— Non ha voluto dirmelo.
— Andiamo a vedere.
— Andiamo.
Oltrepassarono il muraglione a passi concitati, quindi sfiancando per un sentiero discesero la sponda del fiume per tornare quasi sotto la casa del pozzangherone. In quella oscurità il pericolo di tombolare giù sino all’acqua era imminente ad ogni passo, ma i due ragazzacci conoscevano troppo bene cinghione per cinghione tutta la ripa per darsene pensiero. Appena in fondo Viù si arrestò mettendo un fischio.
— Vado io.
— No, verrà uno di loro — e ripetè cinque o sei volte quel sibilo del quale era solito servirsi come di un segnale.
Nullameno s’inoltrarono. La corrente del fiume ingrossata dallo sciogliersi delle nevi rumoreggiava sordamente; si distingueva appena il vecchio ponte, e giù pel greto una casa perchè v’era lume ad una finestra. Dall’altro lato non si vedeva che buio. Viù fischiò ancora, poco dopo un’ombra gli si parò davanti.
— Sei tu, Sandro?
— Sì. Ah! lo hai saputo.
— Lo ha saputo anche Santone, almeno cerca Santina.
— Oramai è talmente ubbriaca che non ci riconosce più. Vieni.
— No, torno su per trattenere Santone; ma se mi sentite ancora a fischiare, scappate subito; vuol dire che egli viene giù. Lo conoscete! L’altro era rimasto interdetto. La voce di Viù, la sua premura, mentre tutti lo sapevano così pronto a godersi il male altrui, gli parevano sospette.
— Di’, vuoi mandarci via per restare tu con lei?
— La pigli così? Ti saluto.
— Aspetta.
Toto era perplesso, ma la soggezione verso Viù lo vinse anche questa volta; allora Sandro andò loro dietro per qualche passo, quindi concluse:
— Per me ne ho avuto già abbastanza.
— No, per Dio! — ribattè Viù — io torno subito. Se posso, imbroglio Santone e lo mando a cercare dal lato opposto, altrimenti calo anch’io con lui fischiando. Voialtri fuggite per il fiume: ma se veniamo soli io e Toto, ci divertiremo. Com’è, com’è Santina? — chiese mutando tono.
— Oh! è da ridere; spranga calci come una cavalla.
— Su, svelto, Toto!
E si separarono.
Santone scendeva appunto le scale per tornare a casa, quando essi rientrarono nell’andito.
— Dove vai?
— A letto.
— Vuoi venire con noi invece?
— Dove?
— Abbiamo la Sghemba di Porciano nel capanno della Costa.
— Ohè! — esclamò Santone sorridendo — siamo noi soli?
— Ritorno adesso di là, è mezzo ubbriaca: ho detto che venivo a prendere un fiasco. Vedrai che rideremo.
— Andiamo pure.
Toto non aveva fiatato; malgrado la sua precoce malvagità quel tentativo lo spaventava. Lungo il muraglione diede una gomitata a Viù, ma questi gli disse di andare innanzi; quindi scesero adagio, circospetti, perchè Santone meno agile di loro veniva ultimo.
— Com’è che non parliamo? Pare che andiamo a seppellire un morto — questi esclamò.
— Sta zitto, qualcuno potrebbe seguirci; è meglio che siamo soli.
— La Sghemba ne ha viste ben altre.
— Sai pure che quando s’impunta è capace di non volere alcuno.
— Questa volta la vedremo! — replicò Santone con un franco riso. — È tutto carnevale.
Erano scesi.
— Vado io, voialtri venite adagio — disse Viù sparendo rapidamente nell’ombra.
I due si fermarono. Toto tremava. Benchè il capanno non si distinguesse ancora, non era a più di cinquanta passi entro una insenatura della ripa coperta di virgulti, pei quali coll’agilità della giovinezza non sarebbe stato molto difficile arrampicarsi; e davanti gli si apriva un bel pezzo di fiume asciutto. Santone andò innanzi.
— Vieni, è mezzo addormentata — gli sussurrò improvvisamente Viù sorgendogli di faccia ad una svolta: — Entra tu per il primo che sei il più forte: con te certo non la può.
— Non c’è nessun altro?
— No, io non sono nemmeno entrato: l’ho sentita dal di fuori nicchiare sul fieno.
— Lascia fare a me.
— Bada che ci siamo anche noi dopo — riprese Viù sogghignando.
— Diavolo!
— Ecco.
Toto e Viù si ritrassero, mentre Santone allungando due passi imboccava l’apertura del capanno.
— Ohè, Sghemba! — chiamò a mezza voce.
Un urlo soffocato fu la risposta, intanto che Toto e Viù sgattaiolavano su per la macchia, nella quale gli altri tre erano già fuggiti. Ma Viù si fermò: il rombo del fiume in quel momento gli parve spaventevole. Aspettò ansiosamente con Toto senza capire che cosa potesse accadere, giacchè Santone era sparito dentro al capanno ridendo all’urlo di Santina senza riconoscerla. S’intese un rumore sordo di lotta e la voce di Santone che disse:
— Va là, Sghemba, che non mi scappi.
— No, no — esclamò soffocatamente Toto alzandosi.
— Che fai?
— Vado via.
— Vigliacco! hai paura — rispose Viù con voce tremula.
— Tu sei il vigliacco — replicò l’altro: — va là, questo non ti tornerà a conto.
Un urlo di donna, sottile, disperato, si spense dentro al capanno.
Allora Viù rimasto solo ebbe paura. Benchè la notte fosse buia, si sentì veduto fra quei cespugli: l’aria era pesante, la corrente del fiume scura come l’aria trabalzava rantolando sui sassi, tutto il resto era solitudine. Coll’orecchio teso colse i più piccoli suoni, seguì su per la ripa l’ascensione di Toto, che si separava fuggendo da quel delitto per correre senza dubbio a letto. Nel capanno non si udiva più altro. Santone scambiando la figlia per la Sghemba non si era fatto naturalmente alcun riguardo, mentre l’altra inorridita, inebetita dalla violenza aveva tentato invano di difendersi, poi si era taciuta per una ultima disperata lusinga di non essere così riconosciuta.
— Cercherà di sfuggirgli improvvisamente dal capanno, dopo — pensò Viù.
Ed egli aveva voluto questo per vendetta dello scapaccione toccato come risposta alla coltellata colla quale per poco non aveva aperto un fianco a Santone. Tutto quanto gli restava ancora di meno guasto nella precoce perversità del cuore balzò in sussulto; poi il silenzio dentro il capanno, come se quei due vi fossero morti, gli diè una paura istantanea, pazza, di poter essere anch’egli ucciso.
D’un salto, col medesimo ribrezzo di Toto, si cacciò a caso su per l’erta, ma quando giunse sulla cima era già pentito di aver ceduto a quel moto istintivo; allentò il passo e si dispose a tornare nel pozzangherone.
— Sei stato da Santina? — gli chiese Berta col suo sorriso sfrontato.
La festa non gli parve più quella. Infatti la maggior parte di coloro che non ballavano l’avevano abbandonata; per le finestre spalancate l’aria della notte, entrando con un freddo umido, sbatteva sinistramente le fiamme dei lumi a petrolio, mentre gli ultimi ballerini, i più ostinati, ballavano come trottano i cavalli da vettura poco più discosti dalla stalla anche se sfiniti. Egli non rideva più. Gli sembrò che la gente lo esaminasse, Toto e Ghino erano spariti, nel botteghino vuoto del caffè la Veronica affranta dormigliava sopra una sedia. Nell’insopportabile crescendo di quella oppressione si ricordò l’atroce ingiuria detta nel pomeriggio al padre, ridotto ad uno spettro, spregiato da tutti per le violenze di una volta, e che nullameno lo aveva sempre amato alla propria maniera. La mamma era morta l’anno passato, in una sera di carnevale, mentre egli, Viù, ballava in quello stesso pozzangherone: se ne ricordava benissimo, che erano venuti indarno a chiamarlo, ma sin d’allora anche i peggiori giovinastri del paese lo avevano giudicato e condannato senza appello.
— Vogliamo fare il saltarello? — gli passò innanzi Berta.
— Balla tu l’ultima zucchetta — aggiunse un altro.
— Balliamola, balliamola! — replicò Berta.
— Ti ho detto di no, figlia di beccamorti.
— Tu sei il beccamorti, che uccidi tuo padre.
— Ohè, ohè! — intervenne il padrone — qui si sta allegri. Balli o non balli la zucchetta? Viù scrollò la spalla gobba senza rispondere.
— Che canaglia! — gli disse dietro il padrone.
Ma appena fuori il tormento gli si fece più acuto, avrebbe voluto sapere a qualunque costo come la era andata a finire, e invece appena il pensiero gli si fermava su quella domanda si sentiva correre per le ossa un brivido gelato. Qualche cosa, che prima non avrebbe mai supposto, gli capovolgeva la coscienza, bizzarri rimorsi della vita condotta sino allora gli battevano sul cervello colla violenza di un’accusa, contro la quale non trovava risposta; perchè aveva fatto così? Involontariamente tornò al muraglione spiando giù nelle tenebre, ma non udì altro che il rombo del fiume, continuo e misterioso, perdersi nell’invisibile. La notte buia diventava sempre più fredda senza stelle e senza vento: egli solo era così agitato. Sapeva dove abitava Santone, ma non ebbe il coraggio di passare da quel vicolo per vedere se vi era lume alle sue finestre, e Santina vi fosse tornata. Ella era come lui depravata e perversa.
Era riuscita a scappare senza farsi riconoscere?
Avrebbe voluto sperarlo, perchè non ne sarebbe a quel modo rimasto più che uno scherzo: che importava il fatto, se Santone non se ne accorgeva? Questa strana moralità era la sola, nella quale vedesse chiaro. Poi quella tensione troppo forte per il suo spirito si spezzò lasciandolo in una specie di sonnolenza bruta, con un malessere di sbornia e una ripugnanza istintiva a tornare in casa, dove suo padre solo sul pagliericcio stava senza dubbio rantolando come tutte le altre notti. Accese la pipa e ripassò per tutto il villaggio, quanto era lungo, mettendosi sulla strada di Porciano. Adesso pensava alla Sghemba, quell’altra sgualdrina egualmente nota ai due paesi per la brutalità chiassosa delle proprie avventure, e ancora abbastanza bella malgrado i quarant’anni passati.
Cantò Mengo, da lontano:
Fior di cicuta,
Io remo e la barchetta va spedita
Perchè, donna, dal cor mi sei caduta.
Allora Viù affrettò il passo per incontrarlo, ma quando potè scorgere un’ombra s’accorse che un’altra le veniva dietro. Si avvicinava lentamente, egli riconobbe Santone e saltò la siepe nascondendosi dietro un grosso olmo.
Si capiva che andavano a spasso per digerire il troppo vino ingollato, poi Mengo traballando riprese il discorso di prima con quella ostinazione degli ubbriachi, specialmente quando un ricordo affettuoso li mette sui racconti di famiglia.
— Perchè vedi — si sentiva piagnucolare la sua voce — io le volevo un gran bene; l’avevo sposata senza la camicia contro la volontà di mio padre, che mi avrebbe voluto dare in moglie la Ghita. Va là, vi avrei trovato duecento scudi di dote, che non mi avrebbero giovato gran cosa. Bisogna amarsi piuttosto in famiglia: allora, anche se torni a casa qualche volta ubbriaco, tutto si accomoda. La Ghita ha sposato Giustino, ebbene, Giustino ha fatto un cattivo affare... bisogna che porti sempre il basto e lei sopra. Tu capisci. Ma se vi volete bene in famiglia... la non dura. Qualche cosa ci ha sempre da essere di guasto in casa, o la moglie o la figlia.
Santone diè un soprassalto.
— Non dico per la tua, ma è così. Io non ho figlie, se le avessi, farebbero come le altre; che colpa ne abbiamo noi? Io me lo sono detto mille volte, i primi giorni, quando mi veniva da piangere anche per strada; e che, la colpa è mia, se Teresa mi è morta di parto? Lo so, doveva accadere così, perchè fu così, ma mi pare, guarda, mi pare talvolta ancora di avercene avuto colpa. Non è vero: io non ce ne ho avuta, dillo anche tu. Non avrebbe potuto accadere anche a te? Tu vai a casa, e la moglie resta gravida: ebbene? Dovevo saperlo io che sarebbe morta?
Santone alzò la testa; erano oramai presso l’olmo, ma l’altro non finiva il discorso.
— Infine — mormorò Mengo — chi non ne ha colpa non ne ha. Che cosa ci può fare un uomo? Ti capitano alle volte delle cose che non si crederebbero a raccontarle: io ho ammazzato mia moglie, sono io l’assassino! — esclamò Mengo con un singhiozzo.
— L’assassino è chi lo sapeva! — mugghiò Santone cupamente stringendo i pugni nell’ombra.
Eppure nessun altro assassinio n’è seguìto. Il fatto narrato la mattina da Toto occupò tutti i discorsi del paese senza che alcuno pensasse a denunciarlo alle autorità. Viù, sbigottito, sulle prime tentò di negare, ma siccome Santone era partito per Porciano, dove andava qualche volta a lavorare nelle carbonaie, non stette molto a vantarsene. Quindi la lubricità dello scherzo ne fece presto dimenticare l’orrore, molto più che Santina negando risolutamente non se ne mostrava affatto preoccupata.
— Il rovescio di Mirra! — disse un giorno il segretario comunale, appassionato filodrammatico, vedendola passare sgonnellando per la strada.
— Mirra, che cosa? — chiese il sindaco, ex maresciallo dei carabinieri, che aveva preso moglie nel paese.
E l’altro colse a volo l’occasione di spiegargli lungamente il caso della tragedia alfieriana.